Recensione

Ratched, la recensione della nuova serie Netflix con Sarah Paulson

Cominciamo questa recensione di Ratched con una premessa. Il nuovo serial made in Netflix prende il nome dal personaggio di Mildred Ratched, l’arcigna infermiera portata sul grande schermo da Louise Fletcher in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Tuttavia, il legame con il capolavoro di Milos Forman è decisamente flebile e non si ha sostanzialmente mai l’impressione di trovarsi di fronte al medesimo “mondo” e al medesimo personaggio.

Questo non è assolutamente un male, poiché, come vedremo, lo show sceglie una strada completamente diversa e personale rispetto alla pellicola del ’76, la cui visione non è fondamentale per la comprensione della serie (ma che ovviamente consigliamo, per il valore straordinario dell’opera e dei suoi interpreti).

 

Hitchcock, sei tu?

Siamo nel 1947, in California. Un giovane uomo dallo sguardo tutt’altro che rassicurante si intrufola nell’abitazione di alcuni preti cattolici ammazzandone brutalmente quattro. L’uomo in questione, Edmund Tolleson, verrà mandato in isolamento nell’ospedale psichiatrico statale di Lucia, un centro d’eccellenza gestito dall’eccentrico Dottor Richard Hanover.

Ben presto nello stesso ospedale verrà assunta Mildred Ratched, infermiera dallo sguardo triste ma dal temperamento fiero. Mildred dimostrerà un certo interesse verso le innovative tecniche terapeutiche del Dottor. Hanover, tra le quali la lobotomiaportando al contempo a galla le psicosi del personale ospedaliero.

Fin dalle prime battute l’elemento crime assume un ruolo di centrale importanza nell’economia dello show, al pari del dramma. Non di rado si entra anche nel territorio dello splatter (la serie ha una classificazione V.M.14), con amputazioni di arti e ustioni cutanee mostrate senza pudori particolari agli occhi dello spettatore.

Il riferimento principale sembra essere il cinema di Alfred Hitchcock

Proprio l’allontanamento da un registro puramente drammatico acuisce la distanza tra questo prodotto e il film con Jack Nicholson. Il riferimento principale sembra essere il cinema di Alfred Hitchcock, citato  direttamente a più riprese (gli interni del motel in cui alloggiano alcuni dei protagonisti riecheggiano chiaramente quelli del Bates Motel di Psycho) e in generale tutto il filone del cinema di “suspance”, in particolare degli anni cinquanta e sessanta. Si cita ad esempio direttamente Cape Fear attraverso l’uso, a più riprese, del magnifico tema principale composto da Bernard Hermann.

Non mancano però incursioni in un cinema più estetico e surrealista. L’uso della prospettiva centrale sui campi lunghi e della steady a seguire le camminate dei protagonisti nei lunghi corridoi della clinica psichiatrica non può che far pensare al Kubrick di Shining.

Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.

Un surrealismo che trova la sua sublimazione in vere e proprie sequenze oniriche, efficacissime nel delineare le follie, ma anche le paure e le debolezze, di un pantheon di personaggi a dir poco eccentrici. Personaggi che sembrano partoriti dalla fantasia di Lewis Carrol e magistralmente portati sul piccolo schermo da un cast di interpreti eccelsi.

Sarah Paulson è straordinaria e credibile in ogni situazione e riesce a tratteggiare abilmente un personaggio perennemente in bilico tra lucidità e pazzia, tra crudeltà e inaspettata tenerezza. Finn Wittrock incute timore grazie al suo sguardo luciferino, salvo poi, anch’egli, mostrare magistralmente il lato più umano del suo personaggio.

Personaggi che sembrano partoriti dalla fantasia di Lewis Carrol e magistralmente portati sul piccolo schermo da un cast di interpreti eccelsi

Dal Dottor Hanover interpretato da Jon Jon Briones alla capo infermiera Betsy Bucket (una grandiosa Judy Davis), passando per la fragile Gwendolyn Briggs, donna in carriera dilaniata dal conflitto tra la propria sfera pubblica e privata, interpretata da Cynthia Ellen Nixon (la Miranda Hobbes di Sex and the City): ogni personaggio è credibile e sfaccettato. Il merito è da attribuire, oltre che agli interpreti, alla validissima scrittura di Ian Brennan, capace di tratteggiare ogni elemento all’interno di una storia che fa della coralità una delle sue bandiere.

Completano il cast nomi altisonanti come Sharon Stone, Amanda Plummer e Vincent D’onofrio, con un trio di antagonisti, nemmeno a dirlo, spaventosamente psicopatici e sopra le righe, capaci di creare più di un grattacapo alla protagonista.

100% Murphy

Se siete fan delle opere di Ryan Murphy non faticherete a riconoscerne la mano. Vi diciamo in questa recensione di Ratched che infatti questa è una serie partorita dalla mente dell’istrionico Murphy, qui anche in veste di regista di alcuni episodi, e da Evan Romansky, già ideatori insieme della recente miniserie Hollywood (qui trovate la nostra recensione). Da Nip/Tuck ad American Horror Story, Ratched è la summa della sua visione.

A partire dai nuclei tematici tra i quali tornano alcuni dei cavalli di battaglia del Murphy più o meno recente. In primis la malattia mentale, trattata con sapienza in un riuscito bilanciamento tra normalizzazione ed empatia. Murphy non giudica la follia dei suoi personaggi ma la accetta, la abbraccia e in alcuni casi la giustifica. I percorsi mentali dell’essere umano, anche i più spaventosi, sono il risultato di esperienze, di vissuti e di paure altrettanto umane.

In secondo luogo tornano gli altrettanto cari temi della discriminazione sessuale e razziale. Temi che, se vogliamo, risultano un pelino forzati in un paio di passaggi (non vi diciamo di più, questa recensione di Ratched è come al solito priva di spoiler) ma che aiutano perfettamente a raccontare la difficoltà dell’accettarsi per quello che si è e non per quello che si vorrebbe essere.

Plongée, piani olandesi, soggettive sghembe sono scelte di regia estremamente calzanti nella messa in scena di un noir psicologico dalla verve surrealista.

Anche da un punto di vista visivo il collegamento con altre opere di Murphy è evidente. A partire dalla fotografia satura e pastellosa che ricorda, appunto, Hollywood, fino ad alcune scelte di linguaggio e di messa in scena peculiari. Ad esempio un uso intelligente dello split screen già visto in alcuni episodi di American Horror Story.

Particolarmente interessante da sottolineare in questa recensione di Ratched, in generale, risulta la composizione dell’immagine, davvero mai banale, merito anche di un clamoroso lavoro di location, scenografie e costumi. Plongée, piani olandesi, soggettive sghembe sono scelte di regia estremamente calzanti nella messa in scena di un noir psicologico dalla verve surrealista.

La recensione di Ratched non può che concludersi quindi con una piena promozione. Il nuovo show di Netflix è sicuramente tra le produzioni più interessanti di questa sfortunata annata. Un prodotto ricco di inventiva e di follia visiva, coadiuvato da una scrittura altrettanto fervida.

Ratched non è privo di difetti, con alcune situazioni oltre il limite del credibile se analizzate in maniera eccessivamente razionale. Ma non importa, non è questo il piglio con cui approcciarlo. Ratched è un viaggio nelle menti lacerate ma umane dei suoi protagonisti, uno sguardo a un mondo che non è credibile nella sua attinenza alla realtà, ma estremamente efficace come metafora stessa della mente umana.

L’intera prima stagione di Ratched, composta da otto episodi della durata di circa un’ora, arriverà su Netflix a partire dal 18 settembre.

Leonardo Alberto Moschetta

Appassionato di videogiochi dal lontano...ehm..troppo tempo. Amo ogni genere di audiovisivo, in particolare il cinema, al punto da aver trasformato in lavoro questa mia passione. Tra le altre mille passioni: Giappone, Cibo, Vino, Musica, un po'di sport (il fantacalcio conta?), letteratura, fumetti e...

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