Se il morto Cthulhu sogna e attende tra le impossibili geometrie della città sommersa di R’lyeh, Edward Pierce sogna indicibili incubi tra i fumi dell’alcool, con l’aiuto di una bottiglia di whiskey, nel suo ufficio di Boston, anno 1924. Un investigatore privato come tanti, privato anche della serenità e del sonno, se non quello etilico, dalle scorie con cui la prima guerra mondiale intossica i suoi reduci, disillusi e maledetti figli della patria.
Qualcuno bussa alla porta, per distrarci da un dramma e gettarci inconsapevolmente in un altro, mentre alla radio un rinfrancante e ruggente jazz pare dirci che andrà tutto bene, ben sapendo che si tratta solo di una mera illusione. Un padre chiede giustizia per la morte della figlia e di tutta la sua famiglia, Sara Hawking, morta insieme a figlio e marito nell’incendio della magione che domina l’isola di Darkwater. Pittrice straordinaria, nota per la sconcertante carica esoterica delle sue tele, criptiche, terrificanti, magnetiche.
Ciò che si può dire sulla trama va per forza di cose fermato qui e poi sfumato lungo il resto dello scritto, perché se è vero che Lovecraft andrebbe assimilato in purezza per trarne il massimo, con le dita a sfiorare la carta e la mente libera di generare proceduralmente orrori, lasciandosi torturare dolcemente dall’angoscia di un genio della narrativa, è altrettanto corretto dire che Cyanide e i due sceneggiatori del titolo, Pia-Victoria Jacqmart e Maximilian Lutz, sono riusciti a tratteggiare un mondo estremamente vicino alla poetica dell’autore di Providence. Un risultato raggiunto solo attraverso l’ibridazione con altre ispirazioni, per diluire la stupefacente tossicità delle opere originali, droga dello spirito, e renderle fruibili attraverso un medium tanto distante e assolutamente espressivo. La scelta di plasmare l’opera attraverso meccaniche prettamente investigative è stato il primo tassello, che richiama direttamente alle atmosfere del giallo classico, di Agatha Christie, lasciando al giocatore possibilità di immedesimazione totale, spingendolo alla curiosità e alla costante ricerca dei dettagli, come un Poirot dell’innominabile. Nessuna mira open world, si torna a livelli chiusi, come fossero pagine di un libro, sapientemente costruiti e colmi di indizi, la maggior parte dei quali facoltativi, capaci, da un lato, di attivare processi di indagine prettamente personali, meta-ludici, dall’altro di far scattare eventi unici, obbligatori o meno, in grado di portare la vicenda a una delle possibili conclusioni. Cedere alla caustica seduzione dell’alcool o restare sobri è, ad esempio, uno dei dilemmi con cui dovremo fare i conti costantemente, così come mantenere un approccio più o meno aggressivo verso i personaggi che incontreremo, tutti ben tratteggiati nella personalità e nel copione, funzionali alle vicende senza però risultare mai indimenticabili, complice anche una resa visiva degli stessi appena sufficiente. Forse anche perché la mole della vicenda vive ben oltre i singoli esseri umani, piccoli tasselli di un mosaico cosmico inimmaginabile.
Essere curiosi (come lo sono stato io durante la mia prova) ci avvicinerà certamente alla verità celata dietro ai quadri di Sara, alla setta che prega divinità blasfeme nelle profondità dell’isola, agli avvenimenti che coinvolsero il peschereccio Scilla e la sua “pesca miracolosa”, ma ci porterà altre sì verso la follia, il rifiuto dell’insopportabile, in cui annegare quasi dolcemente senza opporre resistenza. Dopo ogni scelta fondamentale il titolo avvisa sempre che ciò andrà ad influire sul nostro destino, lasciando sempre il dubbio su cosa sarebbe successo se ci fossimo comportati diversamente, esattamente come faremmo nella realtà, stimolando ad affrontare una seconda partita, volendo, dando comunque modo di rifletterci su anche accontentandosi del nostro personale epilogo e tenendosi i dubbi come fossero parte integrante del gameplay. E lo sono.
Ogni elemento interattivo è poi condizionato da statistiche divise in una serie di abilità ispirate all’omonimo gioco da tavolo, elemento ruolistico che cambia le carte in tavola col suo gioco di percentuali e possibilità, dove ogni caratteristica, dal fiuto investigativo alle nozioni di medicina, passando per la forza e l’eloquenza, troveranno riscontro nel modo di risolvere dialoghi e analizzare una scena del crimine, portando a risultati differenti o all’impossibilità di trovare un indizio, precludendo certe domande durante un interrogatorio. È tutto molto sottile, mai invasivo, naturale. Riuscire a scassinare un lucchetto potrebbe portare alla luce un elemento fondamentale così come il fallimento lo lascerà nell’ombra del codice, tutto scorrerà comunque verso l’estuario del destino. Si crea così un’atmosfera splendida, noir poliziesca all’interno di un quadro dark fantasy, che non spinge mai la materia grigia al limite (Edward tenderà a risolvere le indagini per conto suo con gli indizi recuperati attraverso la nostra curiosità), concedendosi una manciata di classici enigmi ambientali e splendide situazioni prettamente surreali (tra le più riuscite in assoluto) per lasciare spazio all’assimilazione della sua mitologia, a quel meta-gioco cui ho fatto riferimento prima, quel circolo virtuoso che le opere scritte stimolano a livello neuronale, cominciando a ragionare per ipotesi assieme al nostro alter ego.
Ho cercato la verità sulla divinità blasfema per tutta l'isola di Darkwater, su Xbox One, grazie a un codice gentilmente fornito dai cultisti di Cthulhu tramite Focus Home Interactive, arrivando al finale che, alla fine, si è rivelato proprio quello che speravo, mettendo in programma anche un viaggio a R'lyeh per la prossima estate.
Struttura
Collezionabili e Extra
Scheda Gioco
È questa la bellezza di Call of Cthulhu, la vera cartina di tornasole nell’utilizzo sapiente del materiale lovecraftiano. Perché poi, quando il ritmo si alza, l’opera mostra tutte le sue crepe strutturali, ributtandoci nella scorsa generazione che il lato tecnico sussurrava già dai primi secondi di gioco. Si ritorna quindi alla moda dello stealth a tutti i costi, mal implementato, sporco, meccanico, fino a una particolare sezione simil FPS da far accapponare la pelle per pochezza, come fosse stata incollata sulla struttura originale con qualche mano di colla vinilica. A dar fastidio, una volta visti i titoli di coda, non è tanto la quantità delle stesse (brevi, poche, e sparse lungo la seconda metà del racconto), quanto l’ansia di vederle riproposte a spezzare il ritmo di una sezione particolarmente affascinante. Un effetto quasi traumatizzante, pavloviano, su un gameplay che sembrava beatamente lento, dolcemente in pendenza verso un orrore totalmente psicologico, senza ripetere l’errore di quel capolavoro incompiuto di Deadly Premonition. Sono spezzoni stantii che distraggono dal pensiero, dall’elucubrazione fine a sé stessa, per fortuna non riuscendo a rovinare l’esperienza generale, che a dire il vero torna a brillare, a livello di tensione, con due particolari fasi platealmente terrificanti, orribili, capaci di impietrire con l’estetica blasfema di creature immonde e un sound design magistrale, che costringono il cuore a pompare sangue con frequenze da fibrillazione.
Ma la paura, in Call of Cthulhu, è soprattutto una questione di soggezione, sensazioni, pensieri. L’estetica putrescente e diroccata di Darkwater, isola di pescatori caduta in disgrazia per una moria di pesci che somiglia a una maledizione senza fine, l’illuminazione verde acida delle sua lampade a olio di balena, o chissà che altro animale, i dettagli della magione Hawkins, i suoi richiami esoterici e soprannaturali, i ricordi di famiglia, le stanze private diventate ormai sfondi da natura morta, i corridoi marci di un ospedale psichiatrico, quell’oppressione che fiacca corpo e spirito facendolo degenerare in uno stato allucinatorio attanagliante. Un’estetica che vive soprattutto di dettagli, richiami a quell’arte aliena e immonda che potevamo solo immaginare attraverso le parole dello scrittore, oggetti rituali, statue, monili, tutto ricreato (anzi, creato da zero) per ammiccare in maniera garbata a chi ama la sua mitologia e ne è quasi ossessionato. Poco importa se tutto è filtrato attraverso uno spessore tecnico da passata generazione, il messaggio arriva sempre forte e chiaro; come quando all’interno di un incubo l’olio della nostra lampada sta andando ad esaurirsi (le ricariche sono sparse per i livelli) e il respiro si fa affannoso, l’ambiente viene mangiato dal buio e ci si ritrova a correre per trovare la via del ritorno tra echi immondi e osceni. Capita anche di doversi nascondere in angusti armadi, presi per il collo da una claustrofobia rampicante, mentre la vista si annebbia e dalle fessure vediamo passare il nostro inseguitore, simulando un attacco di panico capace di spezzare il fiato. È in questi momenti che escono prepotentemente i ricordi delle avide letture, la loro carica più angosciante, adattate a un racconto forse più moderno, più adatto al medium se vogliamo.
L’opera Cyanide si farà sicuramente apprezzare dai cultisti dell’autore statunitense, se sapranno cogliere le sfumature più moderne di quella che in fin dei conti è una vicenda nuova che si va a collocare nel quadro generale del suo Mito. Inutile fare gli integralisti, ad un certo punto, e la sua meravigliosa atmosfera viene in parte rovinata solo da discutibili scelte di design, brillante quando resta sul piano investigativo/narrativo, fallace appena si alzano i ritmi e si fa affidamento su meccaniche ormai vecchie. Un buon primo passo per un titolo che meriterebbe di essere il primo di una serie, soprattutto per la coerenza narrativa che ha dimostrato, occasione per veder rivivere le fantasie di Lovecraft e aggiungere nuovo materiale interattivo a una delle opere più importanti della letteratura moderna.
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