Quando To the Moon venne rilasciato, nell’ormai lontano 2011, si presentò come un fulmine a ciel sereno nel panorama del medium, un titolo in grado di commuovere, emozionare e, a tratti, divertire. Per la sua qualità il gioco riuscì nell’impresa, tanto agognata dalle realtà indie, di svilupparsi attorno una fedele e ristretta fetta di pubblico, consacrando Kan Gao e il suo team verso il mercato internazionale.
Con colpevole ritardo, a distanza di circa sette anni, approfittando dell’uscita del sequel, ho deciso quindi di recuperare l’intera serie di Freebird Games, ora composta da due titoli principali e tre spin-off, per un universo narrativo in continua espansione.
Finding Paradise, secondo capitolo della Sigmund Corp. Saga, già posso anticiparvi, è il degno erede di To the Moon, mantenendone la superba profondità narrativa e la delicata sensibilità del sonoro.
Il concept della saga di cui Finding Paradise fa parte è senza dubbio geniale, per quanto complesso, frutto di una grandissima idea del director Kan Gao. Ci troviamo nei panni di due dottori, Eva Rosaline e Neil Watts, facenti parte della Sigmund Corp., una compagnia dedita a soddisfare l’ultimo desiderio di pazienti a un passo dalla morte, vivere la vita che hanno sempre desiderato. Sebbene il procedimento avvenga ovviamente solo nella mente di chi lo subisce, ciò non toglie che questo sia estremamente difficile da portare a termine. Per mantenere la coerenza logica nei ricordi generati dalla macchina, è infatti necessario inserire il desiderio richiesto nel più lontano ricordo esplorabile e limitarsi a mantenerlo costante durante tutto il vissuto virtuale sviluppato.
Il leitmotiv dell’intero gioco è di conseguenza l’esplorazione del ricordo, con una grande attenzione allo spessore di personaggi ed intreccio, spesso con forti connotazioni drammatiche. Il livello qualitativo dei dialoghi e della narrazione raggiunge picchi di grandissimo spessore specialmente nelle fasi iniziali e finali dell’esperienza, cercando di trovare un complesso equilibrio tra ironia dissacrante – spesso ricca di riferimenti alla cultura pop – e introspezione. Il successo di questa particolare dicotomia si deve tutto alla chimica dei due personaggi protagonisti, Watts e Rosaline, in grado di destreggiarsi, mai con banalità o sterilità, nelle situazioni presentate, attraverso battute sagaci e lucidi confronti antitetici.
Chi ha già giocato To the Moon ritroverà quindi facilmente gli elementi chiave per cui il titolo è stato così amato e giocato, ma con importanti differenze, in particolare rispetto ai temi trattati. Se infatti il predecessore puntava tutto sul parossismo e sulle conseguenze di un disordine mentale, Finding Paradise spinge violentemente l’acceleratore sulla costante e (apparentemente) insensata insoddisfazione di un uomo rispetto alle asperità della vita, utilizzando per l’occasione un’esplorazione dei ricordi non più lineare, ma letteralmente ellittica, tutta intorno a un unico avvenimento di cui non vi dirò di certo nulla.
La soluzione del caso, ma anche le sue stesse premesse, rimarranno difatti inquietanti incognite per tutta la durata dell’avventura, destinate ad essere intelligentemente risolte solo nell’intenso finale. Neanche Colin, il paziente di questo episodio, è consapevole di ciò che vorrebbe cambiare, confuso com’è nel senso di colpa verso la sua famiglia, la quale non riesce a spiegarsi la sua infelicità.
Il quadro è perciò quello di una narrazione matura, arricchita da sorprendenti colpi di scena e da una caratterizzazione pressoché perfetta, che mostra il fianco solo nella sezione intermedia, meno avvincente e riuscita, per via di una conduzione del ritmo non sempre brillante. Sarò scontato, ma è inutile dirvi quanto sia importante aver giocato almeno To the Moon ed A Bird Story prima di impegnarvi nella scoperta di Finding Paradise, il quale, a costo di perdersi tanti importanti riferimenti, può essere però anche apprezzato singolarmente.
Ho giocato Finding Paradise poco dopo aver finito To the Moon, A Bird Story e gli altri due episodi spin-off. La saga di Kan Gao è stata un appuntamento fisso sul mio MacBook per settimane: coperte, luci spente ed auricolari sono il miglior modo di godersi il titolo.
Struttura
Scheda Gioco
Per quanto riguarda il gameplay, se avete anche solo lontanamente idea del titolo di cui stiamo parlando, ne conoscerete certamente un fattore fondamentale: di prettamente ludico Finding Paradise ha poco e niente, lasciando spazio all’intrecciarsi della trama e tralasciando il resto. Di fatto l’intervento del giocatore si limita a semplici fasi di esplorazione, raccordate da una lineare interazione con NPC per sbloccare dialoghi, informazioni in game e memento, token necessari per passare da un ricordo all’altro.
Di questo si può difficilmente farne una colpa, data la natura dell’avventura, ma si sarebbe certo potuto fare di più, specie a fronte di sette anni di sviluppo. Tuttavia, nell’ultima ora di gioco anche i più critici a riguardo troveranno pan per i loro denti, con alcuni minigiochi simpatici e ben integrati, pienamente giustificati nello sviluppo narrativo. Un salvataggio in zona Cesarini, insomma.
Il comparto grafico rimane invece piuttosto simile a quanto già visto in To the Moon, con una pixel art in 16-bit semplice ed essenziale, ma molto, molto curata per quanto riguarda le animazioni dei personaggi e la gestione delle palette cromatiche, perfettamente sposate con le scene a schermo (ben illuminate) e con la splendida colonna sonora.
Kan Gao infatti anche qui non manca di proporre una OST di ottimo livello, confermando le sue capacità di compositore, oltreché di game designer e storyteller, al netto però dell’importante assenza di brani effettivamente memorabili. Le seppur ottime tracce presenti, risultano poi piuttosto derivative dal primo capitolo della serie, con un’inevitabile sensazione di già sentito impossibile da non percepire dai più attenti.
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