Cinema & Serie TV

Black Mirror: Stagione 5 – Di sesso, social network e popstar

Avviata nell’ormai non così vicino dicembre 2011 e sviluppata con quattro stagioni e due episodi special, Black Mirror è una di quelle rare serie che negli anni sono riuscite nell’impresa di attrarre un vasto pubblico attorno all’analisi di tematiche complesse e mai accessibili a tal punto da divenire banali. Sarà certo dovuto in gran parte alle ombre che la creatura di Charlie Brooker è riuscita stagliare sulle nostre consuetudini sociali e sulle fondamenta stessa dell’esistenzialismo moderno, ma la ammaliante presa di alcuni episodi di Black Mirror reifica come pochi tipi di narrazione quella terribile morsa della consapevolezza del torto, dell’ingiusto normalizzato, del paradosso innestato nel quotidiano. Ignavia e passività del singolo nel contemporaneo si traducono nella distopia di un futuro malato, del quale si finisce per subire l’ansiogeno momento oppressivo. 

Se tuttavia le prime due stagioni di Black Mirror – sotto il network di Channel 4 –  impattarono sulle ingenue convinzioni di milioni di spettatori con grande originalità di approccio, dal 2016 – con l’acquisizione da parte di Netflix – il programma ha avviato, maturando in una prospettiva internazionale, un vistoso processo di trasfigurazione di nuclei tematici e linguaggio che in questa questa quinta stagione raggiunge il suo definitivo compimento. 

Mettiamo subito in chiaro quindi un elemento essenziale della trattazione che stiamo per elaborare: il Black Mirror del 2019 non è assolutamente quello delle origini, e nemmeno ha intenzione di accostarcisi. Lontanissimi da intrecci complessi da digerire come quello del pilot di serie e comunque ben distanti dai picchi d’angoscia di episodi come U.S.S. Callister, le tre puntate di questa nuova stagione che abbiamo visto in anteprima seguono la lezione di San Junipero ed Hang the DJ nell’accompagnare verso una riflessione sì presente, ma sempre mediata attraverso concept intelligenti che solo di rado insistono con la violenza caustica a cui la serie Netflix viene regolarmente associata. La quinta iterazione dello show – da oggi disponibile sulla piattaforma di streaming – osa meno, non più eccessivamente cerebrale (come nel caso di Bandersnatch), ma lineare in soluzioni originali i cui risvolti lasceranno senza il minimo dubbio molti spettatori a bocca spalancata. Curiosi? Non vi resta che continuare nella lettura della nostra recensione! 

Come visto nei trailer  distribuiti, la quinta stagione di Black Mirror si impianta su tre storie piuttosto diverse l’una dall’altra, in verità non solo per il contenuto in sé, ma in generale per l’atmosfera costruita e per gli intenti prefissati da ciascun intreccio. Tra i tre, Striking Vipers e Smithereens sono di certo i due episodi più vicini alla scrittura delle stagioni apripista e di conseguenza alla natura fondamentale della serie, Rachel, Jack e Ashley Too, di contro, acquista inedite venature da commedia che sovvertono il contesto drammatico di riferimento, preferendo a questo un più sicuro intrattenimento non però fine a sé stesso.

Muovendo da una critica alla massificazione dell’arte e allo sfruttamento di quest’ultima (e dell’artista) per mero profitto, Rachel, Jack e Ashley Too vive della dicotomia tra i percorsi paralleli della popstar Ashley O (una buona Miley Cyrus, certo non istrionica come una certa Gaga) e della sua giovane fan Rachel (Angourie Rice), la prima in cerca della libertà creativa tanto agognata, la seconda catalizzata dai continui tentativi di imitare la sua figura di riferimento. L’alienazione del successo, la trattazione (superficiale) dell’eutanasia, gli estremi malati del consumismo artistico, la denuncia dell’ipocrisia alle spalle dello show business, un antagonista macchiettistico e il tono parodistico dell’esposizione sono tutti tasselli – in gran parte per Black Mirror atipici – che mirano inevitabilmente ad un reale concreto ed esistente, riproponendo la storia personale della stessa Miley Cyrus con il ruolo di Hannah Montana e sviluppando infatti con questo dualismo continui schemi paralleli. Al netto delle questioni comunque interessanti sollevate, Rachel, Jack e Ashley Too, nella sua alternanza di commedia e dramma, mette in piedi una pastiche transmediale a tutti gli effetti funzionante nei suoi pretesti autoironici, che dunque cattura e diverte, pur essendo in toto estranea a quanto esplicato fino ad oggi dalle idee di Brooker. 

Lo scorrere di Smithereens è un pugno nel volto che traccia una terribile epifania

All’estremo opposto troviamo invece Smithereens, il frutto forse meno eccentrico tra le nuove parabole antologiche, altresì però il più familiare rispetto ai toni consueti dello show. Apparentemente avvolto attorno alle estreme conseguenze dei pericoli dei servizi di ride hailing (Uber e simili, per intenderci), Smithereens si rivela invece una messa in discussione – a tratti decisamente didascalica – della tecnologia tout court, con un focus nello specifico sui social network e la dipendenza da questi provocata. Costretto per il grosso del minutaggio nello spazio limitato di un’automobile e guidato da un climax drammatico, denso e penetrante, lo scorrere della puntata – nonostante la scontatezza del messaggio di fondo – è un calcio nei reni della peggiore specie, un pugno nel volto che traccia una terribile epifania, raggiunta grazie ad un’ottima regia e soprattutto per merito della straordinaria performance di Andrew Scott (Sherlock, Spectre). Gli spasmi, la rabbia, la disperata razionalità del Christopher di Scott figurano il grido di una società affondata in un sostrato digitale volto a consumarla. Negli ultimi minuti di Smithereens è racchiusa tutta l’identità tragica e corrosiva del migliore Black Mirror, quel vuoto assoluto piantato nell’ottica dello spettatore.

A concludere infine l’analisi di questa contenuta trilogia troviamo per ultimo Striking Vipers, il cui arco narrativo dal sapore a tratti inquietante, a tratti agrodolce, condensa concept multipli ed abusati all’interno di un’unica sorprendente architettura, organica e compatta. L’indagine dell’intreccio investe il confine limitato tra amicizia e sessualità, tra realtà ed esperienza virtuale, portando alla tensione estrema il tipico disagio di una vita familiare standardizzata e priva di stimoli che viene dunque direzionata verso l’escapismo. La tecnologia e la sua chiave ludica qui appaiono esclusivamente come mezzi di estensione di uno studio postmoderno sulla essenza e sui limiti del sentimento e delle pulsioni fisiche, affrontato con parentesi sopra le righe (di richiamo verso il cinema di genere di bassa lega) che contribuiscono a costruire un soffocante effetto di straniamento, perenne “sottofondo” della puntata. Ottime inoltre le prestazione attoriali di Anthony Mackie (il Falcon del Marvel Cinematic Universe), Yahya Abdul-Mateen II (Aquaman, Noi) e Nicole Beharie (che molti di voi ricorderanno come Abigail Mills da Sleepy Hollow), immersi in un contesto tanto alienante quanto tangibile e tutto sommato plausibile in un non troppo lontano avvenire.

In definitiva, la quinta stagione di Black Mirror è senza dubbio un prodotto di particolare valore, che ha deciso alla fin fine di svincolarsi dalla rigida natura imposta dagli episodi apripista per accogliere una vocazione all’indagine sociale ed esistenziale a tratti drammatica ed angosciante (come in Smithereens), a tratti invece leggera e parodistica (come in Rachel, Jack e Ashley Too). Non è in assoluto il Black Mirror che abbiamo conosciuto nei primi anni, difatti ci troviamo di fronte ad una produzione internazionale certo più avara di idee e forse meno coraggiosa nella denuncia, eppure è arrivato il momento di accettarne l’evoluzione e godere dell’opera di Brooker non con un occhio al passato, ma magari con due al futuro.

Simone Di Gregorio

Da sempre cinefilo e videogiocatore, passioni di una vita e forza propulsiva nel quotidiano. Scrivo, guardo e gioco, ormai da 2 anni a questa parte. Responsabile sezione cinema.

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