“Che meraviglia!” Dovrei iniziarla così, questa recensione, ma di Ancestors: The Humankind Odyssey ne hanno già scritto in tanti: tra chi lo ha definito un survival bocciandolo per la sua ripetitività e chi ne ha evidenziato l’originalità senza promuoverlo a pieni voti per alcuni problemi tecnici. Nessuno, però, lo ha inquadrato per ciò che è davvero. Mi permetto allora di ripetermi, dopo averne parlato su Facebook con alcuni amici: Ancestors: The Humankind Odyssey non è un survival. Non è tanto questione di avere o meno delle meccaniche “da” survival, quanto di avere un gameplay che non è strumentale alla sopravvivenza. Ancestors: The Humankind Odyssey è il Black & White di questo decennio e Patrice Desilets, se lo guardate bene, è un Peter Molyneux a cui hanno dato da mangiare e curato l’alopecia. Riuscirò quindi a convincervi a dargli una possibilità?
Viste le peculiarità di un gameplay tanto diverso da quelli a cui siamo abituati giocando titoli appartenenti a generi ben definiti, voglio allora che anche questa recensione sia inusuale: invece di raccontarvi di meccaniche, grafica e obiettivi – anche in virtù del fatto che i ragazzi di Panache Digital Games hanno scelto di portare ai minimi termini il tutorial introduttivo – proverò la strada del diario. Tre viaggi, tre evoluzioni diverse, per le tre partite con cui ho iniziato a capire cosa c’è di eccezionale e cosa si potrebbe migliorare in questo god game – passatemi la coraggiosa etichetta – pubblicato da Private Division su Epic Store (a dicembre uscirà anche su PS4 e Xbox One, mentre per Steam si parla di 2020).
Sahelanthropus tchadensis
Mi sono svegliato e non ricordavo nulla di ciò che mi era successo. Ero solo, nudo: avevo fame. La paura di ciò che mi circondava era tale che mi annebbiava la vista e, nell’oscurità, vedevo strani volti digrignare i denti. Ho cercato di calmarmi, respirare, focalizzare la mia attenzione sugli odori. Attorno a me c’erano piante, alberi, un torrente e tanti rumori diversi: uccelli, cinghiali, rane… L’odore di casa, però, era inconfondibile. Sono riuscito a concentrarmi a sufficienza per capire dove dirigere i miei passi incerti, capendo che potevo arrampicarmi sugli alberi, saltare e correre goffamente sulle zampe posteriori. Guidato dall’olfatto sono riuscito a raggiungere una grotta alla base di una cascata dove ho trovato la mia famiglia: scimmie. La giungla attorno a me ha cambiato aspetto, trasformandosi in un luogo che sentivo di poter comprendere e domare. Per calmare la fame ho raccolto un frutto rosso; un frutto squisito che mi ha saziato. Ne ho mangiato un altro ma… la testa ha iniziato a girarmi e credo sia dipeso dal fatto che, per quanto commestibile, di quel frutto io non debba esagerare. Ai morsi della fame sono seguiti quelli della sete, quindi ho assaggiato l’acqua che scorreva limpida ai miei piedi trovandola deliziosa.
A quel punto mi sono ricordato cos’era accaduto: uno strano uccello aveva ucciso mio nonno, che a sua volta stava cercando di capire cos’era quella cosa viscida che ci aveva portato il torrente. Possibile che quel luogo fosse lontano come mi era sembrato all’inizio? Mi sono concentrato nuovamente sentendo suoni distinti provenire dalle rocce sopra di me. Ho aguzzato la vista trovando, tra i rami di un albero gigante, quello che sembrava un giaciglio di paglia e, senza riflettere, mi sono messo a correre per raggiungerlo. Mio nonno poteva essere lì? Perché aveva per le mani un animale morto? Forse voleva mangiarlo?
Olfatto, vista e udito consentono di esplorare il mondo per comprenderlo dalla distanza
Dovevo scoprirlo subito, tralasciando le tante cose nuove che mi circondavano e su cui sarei tornato dopo. C’erano piccole piante, sassi, rami… avrei potuto prenderli, capire a cosa mi sarebbero serviti, ma facevo ancora fatica a concentrarmi. Sapevo che avrei potuto utilizzarli, in un modo o nell’altro, ma… qualcosa mi bloccava. Forse ero una scimmia stupida? In quel momento, però, l’unica cosa importante era scoprire perché mio nonno era morto. Combattendo la fatica di scalare un albero così alto, dovendo quindi riposare tra un salto e l’altro, sono comunque riuscito a trovare una specie di “nido”. Il cadavere era lì, circondato da buffi oggetti bianchi, lisci e ovali. Erano grandi come la mia testa. Ne ho preso uno in mano: aveva un buon profumo e qualcosa mi diceva che avrei potuto mangiarlo. Non ho fatto in tempo, però: quella che doveva essere la loro madre mi è piombata addosso con artigli affilati e non sono stato abbastanza lesto da schivare i suoi attacchi. Sono morto sul colpo, cadendo inerte a fianco di mio nonno, chiudendo gli occhi senza sapere cosa sarebbe accaduto ai miei familiari rimasti alla grotta.
Ardipithecus kadabba
Non ricordo molto di ciò che è capitato ai miei antenati. Mio padre mi ha raccontato che avevano imparato a mantenersi in forma con una dieta varia, anche rubando le uova di un uccello predatore dal suo nido in cima all’albero più alto della giungla. Riconoscevano le piante commestibili, quelle allucinogene, riuscivano ad accumulare bastoni e rocce, sapevano che i cinghiali erano aggressivi ma che non potevano arrampicarsi come noi e che bastava starne alla larga. So che hanno fatto alcune spedizioni seguendo la corrente, arrivando a una grande cascata che si tuffava in un fiume più grande. Avevano imparato a comunicare in maniera primitiva, imitandosi e procedendo in cordata verso l’esterno della nostra grotta.
Avevano capito che non potevano fare sforzi eccessivi: la loro resistenza era limitata e se ne abusavano la loro vita sarebbe durata meno, sempre che un serpente gigante non li avesse mangiati prima. Non conoscevo il nome di mio nonno, ma lui raccontava che suo padre lo abbandonò, per non tornare mai più, nel tentativo di scoprire dove lo avrebbe portato quel grande fiume. Rimase quindi da solo, incapace di attirare a sé i suoi simili impauriti e soli ai margini della giungla. Gli mancava qualcosa e non riusciva a farsi capire anche se aveva imparato a fare un richiamo particolare con la bocca a cui sua moglie e i suoi fratelli rispondevano sempre. Io vivo in una grande insenatura ai piedi di una piccola cascata. I miei genitori riposano insieme in un giaciglio: non vanno mai troppo lontano e stanno imparando a usare bastoni e rocce per costruire ripari e oggetti taglienti. Sanno muoversi in gruppo con gli altri membri di quello che, oramai, è un clan. Abbiamo imparato che nel costruire qualcosa è importante dosare la forza, che una pietra è più dura dell’altra, che quella nera diventa acuminata, che alcuni frutti proteggono dal freddo o aiutano a curare le ferite. Credo riusciremo anche a catturare qualche pesce: ne vivono alcuni nell’acqua qui vicino e ho visto mia madre esercitarsi con un bastone.
Le azioni generano energia neuronale utile a sbloccare abilità con cui dominare la natura
Rispetto ai miei simili sono nata con un metabolismo migliore: mi serve meno cibo e posso fare più fatica. Da un certo punto di vista mi sento fortunata: riesco a reggermi sulle zampe posteriori per più tempo di quanto riescano a fare i miei fratelli. Tra qualche giorno, però, partiremo in gruppo per capire cos’è quella colonna di fumo nero che si alza in ampie volute più a valle. Abbiamo visto un oggetto rosso cadere dal cielo e…
Orrorin tugenensis
Li ho convinti ad abbandonare la casa dei padri: i più giovani avevano paura, alcuni sono morti per la fatica o sono stati uccisi da predatori che li hanno colti di sorpresa, ma in questo viaggio abbiamo scoperto una cosa straordinaria: i bastoni possono essere appuntiti con le rocce smussate e possiamo utilizzarli per uccidere ogni animale incontrato fino a oggi. Dai cinghiali, per esempio, si ottengono ossa che possono essere levigate e usate come mazze letali. Adesso facciamo tutto in gruppo e ci muoviamo all’unisono. Costruiamo insieme, combattiamo insieme, mangiamo insieme, esploriamo insieme quasi senza paura. Siamo riusciti a impadronirci di una grotta piena di insetti e pipistrelli, sbucando in una nuova zona della giungla. Grazie ai nostri sensi acuti, alla capacità di comunicare tra noi, alla facoltà di “pensare” a combinazioni impossibili per chi non ha un pollice opponibile, al nostro reggerci sulle zampe posteriori senza sforzo, possiamo arrivare là dove nessun altro animale è mai arrivato.
Io, però… sono anziano; sono troppo anziano, ormai. Sento che il mio tempo sta finendo. Sono nati dei nuovi figli, i loro genitori li portano in braccio, presto diventeranno adulti e nell’osservarci sapranno già fare tutto quello che in questi anni abbiamo appreso con tanti sacrifici e perdite. Verrò ricordato come colui che ha trovato quella roccia piovuta dal cielo? Si ricorderanno di me per essere stato il primo a salire sulla cima del padre di tutti gli alberi? Io, che ho gli ho insegnato a difendersi, che ho curato le loro ferite, che ho mostrato loro come dominare questa terra, verrò ricordato? I miei nipoti stanno per affrontare una nuova sfida: enormi bestie con lunghi nasi si stagliano all’orizzonte. La loro pelle è grigia, le loro zanne affilate… le nostre lance non potranno nulla contro quella forza. Sembrano bestie pacifiche, ma ci impediscono di setacciare questa zona pianeggiante in cerca di una nuova casa.
Lo sviluppo neuronale non segue una tabella di marcia prestabilita: c’è piena libertà di scegliere a quale carattere dare la priorità
Abbiamo imparato a costruire delle protezioni con i rovi, quindi stanotte ci accamperemo qui, sotto questo grande masso, ma quando cala il sole il vento è freddo e le nostre pellicce non sono sufficienti a proteggerci dalle folate gelide. Per adesso ci limitiamo a cospargerci il corpo con la resina di un frutto e mangiare una lunga bacca rossa: entrambi i rimedi ci aiutano a sentire meno brividi… ma dobbiamo trovare un’altra soluzione o non sopravviveremo a lungo lontani da casa. Ora che ci penso mi piacerebbe tornare alle cascate, dove sono nato. Chissà, magari i miei genitori riposano ancora là dove giacevano insieme prima di morire. Forse li raggiungerò, un giorno. Forse… un giorno… ma adesso ho sonno. Ho sonno e voglio riposare. Solo riposare…
Ho giocato Ancestors: The Humankind Odyssey con un Ryzen 5 1600, 16 GB di RAM, SSD e scheda grafica NVIDIA GeForce GTX 1050Ti al massimo del dettaglio, senza cali di frame rate o bug. Ho utilizzato il pad di Xbox One che si è prestato egregiamente al sistema di controllo pensato dagli sviluppatori. C'è qualche problema con la telecamera e un po' troppa compenetrazione di poligoni, ma nulla che abbia inficiato il ricco gameplay.
DurataArrivati fin qui, bisogna capire un’ultima cosa: quello appena descritto è un breve arco narrativo delle prime dieci ore di gioco. È la “storia” della mia esperienza con Ancestors: The Humankind Odyssey raccontata per offrire uno stralcio di quello che il sistema di gioco – basato su esplorazione, trial and error, logica e colpi di scena – può dare a tutti coloro i quali si avvicinassero al gioco con gli occhi della scoperta. Ancestors, di fatto, è un sandbox in terza persona che permette al “protagonista” di studiare ciò che lo circonda – attraverso intelligenza, sensi primari e pollice opponibile – per piegarlo alla sua volontà. È una sorta di parco giochi a cui hanno associato una serie di obiettivi utili a evolversi, moltiplicarsi e inventare. Credo fermamente che per un giocatore curioso e in cerca di un titolo capace di mettere alla prova la sua voglia di scoperta, Ancestors: The Humankind Odyssey sia un acquisto obbligato.
Questo articolo contribuisce a sostenere la ricerca scientifica sulla sindrome di Rett. Trovate i dettagli dell’iniziativa a questo link.
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