Recensione

Joker: non chiamatelo cinecomic

Una dolorosa e sofferta discesa negli abissi della psicosi, è questo il Joker portato sullo schermo da Todd Phillips. E’ il racconto di un uomo tormentato dagli spettri del passato, è la storia di una persona comune messa alle corde dalla vita, è il dramma di un essere umano confinato ai margini della società a causa di un disturbo mentale, è il disperato tentativo di autoaffermazione in un mondo di apatia e disinteresse.

Discostandosi nettamente dalle illustri interpretazioni del passato, Todd Phillips consegna al pubblico un personaggio inedito, incredibilmente realistico, vivo e sfaccettato. Joker questa volta non è né uno spietato criminale, né un sadico anarchico, ma un debole, uno sconfitto, un malato in cerca di affetto e sostegno dal prossimo, le cui richieste di aiuto si esternano con una straziante risata.

La pellicola sensibilizza indirettamente il pubblico sulle difficoltà che le persone affette da patologie mentali vivono quotidianamente e sullo stigma sociale a cui sono spesso condannate

Bocciare la scelta di (ri)costruire l’iconico supercattivo  sulle fondamenta del disturbo mentale perché “non rispettoso del canone” sarebbe quanto mai superficiale. L’idea di Phillips risulta invece estremamente coerente, rielaborando intelligentemente uno dei tratti distintivi del personaggio – il sorriso – ancorandolo a una malattia reale, la sindrome della risata incontrollata. Il risultato di questa intuizione è duplice: in primis permette di creare un protagonista credibile con il quale è impossibile non empatizzare e, collateralmente, mostra un crudo spaccato della vita e delle difficoltà che queste persone affrontano quotidiniamante, sensibilizzando gli spettatori sul tema e combattendo virtuosamente un triste stigma sociale. Esemplare e commovente in questo senso il bigliettino che Arthur porta sempre con sè, per informare le persone della sua condizione nel caso di attacchi di riso improvvisi.

Questo detto, Todd Phillips e Scott Silver si sono dimostrati comunque molto attenti e rispettosi del materiale originale e della tradizione, sia fumettistica che cinematografica. La mitologia dell’uomo pipistrello c’è tutta, anche se messa in secondo piano e opportunamente reimpastata per servire un prodotto originale, così come sono presenti numerose influenze di varia natura.
Lato fumetto impossibile non pensare al capolavoro di Alan Moore, The Killing Joke, da cui viene ereditata, in parte, la caratterizzazione del personaggio, e soprattutto, anche se in maniera meno evidente, la riflessione sulla dolorosità del ricordo e l’abbandono alla follia. Un tema quest’ultimo che ha colpito moltissimo chi scrive durante la lettura dell’albo e che, evidentemente, ha avuto un peso importante anche nella stesura della sceneggiatura. Sono infatti proprio il confronto con i traumi del passato e il loro successivo diniego a mandare in pezzi la fragile psiche di Arthur, portando così a compimento l’irreversibile trasformazione nel Joker.

Phillips ha fatto sua l’eredità di grandi artisti come Alan Moore e Martin Scorsese, ispirandosi a capolavori quali The Killing Joke e Taxi Driver

Sul versante filmico, il regista non ha mai fatto mistero di essersi ispirato agli studi di personalità del grande cinema degli anni settanta e ottanta. A influenzare la penna e la camera di Phillips sono stati senza ombra di dubbio Taxi Driver e Re per una Notte del maestro Scorsese, continuamente omaggiati nel corso del film. De Niro nelle vesti del conduttore di una stand-up comedy è una testimonianza sufficiente, ma a questo si potrebbe aggiungere l’emulazione di un gesto emblematico dell’iconico taxista, che vi sfido a notare, e molto altro ancora. La stessa Gotham City è, mutatis mutandis, una riproposizione dell’oscura e violenta New York, piena di quella famosa “feccia” della quale Travis si voleva sbarazzare.

Al netto delle tante influenze e fonti d’ispirazione, Phillips ha dimostrato di essere maturato enormemente come regista dopo la trilogia di Una Notte da Leoni, tanto da guadagnarsi la luce dei riflettori del Festival di Venezia.
Magistrale la costruzione della tensione che monta poco alla volta, parallelamente allo sgretolarsi delle certezze di Arthur, fino ad esplodere in un climax di violenza selvaggia e inaspettata che fa raggelare il sangue nelle vene degli spettatori, costretti a voltare le spalle al protagonista, anche loro.
Sorprendono inoltre i numerosi accorgimenti tecnici che valorizzano la pellicola. Alcune sequenze particolarmente ispirate anche sul piano visivo, come le riprese anguste all’interno del condominio, ben rappresentano la progressiva perdita di ciò che in gergo clinico viene chiamato “esame di realtà”, ovvero la capacità di distinguere tra mondo reale e immaginazione.
Allo stesso modo colpisce la scoperta di una sensibilità e di una poetica che mai avremmo creduto di poter attribuire al regista in questione. Un esempio in questo senso è la ripida scalinata che già avevamo visto nei trailer, metafora della vita stessa del protagonista. Se è sempre e solo Arthur a salirla con manifesta fatica, a scenderla è invece, un’unica volta, il Joker, mentre esegue una scomposta e disturbante danza, testimonianza dell’ormai definitivo approdo nel porto della psicosi.

La fisicità malata e la risata straziante di Phoenix lo proiettano verso l’Oscar e marchiano a fuoco il suo Joker nella memoria degli spettatori

Se fino ad ora abbiamo tessuto le lodi di chi il film l’ha diretto, impossibile non applaudire a scena aperta chi l’ha interpretato, un Joaquin Phoenix in assoluto stato di grazia. La sua interpretazione contribuisce a rendere il personaggio credibile, sfaccettato, oltre ogni modo umano. La mimica facciale, la gestualità del corpo, così come la recitazione complessiva, trasmettono con forza travolgente il tormentato vissuto interno di Arthur. In alcuni frangenti, pensiamo ad esempio al primo incontro con Murray (Robert De Niro), la fragilità e l’innocenza messi in scena da Phoenix colpiscono dritti al cuore, generando un moto irrefrenabile di compassione.
A proiettare l’attore verso la sicura quarta nomination agli Oscar intervengono poi l’insana trasformazione fisica a cui si è sottoposto, perdendo più di 20 chilogrammi, e l’incredibile lavoro svolto su quella dolorosa, straziante e incontrollabile risata. Due elementi che scolpiranno indelebilmente il suo Joker negli ippocampi di cinefili e appassionati tutti.

Joker è in definitiva un film di ottima qualità, ma una precisazione è d’obbligo riguardo la sua natura: non è un cinecomic. Senza questa contestualizzazione necessaria si corre il rischio di credere che il film abbia scardinato la struttura delle pellicole dedicate agli eroi in calzamaglia e ne abbia innovato la formula, ma non è così! Del cinecomic, sia esso “d’autore” come quello di Nolan o mainstream come quello Disney, mancano quasi tutti gli elementi distintivi (contrapposizione tra supereroe e antagonista, resa dei conti, trionfo del bene, etc…) ed è quindi naturale che il risultato finale sia di più ampio respiro e abbia un’architettura differente. Il confronto con un Avengers qualsiasi risulterebbe sterile e impietoso, ragione per cui questo film va relazionato a titoli di tutt’altra natura e caratura, come lo stesso Taxi Driver da cui prende ispirazione.

Joker è in definitiva un chiaro e potente invito all’empatia, lanciato attraverso una straziante risata a cui non possiamo e non dobbiamo voltare le spalle

Chiarito questo aspetto, va altresì sottolineato come Joker sia un esperimento dall’esito positivo insperato. L’opera di Phillips dimostra chiaramente come i film ispirati a personaggi dei fumetti possano parlare linguaggi diversi da quelli a cui siamo stati abituati finora, dando forma a un racconto dove l’uomo sostituisce l’eroe (o il cattivo, in questo caso).
Prestandosi a diversi livelli di analisi e interpretazione, Joker risulta essere un film poliedrico come la psiche del suo protagonista, un ritratto della complessità dei nostri tempi, creato utilizzando forme e colori del passato, accostati però in maniera unica e originale. Nel narrare la storia di un uomo comune, Todd Phillips trova la sua freccia migliore per lanciare un messaggio che è un potente invito all’empatia. Arthur Fleck potrebbe essere anche il vostro vicino di casa e dunque non fingetevi sordi davanti alle richieste di aiuto dei più deboli, non nascondetevi dietro a mille scuse, ma tendete una mano, riscoprendo il prezioso valore della solidarietà prima che sia troppo tardi.

Giacomo Bornino

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