Si riconosce una canzone o una musica di valore perché spesso la sua melodia viene riarrangiata in generi completamente diversi, risultando ugualmente bella e convincente. Qualcosa di simile avviene anche nel mondo dei videogiochi, in cui capita che un elemento di game design venga declinato all’interno di altri giochi e tipologie, talvolta completamente differenti, mantenendo comunque una grande efficacia.
Con Salt&Sanctuary assistiamo a questo fenomeno nel momento in cui uno sviluppatore ha pensato di trasporre l’approccio dei soulslike dentro un action platform bidimensionale. Questo rifarsi all’illustre collega trapela anche dalle atmosfere, dai mostri che popolano l’ambientazione, rendendo l’insieme un cupo teatrino medievale che echeggia anche nella forma al lavoro di From Software.
Il viaggio del protagonista inizia dopo un naufragio, avvenuto mentre era intento a scortare la principessa al suo matrimonio verso il regno vicino. Ritrovatosi in territorio ostile, la sua nuova missione diventa salvare la sua protetta, ma non prima di aver espugnato ogni anfratto, rovina e fortezza dell’isola.
I passi avanti vengono compiuti con fatica e non c’è conforto nella presenza dei comprimari, i quali dispensano poche righe di dialogo giusto per lasciare qualche dettaglio al giocatore. La più grande compagnia sarà invece quella dei nemici, i quali occuperanno la maggior parte dell’azione e determineranno la progressione nell’avventura anche dopo la dipartita del nostro prode cavaliere. Sconfiggendo gli avversari infatti si riceve un quantitativo di sale (essenziale nella componente ruolistica, al punto da essere parte stessa del titolo) utile per salire di livello, ma qualora si venga sconfitti invece lo si perde, ridiscutendo quindi la nostra tabella di marcia in funzione di ritornare sul luogo del disastro e recuperare il bottino perso. Perdere in Salt&Sanctuary è quindi un’esperienza punitiva in quanto si paga pegno: se si vuole riprendere le proprie risorse bisogna riscattare il proprio fallimento.
Il sistema di classi permette di scegliere lo stile di gioco più consono alle preferenze non soltanto per giustificare la partecipazione al genere RPG, ma anche perché l’utente possa affrontare nel modo migliore l’impietosa difficoltà.
I game over infatti rischiano di essere tanti e il primo modo per evitarli è imparare bene le meccaniche di combattimento e usarle al meglio. La rosa di mosse infatti è ben variegata per differenziare ciascuna classe e raggiunge una profondità persino inedita per la maggior parte dei metroidvania o hack&slash bidimensionali, al punto che il numero di approcci con cui è possibile dedicarsi al gioco non teme troppi confronti con lo stesso Dark Souls. Con un po’ di creatività (e sfacciataggine, considerando che certe combinazioni sarebbero criticate da un qualsiasi narratore di giochi di ruolo cartacei) si riescono persino ad intrecciare abilità ben lontane dalla classe originaria, pur di adeguare il nostro avatar al proprio stile di combattimento. Ad arricchire ulteriormente l’insieme c’è anche l’inserimento di un’esplorazione che segue i principi dei metroidvania citati prima. Tramite una griglia sferografica si potenzia il personaggio e diventano attive nuove funzioni, le quali garantiscono l’accesso ad aree prima irraggiungibili che a loro volta ci offriranno nuovo materiale con cui trastullarci (o inviperirci).
La grafica ricalca molto lo stile usato precedentemente dagli sviluppatori di Ska Studio nel loro lavoro The Dishwasher, qui concentrato su di un mix di tinte buie e spente, per rafforzare sempre di più la fosca cornice degli eventi e renderla ancora più quanto non sia. A completare l’opera ci pensano gli oltre venti boss, ben caratterizzati dal punto estetico e tutti perfettamente calzanti. Su questi però bisogna sottolineare quello che è un po’ il tormento e il diletto della produzione. Da un lato affrontarli è una delle prove più impegnative, strutturate e gratificanti dell’intera esperienza, dall’altro però il loro essere letali spesso diventa sin troppo sbilanciato, facendo quasi pensare che gli sviluppatori abbiano dato talmente per scontato il ciclico game over a cui il giocatore deve sottoporsi, da renderlo accettabile anche qualora avvenga in modo gratuito. Una simile gestione invece non denota una cura perfetta della curva di difficoltà e anzi, rischia di diventare sgradevole anche se inserita in un gioco che fa del suo essere ostico un’attrattiva. Tuttavia il confine tra impegnativo e frustrante è un filo di lana, spesso facile da superare senza accorgersene e su cui oggigiorno si tende a sorvolare perché magari esasperati dall’eccessiva facilità dei giochi più commerciali.
Salt&Sanctuary arriva su Switch con una conversione che si accompagna alla rimasterizzazione del primo Dark Souls, quasi per fare compagnia al suo ispiratore e risultando gradevole su schermi portatili al pari di come lo avevamo fruito a suo tempo sull’oled di Playstation Vita. Questa recensione pertanto coglie solo spunto dalla recente ripubblicazione per offrire un’alternativa indie a chi non si accontenti del solo gioco di Hidetaka Miyazaki e voglia esplorarne la formula in altri modi. Con una longevità di circa venti ore e una modalità New Game Plus, la durata saprà intrattenere per un po’, in attesa che anche gli altri Souls giungano sulle piattaforme Nintendo.
Salt&Sanctuary è una conversione per Nintendo Switch del gioco già uscito su Pc, PlayStation 4 e Vita.
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