Sceneggiatore, regista ed attore tra i più rilevanti nella storia di Hollywood, Sylvester Stallone è un uomo dai molti talenti. Da Rocky a Rambo, i suoi sono stati ruoli iconici, veri e proprio simboli di una generazione sia da un punto di vista “pop”, sia di quello legato allo studio e alla critica della società. In Rambo: First Blood, sarebbe per l’appunto quantomeno sbagliato ridurre il film alla sua sola dimensione action, ignorando quindi quanto con impressionante finezza di linguaggio riesca a trattare di temi complessi, insidiosi e strettamente correlati all’esperienza del pubblico americano.
Rambo (First Blood, tratto dall’omonimo romanzo di David Morrell) è uno di quei capolavori provvisti di un doppio volto, il primo capace di rilevarsi a spettatori distratti e poco impegnati, il secondo invece attraverso analisi, riflessione e ragionamento. Purtroppo, la profondità del capitolo apripista nell’esposizione sottile di PTSD (Disturbo da stress post-traumatico), della tragedia dei reduci e del loro reinserimento nel tessuto sociale non è possibile riscontrarla in nessuno dei tre episodi successivi, in un crescendo di mediocrità tale quasi da intaccare la qualità del concept originale.
Rambo II si sviluppava alla fine come un more of the same del precedente, solo con una differente location, mentre il terzo e quarto capitolo si limitavano a portare avanti una scrittura sterile senza grosse pretese ed esistente esclusivamente per sé stessa. Niente più finali di incredibile carico drammatico come nel caso del climatico confronto con il Colonnello Trautman di Richard Crenna (da incorniciare in toto), ma semplicemente una saga d’azione diretta progressivamente a perdere la propria stessa brillantezza.
Dopo quindi il discutibile capitolo del 2008, Stallone si incammina per l’ultimo rodeo con uno dei suo personaggi maggiormente celebri, occupandosi sempre della sceneggiatura ma lasciando questa volta la regia allo sconosciuto Adrian Grunberg.
John è visibilmente un uomo diverso, più sereno e finalmente non più vedovo di uno scopo nella propria problematica esistenza
Sono passati undici anni dai fatti (dal massacro con mitragliatrice) di Burma e dal successivo ritorno negli Stati Uniti di John Rambo; vivendo nel ranch di famiglia con Maria (Adriana Barraza), un’amica di lunga data, e sua nipote Gabrielle (Yvette Monreal), il veterano è riuscito a spegnere in parte l’interruttore nel costruirsi un’esistenza da figura paterna per la ragazza. Nonostante passi le sue giornate in alcune gallerie al di sotto dell’abitazione – a significare ancora un solido legame con il passato -, John è visibilmente un uomo diverso, più sereno e finalmente non più vedovo di uno scopo nella propria problematica esistenza. Difatti, quasi metà del ristretto minutaggio di Rambo: Last Blood è interamente votato a questa volontà di rinnovata introspezione del personaggio Rambo e della sua nuova condizione.
Laddove tuttavia nel primo capitolo, la caratterizzazione di John avveniva sotto le righe, con l’esplosione emotiva finale e con tutta una serie di percorsi sottotraccia, qui appare piuttosto esplicita, in un chiaro tentativo di dare spessore attraverso una connotazione drammatica che prende decisamente il sopravvento. Circa quaranta minuti su novanta vedono difatti centrali l’Old Rambo di Stallone, facendo a primo acchito immaginare una deriva compassata per un film che doveva promettere proiettili e sangue (ci abbiamo sperato, in effetti, sorpresi da questo cambio di linguaggio).
Il ritmo quindi è dapprima centellinato e calibrato sul dialogo, per poi invece esplodere con il casus belli, ovvero la volontà di Gabrielle di ritrovarsi faccia a faccia con il padre dopo che questo ha abbandonato lei e sua madre, tra l’altro morta anni prima per una grave forma di cancro.
Il motore delle azioni di John in Last Blood è decisamente coraggioso
Un John Rambo totalmente in modalità berseker che sulle prime si contiene, sul finale invece una volta per tutte esplode proprio come ai bei vecchi tempi, massacrando con metodi creativi e assolutamente ingegnosi un piccolo esercito di nemici davvero non conscio dell’avversario. Il motore delle azioni di John in Last Blood è decisamente coraggioso – ne siamo rimasti stupiti -, e rappresenta una notevole eccezione in una scrittura abbastanza incerta e piuttosto ricca di cliché (ci rifiutiamo di considerare la presenza di topos un difetto critico e preponderante in produzioni simili).
Al di fuori della scelta specifica sopra detta, il quinto capitolo della serie si mantiene su binari in teoria abbastanza prevedibili e godibili, se non fosse però – come accennato sopra – per l’assurda gestione del ritmo, che evidenzia un clamoroso bipolarismo purtroppo non mediato.
La prima metà di Rambo: Last Blood acquista la dimensione intima dell’eroe ferito
La prima metà di Rambo: Last Blood si prende il suo tempo, acquista la dimensione intima dell’eroe ferito e ne scopre le carte dell’evoluzione intercorsa negli undici anni off-screen, con un montaggio dagli stacchi abbastanza accademici ed una regia in linea con l’accettabile; è una sezione dalla durata e dall’importanza però al completo incomprensibile nell’economia del racconto, magari giusto funzionale ad una maggiore giustificazione delle azioni di Rambo. Se questa era comunque l’intenzione, ci permettiamo di dire che la sua longevità andava quantomeno ridotta, o – in alternativa – si sarebbe potuto sforare la durata di un’ora e mezza per dare più respiro all’intercorso d’azione.
Il frutto di questa compressione svilisce quanto di buono fatto con la sezione introduttiva del racconto e finisce per rendere una parentesi al limite del ridicolo l’intero tracciato verso i titoli di coda. Negli ultimi quaranta minuti gli stacchi diventano schizofrenici e convulsi sia su un piano narrativo, sia nell’ottica dell’azione – segno di poca leggibilità -, mentre sarebbe bastato allungare appena il brodo per evitare aberrazioni tecniche simili. Al netto di qualche momento di fotografia centrato in pieno, pure la regia mostra in questo caso il fianco a qualche soluzione di serie B, come zoom improvvisi ed inappropriati, ad esempio.
L’intrattenimento in ogni caso c’è ed è presente lungo tutto il film, che si lascia guardare tanto nelle fasi intense quanto in quelle misurate, ma siamo certi che anche il pubblico meno avvezzo all’analisi percepirà la totale mancanza di controllo del fluire della sceneggiatura, con sbocchi improvvisi ed un finale anticlimatico che sa tanto di contentino. Non capiamo davvero la necessità di rientrare nei novanta minuti di durata, vera palla al piede della riuscita del film nei suoi toni sopra le righe.
Sì, perché Stallone – nonostante abbia perso ormai molta dell’espressività di un tempo – appare ancora perfetto per il ruolo (che non a caso si scrive da solo), e la sua stessa performance impostata corrisponde con successo alla forma scelta per l’anziano Rambo. Gli eccessi di Sly in Last Blood esaltano e divertono (c’è una specifica e deliziosa esecuzione finale che reifica un’espressione figurata), e proprio per questa godibilità di parte del pacchetto completo aumenta il rammarico per diverse scelte infelici intraprese dalla produzione.
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Se non ho visto tutti i film di Rambo (e me ne vergogno...), riesco a godermi lo stesso il film?
A parte il primo capitolo che è un capolavoro, il resto non è che sia poi così imperdibile. Last Blood comunque può essere seguito tranquillamente in ogni caso, ma aver visto il resto della serie certo aiuta a contestualizzare, oltre ad apprezzare alcune parentesi di fan service.
Gran bell’articolo! Io sicuramente andrò al cinema a vederlo!