Negli ultimi dieci anni il tema più trattato e dibattuto al cinema è stato quello della famiglia. Il concetto di famiglia, mai banale, è stato al centro di innumerevoli opere, sia a grosso che a piccolo budget: famiglia come radici (Parasite, gran parte dei film di Wes Anderson, ecc), come nucleo dal quale nascono tutti i mali (The Savages), come simbolo di una società depauperata dalla speranza, una depressione inconscia e annichilente che devasta il mondo – e l’autore – (Melancholia); la famiglia è stata quindi lo specchio di un decennio cinematografico che l’ha messa in primo piano e che ha, attraverso una moltitudine di opere, sancito un verdetto terribile: se il male esiste, se perdura nel tempo, se nasce e viene alimentato è dall’interno e risiede nella famiglia.
++ SPOILER ALERT ++
Questa premessa è dovuta al fine di decretare Falcon and the Winter Soldier come il primo prodotto del nuovo decennio che si fa tramite di due temi, uno in uscita e uno in entrata, una sorta di passaggio di consegne fra il primo grande tema, la famiglia, e il secondo, il concetto di confini, che ha appena aperto questo decennio. Se nel primo tema il concetto è molto più sfumato: la famiglia è quella che hai, quella che scegli, quella di nascita o adozione (Patria), quella di razza (afroamericana), il secondo è molto più netto: i confini territoriali, politici, culturali, razziali e in ultimo i propri limiti, quelli che ti imponi di non superare per salvaguardare te stesso e gli altri.
Solo affrontando questi due grandi temi Falcon and The Winter Soldier appare come un prodotto molto pìù complesso di quanto Marvel ci abbia abituato negli ultimi quindici anni. Nella transizione fra le due macro tematiche la serie non lascia spazio a nulla, tocca proprio tutto quello che è specchio di un’America, oggi in perenne crisi. La crisi economica passa per la sorella di Falcon che rischia il fallimento dell’azienda di famiglia, quella politica e sociale passa per il “bip” (quell’evento scaturito durante Infinity War che ha fatto letteralmente scomparire metà della popolazione mondiale e oltre) creando un precedente, ora la popolazione mondiale non ha una casa specifica, persone da tutto il mondo si ritrovano in un Nazione che non è la loro rischiando l’espulsione (si parla di circa 20 milioni di rimpatri solo negli States).
Se fino alla fine della saga (lunga ben ventitré film) e il successivo prodotto WandaVision, le chiavi di lettura sono state sempre al massimo due, in Falcon and The Winter Soldier i piani di lettura non solo si sdoppiano ma aumentano a dismisura con il passare delle ore. Da due a quattro e così via fino a sfumarsi sempre di più nel corso della narrazione.
Nei primi due episodi Falcon and the Winter Soldier crea il pretesto, le basi sul quale poggiano i problemi attuali degli Stati Uniti e la soluzione temporanea a queste difficoltà: John F. Walker diventa il nuovo Capitan America. Walker rappresenta l’America nel suo più classico dei cliché: uomo bianco, alto, biondo e occhi azzurri, uno strumento più che un soggetto volto a ripulire l’immagine della propria Nazione da una serie sterminata di pessimi errori commessi negli ultimi anni: il nuovo Cap non solo deve ricostruire la fiducia del popolo americano, dopo la prematura scomparsa di Steve Rogers ma anche, teoricamente, simboleggiare e sollecitare la rinascita collettiva. Il fallimento è dietro l’angolo, durante il corso della vicenda Cap si perde, accecato dal potere e dalle proprie ambizioni smarrisce la bussola e in una manciata di episodi da eroe diventa vittima sacrificale del sistema che lo aveva costruito.
Non c’è da stupirsi che Disney, e con essa Marvel, abbiano optato per un approccio più politico che analitico rispetto questo prodotto: la somma dei temi trattati, anche solo sfiorati di traverso, rendono la serie più un’accusa e, allo stesso tempo, un mea culpa verso quel cinema fin troppo votato all’azione che alla riflessione da essi prodotto negli ultimi anni, ma anche verso aspetti politici e sociali che per molto tempo hanno solamente accennato, ignorando – volutamente – cosa stava succedendo intorno a loro.
Partendo da questo, Disney, sembra voler giocare una partita a viso aperto contro una certa politica, volta a smarcarsi da poco lusinghiere dichiarazioni e drammatiche ambizioni e nel farlo sceglie uno dei mille temi che affollano il prodotto: il suprematismo dei bianchi, una tecnica che difficilmente troverebbe ostacoli nella narrazione. Il nemico, questa volta, non è la sola Karli (giovane a capo dei Flag Smashers, gruppo di terroristi con l’obiettivo di rendere il mondo un posto senza confini) ma anche, e soprattutto, gli Stati Uniti stessi, ciechi di fronte al cambiamento (il vecchio Cap – sottoforma di retaggio del passato – , ormai deceduto, sostituito da Walker), ottusi dinnanzi alle proteste interne, schiavi di stilemi ormai superati (l’eroe di guerra bianco, decantato).
A tutte queste vicende la risposta è servita: Walker viene estromesso e Falcon diventa il nuovo Capitan America, non scelto per meriti in campo ma dalla morale, non il superuomo nietzschiano ma membro di una comunità, quale quella afroamericana, considerata inferiore dal suo stesso Paese per decenni, più umano (privo del siero del supersoldato), il volto nuovo che serve all’America oggi.
È questa la (Ri)nascita di una Nazione?
Come in Nascita di una Nazione di Griffith (1915, ndr) anche Falcon and The Winter Soldier approccia allo stesso modo la struttura della serie (con la sola differenza che qui il punto di vista tematico è rovesciato): se nella prima parte c’è la guerra, le fasi finali di uno scontro in piena decadenza americana, la seconda è improntata sulla rinascita, non solo sociale ma anche di immagine e affinché ciò avvenga, Disney, sceglie, come terreno di sconto, nuovamente New York, città simbolo nell’universo Marvel e non solo (basti pensare a The Day After Tomorrow, Cloverfiel, King Kong, lo stesso primo film degli Avengers, ecc).
Questo perché New York non solo ha un passato cinematografico storicamente (e visivamente) importantissimo ma anche perché città in grado di rappresentare l’Occidente nel suo insieme multietnico, multiforme (economico, politico, sociale), una metropoli in grado di distruggersi e ricostruirsi, cinematograficamente parlando, infinite volte senza essere mai sepolta dalle macerie delle sue guerre. La danza di aria di Falcon, ora il nuovo Capitan America, tra i palazzi distrutti di New York è come l’Angelo Sterminatore di Buñuel, attraverso un’America corrotta da una classe privilegiata, una perdizione dell’animo umano che può salvarsi solo tramite la redenzione, quella che Cap attua quando riporta Karli, ormai deceduta, al popolo, come nella pietà di Michelangelo, sul finire dell’ultimo episodio.
Falcon and the Winter Soldier si fa portavoce di un Paese sprovvisto di un’identità sociale condivisa, una contraddizione che si fa sempre più evidente con il passare delle ore: è l’America che punta sull’uomo sbagliato (Walker) , che ritratta, che dimentica per strada i veri eroi (Isaia, personaggio chiave di un’epoca andata, è il superuomo che rifiuta Nietzsche, il suo Paese, la sua storia, è il profeta ebraico che vuole dimenticare sé e chi lo ha creato), che brama un potere che non gli appartiene, che spinge gli amici a diventare nemici (Power Broker), che desidera ripulire la propria coscienza attraverso la psicologia (le sedute di Bucki dalla terapista), è infine l’America del perdono, quella che solo alla fine trova il modo, seppur artefatto, di tornare a casa.
Non è tutto: l’endorsement di Disney verso un’idea(le) politica netta, e non tanto verso un particolare personaggio politico o partito, fa capire quanto il potere della Nostra non sia così scontato. Parliamo della più grande casa produttrice del mondo, la più influente, e certamente quella che spende maggiormente per i suoi film. Insomma, non è il singolo autore che fa della sua opera un film politico, è un collettivo intero che si schiera (non senza ipocrisie) e che lancia un messaggio ben preciso all’Academy: siamo in grado di fare opere politiche, non solo blockbuster d’intrattenimento.
The Falcon and the Winter Soldier è un rischio necessario più che dovuto
D’altra parte era un rischio che, a questo punto del percorso, sentivano di prendersi, nonostante non tutto funzioni. L’insidia maggiore, non risolta, risiede nella quantità abnome di tematiche affrontate, un potpourri di elementi che si susseguono, intrecciano e mescolano con una velocità tale da non riuscire mai a vederne i confini, un’indigestione di argomenti che non di rado si sfiorano senza davvero enunciarsi liberamente, aprendosi all’analisi (una fra tutte: l’uscita dalla casa di Isaia di Sam e Bucki sfocia in un litigio tra i due che viene interrotto dalla polizia che crede che Sam (uomo di colore) stia importunando Bucki (l’uomo bianco), in una reazione a catena che ricorda solo vagamente il movimento Black Lives Matter.
Se da una parte il fumetto non viene del tutto tradito ma modificato al fine di rendere la serie più politica (nel fumetto, ad esempio, Walker diventa Cap America solo dopo un rifiuto di Rogers a sottostare ad alcuni comandi del governo e non perché morto) dall’altra c’è la volontà di Marvel di creare un precedente nel suo universo che difficilmente verrà ignorato da qui in avanti, quello di farsi carico di un ideale politico che probabilmente non le compete ma che è l’unico capace di ripulire l’immagine, a livello internazionale, di un’America che non vuole essere stigmatizzata come razzista, che rifiuta il declino, che non vuole essere vista (da dentro e da fuori) come un Paese che rigetta l’ammodernamento, il progresso, il futuro.
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