Cinema & Serie TV

WandaVision, la recensione completa della prima stagione

Con la fine dell’ultima fase dell’Universo cinematografico Marvel, Disney ha deciso di ampliarne i contenuti. WandaVision si configura come il primo prodotto di questa espansione che porta, nell’universo stesso, piccole ma significative novità all’interno della narrazione marveliana. Nonostante l’azienda non sia nuova ad approcci televisivi di stampo seriale, WandaVision è la prima opera del nuovo corso volto a espandere quello stesso universo che l’ha formata.

Le aspettative, in tal senso, sono tante, non solo a livello meramente produttivo ma soprattutto a livello estetico (per capirne le evoluzioni da qui in avanti), tanto più che essendo questo un primo prodotto figlio di quell’Universo. I quesiti e i dubbi, sono molti: come si collocherà? Riuscirà ad avere lo stesso impatto dei fratelli cinematografici?

Le due nature

Nel muoversi in questo nuovo spazio, Marvel aveva da una parte una serie di responsabilità dovute agli archi narrativi con cui convivere e dall’altra anche una responsabilità aggiuntiva, quella di riuscire a portare il suo universo in tv senza far perdere qualità alla narrazione stessa. In aggiunta a ciò, se mai le responsabilità non fossero già abbastanza, WandaVision sarebbe stato anche il primo vero prodotto pensato per la nuova piattaforma streaming proprietaria Disney+, una sorta di killer application creata soprattutto per i fan Marvel. Date queste doverose premesse iniziali, la serie si configura come un prodotto che vuole fondere due piani narrativi e visivi piuttosto distanti tra loro: la sit-com e il serial classico.

WandaVision vuole fondere due piani narrativi e visivi piuttosto distanti tra loro

La prima delle due è collegata in gran parte alle prime tre puntate: un mediometraggio di circa un’ora e dieci (tolti titoli di coda e sigla) che poggia le basi sull’unico elemento estraneo, finora, all’universo Marvel: la sit-com stessa. Tale scelta, nonostante lo script ne dia un’idea e una giustificazione narrativa precisa – legata all’infanzia di Wanda – in realtà ha radici stilistiche. Nonostante i prodotti televisivi nel corso dei decenni siano cambiati ed evoluti, la sit-com rimane il primo, vero, prodotto pensato appositamente per la TV. Una scelta questa che ricade, neppur così velatamente, in WandaVision. In un certo senso è come se Marvel, per la sua prima opera espansa dell’universo televisivo, avesse optato per un formato straniante, per sancirne, proprio come negli anni ’50, il vero inizio dell’approdo sul piccolo schermo. La sit-com a questo punto non solo diventa lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo corso narrativo cinematografico (che inizierà con la nuova fase dell’Universo) ma anche un nuovo corso pensato appositamente per la TV. WandaVision inizia proprio da qui, dal suo essere telefilm prima, cinema poi: vecchi elementi si mescolano a nuovi strizzando l’occhio a quello che di fatto è storia della televisione: da “I love Lucy” a “Vita da strega”, da “Ai confini della realtà” fino a una sequela di citazioni – infinite, oserei dire – delle più celebri serie tv anni ’70, quando il serial esplose.

Dalla quarta puntata poi inizia il processo di standardizzazione della visione Marvel, si esce ed entra dalla Sit-com al serial classico continuamente, fino a trasformare la prima in una serie TV convenzionale, nel suo formato contemporaneo. Se la scelta della sit-com pare essere un inizio pensato appositamente per depistare e allo stesso tempo per identificare la serie come nuovo inizio (concettuale, stilistico, estetico) la parte serial finisce ben presto per mitigare quello che nelle prime tre puntate aveva di fatto creato un precedente. L’estetica a quel punto ha abituato lo spettatore a una visione sempre più anestetizzante dei suoi lavori: dopo più di venti film, l’occhio dei fan si è in qualche modo assuefatto a quell’estetica, punto di forza e allo stesso tempo di debolezza dell’Universo, da sempre. La nostra recensione deve sottolineare però come, dopo un inizio ben lontano da quell’estetica, WandaVision torni ben presto all’ovile, riabilitando lo sguardo alla narrazione classica del produttore, una cifra stilistica riconoscibile, propria, fortemente inflessibile e pertanto poco modificabile. Un punto sul quale la Marvel non transige perché non vuole tradire il suo pubblico affezionato e che si è dimostrato, dati alla mano, vincente da tutti i punti di vista.

Se stilisticamente le due nature sono in netta contrapposizione fra loro, negli intenti non lo sono. Proprio il linguaggio che accomuna i due formati è il vero punto di forza del prodotto: l’ironia che contraddistingue i film Marvel è spesso influenzata dalle sit-com e non pare cosa assai aliena vederla riproposta nel suo formato originale da parte della Nostra.

Tolti gli intenti però, resta ben poco.

Che cosa resta?

WandaVision è composta da nove puntate, facilmente collocabili in tre macro gruppi: i primi riguardano in larga parte la sit-com, i successivi sono una via di mezzo nella quale le due nature si (con)fondono e negli ultimi tre il serial “assorbe” completamente la sit-com. Nella prima parte c’è quindi un tentativo di allontanarsi dagli standard visivi a cui ha abituato i fan; ben presto il tentativo appare più come un depistaggio estetizzante che come scelta coraggiosa volta a cambiare lo sguardo. Nella seconda parte WandaVision torna irrimediabilmente nei ranghi non riuscendo di fatto a optare per una scelta radicale (dovuta?! Necessaria?!, ndr).

Grande coraggio o grande classico?

Non è il solo coraggio che è mancato, nonostante si possa pensare che sia questa l’unica ragione. In realtà le motivazioni potrebbero essere altre e ben più specifiche. A un ultimo sguardo di questa recensione, WandaVision è e rimane un prodotto puramente Marvel, concepito affinché l’arco narrativo cinematografico non venga scalfito in nessun modo. Questa premessa è necessaria per far fronte a una serie di problemi che il prodotto televisivo si è portato dietro per tutto il corso della stagione. Il primo fra tutti l’incapacità di trovare un legame che non sia puramente decorativo alla scelta della sit-com. La seconda, ben più profonda è la volontà della Marvel di non tradire la sua fanbase (canonico lo sviluppo dopo la quarta puntata, ben più banale il finale con il cattivo di turno): in tal senso la serie si prospetta più come una venatura narrativa dell’Universo finora creato che come serie a sé stante capace di un arco narrativo indipendente dal cinema. Le diverse nature, seppur rappresentate in modo convenzionale, convivono senza davvero sfiorarsi, incapaci di trovare un (r)accordo estetico omogeneo. Vivono dunque di luce propria: senza dell’una l’altra sopravvive ugualmente.

A ciò aggiungiamo in conclusione un terzo formato: la mini serie. Di fatto, a oggi, WandaVision resterà un prodotto aperto e chiuso, senza una continuazione, una mini serie che fa da contenitore a una sit-com e a una serie classica. Seppur sembri assai prematuro dichiarare se questa sia o meno una mini serie, il finale lascia ben pochi dubbi. Forte di un background cinematografico potente, Marvel pare voler optare per un approccio televisivo timido, molto coeso nelle intenzioni, molto meno nel risultato.

Nonostante le buone premesse, WandaVision non riesce ad autodeterminarsi, in mancanza di una scrittura capace di uscire dai canoni della serie, nonostante questi fossero gli intenti iniziali. Discorso a parte meriterebbero gli attori, lungamente fuori parte, salvo Elizabeth Olsen, l’unica in grado di cambiare registro (comico nel primo caso, drammatico nel secondo) in modo repentino e con autentico impegno. Kathryn Hahn da buon attrice comica si cala bene nel ruolo Agnes, cadendo rovinosamente in quello della strega Agatha. Da parte sua invece Bettany fa l’esatto contrario, non riuscendo a tenere il registro comico ma mantenendo meglio quello drammaturgico. Il resto del cast, non pervenuto.

Francesco Marsiglia

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