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Il Re Leone – Ritorno in computer grafica di un classico immortale

L’importanza seminale de Il Re Leone del 1994 non è semplice da spiegare: da una parte il clamoroso successo commerciale (e quindi di pubblico) che al tempo lo incoronò come cult di massa per quanto concerne l’animazione, dall’altra invece la complessità e la raffinatezza di un concept straordinario, a metà tra l’antropomorfismo didascalico di Esopo e il dramma familiare tipico dell’Amleto shakespeariano. La pellicola di Roger Allers e Rob Minkoff si rivelò un monolite di quella che fu l’esplosione di Disney negli anni ’90, incastonandosi nel cuore di più generazioni ogni volta affascinate da una favola eterna.

Ora, a ben venticinque anni dall’arrivo nelle sale dell’originale, Il Re Leone è pronto a tornare nei cinema in vesti in pieno rinnovate; addio animazione, addio disegni, tutto scorre attraverso la lente fotorealistica di una meticolosa ed impressionante computer grafica, glissando addirittura su frame reali per dare vita in definitiva a quello che è senza dubbio un autentico miracolo digitale. Tuttavia, nell’abbandono dell’anima cartoon verso un più asettico stile documentaristico Jon Favreau – che bissa l’operazione dopo quanto fatto con Il Libro della Giungla – decide di sacrificare molto dell’anima e del fascino del film del ’94, riproponendo sì con una rispettosa scrupolosità gli stessi fotogrammi e quasi in toto la stessa scrittura del capolavoro di Allers e Minkoff, ma incappando nell’inevitabile ostacolo costituito da due approcci alla produzione davvero agli antipodi. Se siete dunque curiosi di scoprire cosa ne pensiamo nel dettaglio, non vi resta che proseguire nella lettura della nostra recensione! Prima di proseguire, vi ricordiamo che Il Re Leone sbarcherà nelle sale nostrane dal 21 agosto.

Coerentemente con la sua natura, il remake de Il Re Leone percorre lo stesso tracciato narrativo stagliato dal predecessore, arricchendolo con leggeri ritocchi volti in primo luogo a ribadire alcuni temi nell’originale tenuti sotto traccia o a rifinire alcuni caratteri femminili. Per i profani (se esistono) diamo comunque una veloce rispolverata dell’intreccio; Il Re Leone è alla base – come accennato prima – una rivisitazione moderna del tanto apprezzato Amleto, questa volta incentrata su un gruppo di leoni antropomorfi alla guida delle selvagge e rigogliose Terre del Branco. Mufasa è un re saggio ed equilibrato che cerca di insegnare a proprio figlio Simba gli onori e soprattutto gli oneri di un buon sovrano, distogliendolo dalle varie tentazioni infantili che potrebbero spingerlo all’avventatezza od alla cupidigia. Dall’altro lato della barricata troviamo invece Scar, fratello di Mufasa e non erede al trono; consumato da invidia ed umiliazione, Scar è il Re Claudio (da Amleto, n.d.r.) della situazione, arrivando ad uccidere il legittimo monarca e costringendo il piccolo Simba all’esilio forzato.

Il Re Leone è un inno alla natura ed un tessuto denso all’inverosimile di piani di lettura.

Le corde affrontate da questa nuova iterazione del capolavoro di animazione sono dunque sostanzialmente le stesse: dalla paternità al lutto e alla morte, dall’esplorazione dell’amore con il personaggio di Nala al senso di responsabilità del leader autentico, dall’accettazione (ed esaltazione) del ciclo della vita quasi in prospettiva stoica al principio edonistico dell’Hakuna Matatasenza pensieri -, Il Re Leone è un inno alla natura ed un tessuto denso all’inverosimile di piani di lettura. La sceneggiatura di Irene Mecchi, Jonathan RobertsLinda Woolverton attraversa quindi venticinque anni intatta, per arrivare adattata solo in minima parte. Nala – la compagna di Simba – ad esempio ora risulta un personaggio più carismatico e definito, stesso discorso per Sarabi (madre di Simba) e Shenzi (leader delle terribili iene). Il facocero Pumbaa esplicita caratteri dati in precedente per scontato (lanciando qualche stoccata al fenomeno del bullismo e della discriminazione) ed insieme al suricato Timon scherza talvolta su un livello metacinematografico a riguardo dell’intera produzione. Per il resto in ogni caso i fan dell’opera madre saranno in grado di riconoscere quasi ogni battuta, magari con compiaciuta nostalgia, ad eccezione di una delle migliori linee di dialogo del film del ‘94, inspiegabilmente tagliata in questo remake.

Proprio come per la scrittura, anche sul lato tecnico Il Re Leone di Favreau è in pratica un remake scena per scena, ricercando le stesse inquadrature, le stesse composizioni e quando possibile tout court la stessa regia della pellicola apripista di Allers e Minkoff. Ovviamente le sequenze più cariche artisticamente e cromaticamente dell’originale qui tornano slavate e per forza di cose in qualche modo ridotte a versioni asettiche di sé stesse; tra queste il Sarò Re con protagonista Scar e il Voglio diventare presto un re con Nala e Simba ancora infanti. Di contro gode della natura documentaristica di questo approccio in CGI – nemmeno a dirlo – la fotografia del film, in grado di regalare scatti semplicemente mozzafiato: la sequenza di apertura di questa nuova iterazione è la maggiore celebrazione di questo deciso trionfo, nella glorificazione della natura e delle sue incredibili immagini (con Il cerchio della vita di Cheryl Porter i brividi sono garantiti).

Si sceglie la tecnologia al posto forse di una frazione dell’anima dell’originale

Nella computer grafica troviamo difatti l’aspetto più sorprendente del lavoro guidato da Favreau, una perizia tecnica ed un livello di fotorealismo forse mai visto prima, da paragonare a quel pilastro di Avatar che su questo versante ha decisamente fatto scuola. Nella stragrande maggioranza dei casi è semplicemente impossibile identificare quello che si sta osservando come costruzione digitale, sia nei campi lunghi e lunghissimi, sia nei primi piani dei diversi animali. Si perde però espressività, si perde la caricatura di personaggi come Scar, si perde dunque parte della loro caratterizzazione e vivacità; si sceglie la tecnologia al posto forse di una frazione dell’anima dell’originale. Non è qualcosa che con questo approccio poteva essere evitato, mettiamolo in chiaro, ma ciò non toglie il confronto impari di questo remake con alcune sezioni del cartoon di partenza. Laddove Favreau e la produzione hanno posto le fondamenta per nuove vette tecnologiche e in fin dei conti fatto quanto di meglio potevano per rendere omaggio al film del ’94, non si può dire che il risultato possa davvero convincere oltre la prospettiva commerciale, in quanto in definitiva ridondante rispetto a quanto già portato su schermo in passato.

Per quanto concerne doppiaggio ed adattamento italiano di canzoni e dialoghi occorre infine spendere qualche ultima parola. Al contrario di quanto pensato da molti in malafede, le scelte di casting si sono rivelate tutte particolarmente riuscite. Certo, Mengoni ed Elisa – voci rispettivamente di Simba e Nala –  sfigurano rispetto a Donald Glover e Beyoncé, ma riescono comunque a dare ottima forma ai celebri brani del film originale, pure se incespicando non poco, specie il primo, nelle fasi non cantate. Edoardo Leo e Stefano Fresi sorprendono invece nei panni di Timon e Pumbaa; Fresi, in particolare, mette in mostra di nuovo con successo quelle doti da tenore già notate nel capitolo finale della trilogia di Smetto quando voglio. Per ultimi, Massimo Popolizio ci regala una grandissima voce per Scar, che regge il confronto con quella originale di Tullio Solenghi, e Luca Ward sostituisce con la solita maestria il ruolo di Vittorio Gassman come Mufasa, seppur con un timbro diverso rispetto a quanto dato in precedenza dal celebre regista ed attore italiano.

In conclusione, il remake de Il Re Leone é un film che a conti fatti non aggiunge nulla alla formula del passato, ripercorrendone lo stesso percorso, la stessa scrittura e gli stessi momenti iconici; non osa – come nel caso non illustre di Aladdin – con soluzioni creative inedite o guizzi interessanti, ma ripropone con nostalgia e cura maniacale ogni frame dell’opera originale, avventurandosi in uno stile che perde il fertile approccio cartoon per proporsi in quello documentaristico. La computer grafica é incredibile e il suo fotorealismo glorifica alcuni scatti che mettono in mostra una grande fotografia, ma i momenti dinamici ed eccentrici – quelli che nell’originale sprizzavano colore da ogni frame – acquistano un aspetto purtroppo asettico. 

Simone Di Gregorio

Da sempre cinefilo e videogiocatore, passioni di una vita e forza propulsiva nel quotidiano. Scrivo, guardo e gioco, ormai da 2 anni a questa parte. Responsabile sezione cinema.

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