Cinema & Serie TV

Chernobyl – HBO dritta al nocciolo

Giungere ai titoli di coda di Chernobyl non è facile. Seguire la serie è un conto, metabolizzarne gli eventi ed accettarne l’esistenza è più dura, perchè ogni dato, ogni vittima ed ogni colpevole sono come schegge che trafiggono la trachea lasciandoti senza parole, attonito e incredulo. Vorresti che da qualche parte, a lettere cubitali, ci fosse scritto “gli eventi ed i personaggi della serie sono frutto di una mente fantasiosa e forse malata, cose del genere non possono accadere nella realtà”.

Ed invece svesti questa incredulità fanciullesca e realizzi che Craig Mazin con Chernobyl non ha fatto altro che raccontare l’umanità, nient’altro, senza voler raccontare una storia che fosse strappalacrime o gore, Chernobyl è una piccola e quasi insignificante frazione di mondo che però lo descrive nella sua interezza. Quella nefasta notte di trentatrè anni fa, precisamente il 26 aprile 1986, ha segnato uno spartiacque nella vita di milioni di persone in tutto il mondo.


Chernobyl non si serve di draghi, zombie o eroi con cappa e spada per creare un prodotto che sia assuefacente e corrosivo allo stesso tempo, gli basta mettere in scena l’umanità.


Chiariamolo subito, la serie HBO è un capolavoro. Non devo sicuramente dirvelo io dato che su IMDB un plebiscito di quasi trecentomila persone l’ha incoronata come serie più apprezzata sulla piattaforma, scalzando mostri sacri quali Breaking Bad ed Il Trono di Spade.

Craig Mazin ed il regista Johan Renck hanno saputo destreggiarsi tra le maglie del comunismo d’annata mostrandone le due facce: quella meschina ed arrivista, che in nome degli interessi personali e dei traguardi mette in pericolo il prossimo, un’elitè gerarchica e geriatrica che non riesce a comprendere la situazione e non vuole neanche provarci, limitandosi a sottovalutare la portata dell’incidente e cercando di sminuirne il valore mediatico in nome della supremazia dell’URSS; il tutto affinché questa continui ad essere recepita dal mondo come una superpotenza infallibile, alla cui tutela pensa lo spietato KGB.

Da sinistra a destra: l’ingegnere capo della centrale Nikolai Fomin (Adrian Rawlins, di spalle), il direttore della centrale Viktor Bryukhanov (Con O’Neill) e l’assistente capo ingegnere Anatolij Dyatlov (Paul Ritter) a colloquio dopo quella che credono essere l’esplosione di uno dei reattori.

L’altra faccia che completa questo quadro efferato e lugubre è rappresentato dall’eroismo del popolo sovietico. I pompieri che stoicamente hanno continuato a spegnere l’incendio subito dopo l’esplosione quando alcuni di loro già iniziavano a manifestare strane patologie; i volontari che si sono tuffati nei condotti delle cisterne del reattore piene d’acqua radioattiva per evitare che il collasso del nocciolo a contatto con l’acqua potesse creare un’esplosione termica dalla potenza stimata tra i 2 ed i 4 megatoni e capace di spazzare Minsk e Kiev; il team di scienziati (incarnati per esigenze di regia nella figura della co-protagonista Ulana Khomyuk interpretata da Emily Watson) che ha collaborato giorno e notte alla risoluzione del disastro; i quattrocento valorosi minatori di Tula che, senza protezione alcuna, hanno dato la loro vita per scavare un tunnel sotto la centrale ed evitare che le radiazioni contaminassero le falde acquifere che sfociano nel Mar Nero, bacino idrico principale dei Balcani.

«La fusione della centrale di Chernobyl… è stata forse la causa del collasso dell’Unione Sovietica» — Michail Gorbačëv

Ecco, una delle poche critiche che si possono muovere alla produzione è l’eccessiva distinzione tra buoni e cattivi, troppo marcatamente divisi. In Chernobyl o si è eroi, o corrotti. Le tante storie che si intrecciano nel disastro della centrale nucleare raccontate da Mazin e Renck sono tratte per lo più dalle interviste ai sopravvissuti della scrittrice premio Nobel per la letteratura nel 2015, Svetlana Aleksievič, che nel 1997 pubblicò Preghiera per Chernobyl.

Tutte queste storie consegnate alle cronache dal vortice di morte radioattiva scatenatosi a Chernobyl trovano giustizia nell’interpretazione mimetica dell’intero cast, con una menzione d’onore per i colossi Jared HarrisStellan Skarsgård, i due protagonisti che interpretano Valerij Alekseevič Legasov, vicedirettore dell’istituto dell’energia atomica Kurchatov, e Boris Shcherbina, vicepresidente del consiglio dei ministeri e capo dell’ufficio per il combustibile e l’energia, deputati da Gorbačëv e dall’URSS a salvare non solo Pripyat, ma l’Europa intera.

Da sinistra a destra, i membri della squadra risolutiva dell’emergenza: Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård) vicepresidente del consiglio dei ministeri e capo dell’ufficio per il combustibile e l’energia, Ulana Khomyuk (Emily Watson) scienziata dell’istituto per l’energia nucleare dell’Accademia di scienze della Bielorussia e Valerij Alekseevič Legasov (Jared Harris) vicedirettore dell’istituto dell’energia atomica Kurchatov.

Sulla recitazione bisogna aprire una breve parentesi, poichè la bravura del cast è riuscita a far passare quasi completamente in secondo piano un elemento che è impossibile non considerare stridente: l’uso dell’inglese. Essendo una produzione occidentale è lecito aspettarsi una recitazione in lingua anglosassone, ma la connotazione così marcatamente sovietica (non potrebbe essere altrimenti) della narrazione entra spesso in conflitto col contesto.

Gli autori hanno correttamente deciso di inserire elementi della parlata sovietica dell’epoca, come i TG, le trasmissioni alla radio, canzoni e filastrocche accompagnate da elementi visivi come stendardi e documenti in cirillico, aumentando così la sensazione straniante quando si ritorna all’inglese (o all’italiano nel caso nostrano). Per difendere questa scelta Craig Mazin ha affermato che l’uso dell’inglese è stato privilegiato per una questione di miglior resa recitativa, data la natura del cast (completamente britannico ad eccezione degli scandinavi Skarsgård e Dencik, da considerarsi comunque pienamente anglofoni).

La scelta è condivisibile ed effettivamente sarebbe stato poco pratico far recitare gli attori in russo, ma va comunque segnalato questo connubio particolare che si crea quando entrano in contatto le due lingue. Ad alleviare l’effetto di questa presa di posizione giungono comunque i diversi influssi dialettali dei vari attori, che si appropriano della parlata del personaggio dandogli quella sfumatura in più legata magari ad un proprio dialetto (scozzese, irlandese, londinese) su cui svetta senza ombra di dubbio l’inglese-sovietico di Skarsgård, uno dei fattori che lo rende il personaggio più riuscito della miniserie.

Dyatlov, il giovanissimo ingegnere capo della manutenzione del reattore Toptunov (Robert Emms) ed il supervisore di turno del gruppo notturno Akimov (Sam Troughton) mentre assistono ormai impotenti alla catena degli eventi che porteranno all’esplosione del reattore 4 della centrale durante un test di sicurezza.

Barriere linguistiche a parte, la miniserie riesce a scandire bene ogni momento della narrazione grazie alla perfetta divisione delle scene in tutte e cinque le puntate. Chernobyl è una continua diacronia, alternanza di analessi e prolessi (flashback e flashforward) che hanno inizio alle 01:23:45 del 26 aprile 1986, l’esatto momento in cui il nocciolo del reattore è esploso. L’esplosione è prevedibilmente il motore che innesca la narrazione, ma il racconto inizia formalmente due anni più tardi quando un non ancora identificato Legasov viene colto nella sua miserabile routine, fatta di isolamento e persecuzione da parte del KGB. Ciò che dà alla serie il vero impulso vitale è in realtà Legasov, che si toglie la vita impiccandosi riuscendo a diffondere su nastro il grande insabbiamento di Chernobyl, la sua eredità per i posteri.

La serie è scandita da tre macro sequenze: il disastro e la corsa contro il tempo per contenere quanto possibile la situazione, una fase intermedia in cui le minacce a breve termine sono state sedate e la narrazione si concentra su come sia stata possibile l’esplosione del reattore ed il finale, il processo a Dyatlov, Bryukhanov e Fomin che chiude in maniera estremamente chiara la vicenda con continui salti tra realtà e finzione.

L’inizio in medias res da allo spettatore una motivazione in più per guardarla, perchè Chernobyl non è solo lo strazio dell’ecatombe atomica ma anche un domino di bugie e segreti che non sono stati completamente svelati. I primi due episodi (01:23:45 e Please Remain Calm) rientrano nella sequenza iniziale: la sensazione di incertezza, la rabbia che si prova osservando la scelleratezza dei responsabili del disastro, lo strazio verso le ignare vittime di quello che è un irreversibile processo di morte sono combustibile gettato sul desiderio ardente dello spettatore di saperne di più.

Aleksandr Charkov (Alan Williams) vicepresidente del KGB comunica a Legasov che la sua vita è finita. Per aver detto la verità al processo ed essersi schierato contro l’URSS non avrà più amici e una carriera universitaria, né tantomeno un’esistenza degna di tale nome.

In Open Wide, O Earth The Happiness of All Mankind si passa gradualmente dall’immediatezza del pericolo al cuore del problema: com’è possibile che un reattore RBMK sia potuto esplodere?

Più volte Legasov e Khomyuk si interrogano su questo nodo cruciale, sviscerando tutte le loro conoscenze in materia nucleare senza trovare risposte. I due capiscono che la chiave di volta non è nascosta in qualche formula fisica ma nella ragnatela di bugie ed intrighi che sta corrodendo le fondamenta dell’impero comunista. Intervistando i moribondi Toptunov ed Akimov Ulana Khomyuk riesce a ricostruire la catena di eventi che hanno portato al disastro, una spirale di negligenza, incoscienza e segreti militari colpevolmente celati per salvaguardare l’URSS.

E’ solo in questo momento che il KGB viene raffigurato nella sua spietata funzione censoria, arrivando ad arrestare Khomyuk per aver ficcato il naso in quel genere di cose per cui ci si prende una pallottola in testa. Una bestia celata nell’ombra che perseguita Legasov e tutti quelli che cercano la verità per coprire le nefandezze che sono state perpetrate in nome di un ideale più grande, quel comunismo che forse alberga ancora nel cuore del popolo, ma che sembra essere un mero strumento di potere per quelli che hanno accesso alla stanza dei bottoni.

Legasov ritornato nella ormai abbandonata Chernobyl per il processo di Dyatlov, Fomin e Bryukhanov ha il compito di mostrare alla giuria le reazioni avvenute quella notte all’interno del reattore.

Ed alla fine chi davvero aveva accesso alla sala dei bottoni quella sera è colui sul quale vengono scaricate tutte le colpe, Dyatlov che in combutta con Fomin e Bryukhanov ha intenzionalmente messo in pericolo l’umanità intera in nome di statistiche e parametri imposti dalla nazione, la stessa nazione che però ha ricambiato il favore nascondendo malfunzionamenti e criticità del reattore per non svilirsi agli occhi del mondo e per mantenere bassi i costi di costruzione. Chernobyl è il risultato di un lento processo di errate valutazioni ed errori che sommatisi hanno portato ad una delle più gravi tragedie conosciute dall’umanità, nessuno poteva formalmente prevedere quello che sarebbe successo perchè nessuno aveva il quadro d’insieme.

Così la catena di colpe e malfunzionamenti viene messa in prospettiva da Legasov durante il processo, chiamato a spiegare alla nazione come tutto ciò sia potuto accadere all’impero più forte ed orgoglioso del mondo. Quando ci facciamo prendere dalla fiction confondendo Chernobyl con un thriller in salsa Guerra Fredda di Le Carrè l’impatto con la realtà è violentissimo perchè ci rendiamo conto che Valerij Legasov è esistito realmente, che ha dovuto mettere in gioco la sua vita e la sua carriera e ha deciso di fare ciò in cui credeva: agire per il prossimo. C’è stato un momento in cui Valerij Legasov ha avuto in mano il destino dell’URSS, dovendo decidere se far ricadere la colpa esclusivamente sugli esecutori materiali del disastro o raccontare tutta la verità, affibbiando alle alte sfere sovietiche il fardello dei loro segreti in gran parte artefici della strage.

E’ grazie a questo passaggio che la serie tocca il suo apice nell’ultimo episodio Vichnaya Pamyat “memoria eterna”, un’esclamazione usata dai diaconi al termine delle cerimonie ortodosse nell’est Europa. Perchè grazie a Legasov l’eredità di Chernobyl non sono la morte e le mutazioni genetiche che per decine di migliaia di anni continueranno a martoriare la zona d’alienazione, ma l’esempio di chi si è sacrificato per la verità, pagandone un costo altissimo.

«In un mondo giusto io sarei ucciso per le mie bugie, non per la verità» 

— Legasov durante l’ultimo faccia a faccia con Charcov

Lyudmilla (Jessie Buckley) e Vasily (Adam Nagaitis) Ignatenko nella stanza d’ospedale di Mosca dove Vasily è ricoverato per l’avvelenamento da radiazioni scaturite dal suo intervento come pompiere nei pressi del reattore 4.

Oltre alla vicenda principale la macchina di Johan Renck si sofferma spesso su tutte quelle storie di contorno che accompagnano il disastro. Non solo la corsa contro il tempo di Legasov e soci ma un nutrito numero di storie che mostrano come la vita di migliaia di persone sia stata distrutta in un attimo. Oltre ai già citati minatori e palombari che si sono sacrificati in nome della patria particolare enfasi è data al viaggio di Lyudmilla e Vasily Ignatenko (nomen omen per un pompiere), giovane coppia di coniugi che gli autori usano come pretesto per mostrare gli effetti delle radiazioni sul corpo umano.

La serie HBO è maestra nel mostrare le raccapriccianti degenerazioni del corpo umano a contatto con le radiazioni. In Please, Remain Calm vengono illustrate le fasi del processo di disgregazione cellulare nelle vittime: una prima in cui il corpo si copre di vesciche simili a quelle da ustione, una fase di illusoria guarigione e stabilizzazione, una terza ed orribile fase in cui il tessuto cellulare necrotizza diventando completamente nero con distruzione di sistema immunitario, tessuti molli (gli organi) e vasi sanguigni.

Chi invece è stato esposto ad una quantità di radiazioni non immediatamente mortali ha patito una morte dovuta a patologie cancerogene che nel giro di pochissimi anni dal disastro le ha condotte alla morte, tra i quali gli stessi Shcherbina e Dyatlov. Difficile pensare siano stati fortunati rispetto ai primi.

Tra le varie storie di supporto senza dubbio quella del giovanissimo Pavel è la meno riuscita. Adolescente reclutato dalla patria per contribuire alla bonifica dell’area intorno Chernobyl il cui compito è quello di sterminare gli animali infetti assieme al veterano Bacho; la storia è sì interessante, poiché serve a rendere palese la situazione di alienazione e mobilitazione nel post incidente, ma si ha spesso la sensazione che la regia vi si soffermi eccessivamente, dato che la vicenda occupa buona parte del quarto episodio The Happiness of All Mankind tendendo ad essere troppo ridondante ed invasiva.

Chernobyl è una serie che rimane stampata nella mente perché ci ricorda fin dove l’uomo può spingersi, un evento senza precedenti che ha dato vita ad una vasta narrativa a cui anche noi videogiocatori siamo legati grazie alle serie Metro, S.T.A.L.K.E.R e Fallout. La miniserie HBO non è solo un fantastico prodotto che intrattiene lo spettatore indignandolo, commuovendolo e shoccandolo all’occorrenza ma rappresenta una sorta di reliquia alla memoria, una Vichnaya Pamyat che risveglia le coscienze e dalla quale possiamo anche ricavare qualche insegnamento. Assicuratevi di guardare Chernobyl (a patto che non siate troppo impressionabili, alcune scene come quelle degli effetti delle radiazioni sono forti) perchè per un bel po’ di tempo non riuscirete a pensare ad altro.

Giuseppe Pirozzi

Napoletano sui 25. Studente di lettere, giornalista pubblicista, racconto la Campania ma di professione faccio l'accumulatore seriale di libri, fumetti e videogiochi.

View Comments

    • Ma vedo che proprio a nessuno è andata giù questa storyline :^)
      Vabbè che dopo aver mostrato i minatori coi gingilli da fuori, il paragone sarebbe stato impietoso comunque

  • Molto felice di leggere di Chernobyl da queste parti. Serie che inserisco di diritto tra le più belle in assoluto. Reale e realistica, cruda e violenta; ogni episodio un vero pugno nello stomaco. Si percepiva la tensione ad ogni linea di dialogo, impressionante in tutto.

    • È una serie che mi ha lasciato letteralmente spiazzato, ti colpisce da ogni lato e ogni puntata è una stupenda mazzata che ti lascia morto, però ne vuoi ancora.
      Peccato aver detto addio ad Harris e Skarsgård così in fretta, mi piacciono un casino

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