Complice pure la presenza del volto molto noto di Will Smith nel cast, la serie di Men in Black (ispirata ai fumetti di Lowell Cunningham) si è costruita nel corso di più di venti anni di veneranda età un piccolo posto nella filmografia di culto, risultando nella sua prima iterazione uno dei migliori esempi di commedia fantascientifica, intrisa di un umorismo straniante e surreale tipico di molte produzioni degli anni ’90. Se già il secondo capitolo aveva dato grossi segni di cedimenti e il terzo aveva dimostrato invece come fosse possibile svecchiare un concept vetusto, l’arrivo di Men in Black: International ha se possibile accresciuto le perplessità su una formula difficile da far funzionare, per giunta ora abbandonata dalle mani di Barry Sonnenfeld, regista della trilogia precedente.
Diretto da F. Gary Gray (Fast & Furious 8), Men in Black: International affronta un’operazione di soft reboot, eliminando dal cast i tanto apprezzati Will Smith e Tommy Lee Jones, sostituendoli con Chris Hemsworth e Temma Thompson (Thor e Valchiria in Thor: Ragnarok). Addio agente J ed agente K, benvenuti agente H ed agente M.
Archiviata la quantomeno bizzarra ipotesi di un crossover con 21 Jump Street, il risultato dell’operazione non è decisamente dei migliori, naufragando in un abisso di mediocrità che non sembra lasciare spazio a sbocchi particolarmente positivi.
Men in Black: International parte dallo stesso immaginario dei film originali, utilizzando però come unico sensibile elemento comune l’agente O (Emma Thompson), responsabile della sede dei Men in Black di New York City e già incontrata nel corso dei tafferugli temporali del terzo episodio. Molly Wright è dunque una ragazza della grande mela che vive continuamente nella speranza di trovare i misteriosi uomini in nero, testimone della neuralizzazione (ovvero la perdita dei ricordi attraverso un dispositivo apposito) dei suoi genitori a seguito di un incontro imprevisto con una creatura aliena. Trovata finalmente quasi per caso dopo anni di ricerche la società segreta, Molly sceglie di divenire una recluta, rinunciando così a qualsiasi residuo di una inesistente vita sociale e dedicando la sua esistenza al completo anonimato.
Molly perde così il proprio nome, ridotto ad una singola M, e viene quindi trasferita nella sede di Londra, dove fa conoscenza dell’agente capo, High T (Liam Neeson), e dell’agente H (Chris Hemsworth), il più illustre della sezione inglese dell’agenzia in seguito alla sconfitta a Parigi dei temibili Hive – una specie parassita in grado di controllare gli ospiti.
Il pubblico più smaliziato sarà in grado di tracciare ogni svolta nelle vicende
Da questo momento in poi, seguendo binari che potreste tranquillamente prevedere da soli, la trama di Men in Black: International si costruisce come una sequela di cliché prevedibili e scontati e colpi di scena tali da rispettare copioni già visti e strumenti narrativi ormai consolidati nella loro ovvietà. Non scherziamo quando diciamo che il pubblico più smaliziato sarà in grado di tracciare ogni svolta delle vicende, fin nei minimi particolari.
Niente anima, nessun calore per una scrittura che non osa mai, che non tenta in nessun caso di costruire qualcosa di interessante o inedito. L’intero nucleo della narrazione poggia le fondamenta su un mistero la cui soluzione può essere alla prima impressione data per scontato, finendo per fallire nell’unica cosa in cui un lungometraggio disimpegnato dovrebbe invece vincere: intrattenere. Men in Black: International, e questo il suo problema capitale, non tiene legati alla sedia, non cattura lo spettatore, non interessa l’attenzione in qualsivoglia modo, concentrato com’è nel celare agli occhi e alla mente un capovolgimento di prospettiva in realtà inesistente.
Si perde persino il fare caustico e paradossale della comicità della trilogia originale, il quale persino nel secondo claudicante capitolo non aveva mancato di ripresentarsi; quel modo spensierato di affrontare la fantascienza e le sue conseguenze, allontanandosi dal dramma per andare al contrario a scomporlo in una satira instancabile. La pellicola di F. Gary Gray è un clone svuotato ed al negativo del buono del lavoro di Barry Sonnenfeld, di cui non vuole nemmeno imitare l’approccio artigianale a computer grafica ed effettistica, tuttavia in gran parte perso già in Men in Black III.
La buona coppia Hemsworth/Thompson non risulta comunque in grado di avvicinare quella inossidabile di Smith/Lee
La noia regna dunque sovrana in poco meno di due ore sostanzialmente piatte e prive di un climax deciso, ma non tutto in fin dei conti risulta da buttare. Ottimo il casting ad esempio, con la coppia Hemsworth/Thompson non certo in grado di avvicinare quella inossidabile di Smith/Lee, ma quantomeno abile nel formare quel po’ di chimica necessaria a non annacquare totalmente i momenti di dialogo tra i due personaggi. Forse sarebbe anche il caso che Hemsworth cambi tipo di ruolo una volta tanto tra un film e l’altro, giusto per dire: l’agente H è infatti l’ennesimo carattere fotocopia del bellimbusto senza troppo cervello che l’attore australiano sembra adorare. Liam Neeson invece sempre istrionico ed in parte, seppur vittima di una sceneggiatura indegna e di un minutaggio a schermo molto limitato. Rebecca Ferguson come la famigerata trafficante d’armi Riza Stavros, per ultima, come di norma mozzafiato, pure lei però penalizzata da una mancanza totale di approfondimento, nemmeno su un piano macchiettistico.
Arrivando al nodo della questione, si introducono personaggi e location (con il classico stereotipo immancabile Italia=criminalità organizzata), senza dare a nessuna aggiunta il minimo peso, in una carrellata in movimento che non lascia mai il tempo di fissare e rallentare. In questo calderone di idee senza forma si susseguono ovviamente una quantità pressoché infinita di riferimenti e citazioni a quanto visto con gli agenti J e K, quella intenzione di forzare un sorriso compiaciuto – quasi nostalgico – fine a sé stesso. Poi, a scanso di ogni equivoco, Men in Black: International trova qualche soluzione comica interessante, a tratti riesce nello stampare un sorriso, ma non parliamo certo di quella satira paradossale ed intensiva che permeava organicamente gli originali; qui c’è molto meno coraggio, molta meno voglia di osare, molta meno capacità di portare alla luce un qualcosa che non risulti un blockbuster privo di dimensione creativa e commerciale.
In conclusione, Men in Black: International rappresenta un’operazione complessa da comprendere e promuovere. Priva delle particolarità di stile e scrittura che hanno resa nota la serie e fiaccata da un racconto a dir poco mediocre, la pellicola di F. Gary Gray manca di ogni scintilla che possa intrattenere sia un pubblico impegnato, sia uno mainstream.
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In ogni caso penso che andrò a vederlo anche per il gusto di tornare al cinema per MIB
Evito di buttare soldi!