Quando mi trovai a tu per tu la prima volta con la recensione di Shadow of the Colossus, nel 2006 su PlayStation 2, erano decisamente altri tempi: perdonare a cuor leggero magagne tecniche non era così raro.
La creazione di Fumito Ueda faceva a botte con la telecamera, aveva un sistema di controllo inizialmente ostico e soprattutto non conosceva il termine “fluidità”.
Pur giocandolo per la larghi tratti al di sotto della soglia dei 30fps, ad ogni modo, sono stato completamente rapito dall’atmosfera, dalla storia narrata e dal gameplay, premiando l’opera con un sonoro 9.6.
Se non conoscete Shadow of the Colossus, vi basti sapere che si tratta di un’avventura in terza persona: Wander e il suo cavallo Agro hanno appena raggiunto i confini del mondo conosciuto nel tentativo disperato di salvare Mono. Per farlo l’hanno adagiata su un altare interpellando Dormin, entità enigmatica che chiede al protagonista di eliminare falsi idoli dalle sembianze di colossi giganti.
Dopo la precedente apparizione in alta risoluzione su PlayStation 3, il salto sull’ammiraglia Sony ha dato subito il la ad una diatriba tra i termini remake/remaster: contenuti identici all’originale, comparto tecnico invece interamente rifatto. Sulla carta ci troviamo quindi nel primo caso, a me piace però includerlo nel secondo, perché le sensazioni vissute sono state del tutto simili a quando l’ho giocato la prima volta.
Dialettica a parte, in Shadow of the Colossus siamo di fronte al classico Davide contro Golia. Wander è costretto a esplorare queste lande desolate alla ricerca dei colossi, fermandosi brevemente per pregare oppure raccogliere frutti e lucertole per aumentare vitalità e resistenza.
“Coinvolgimento” è la parola giusta per definire le ore passate assieme al titolo di Fumito Ueda, graziato poi da un colpo d’occhio che restituisce proprio quel senso di avventura ed esplorazione che sembra spesso mancare in certe produzioni recenti.
Il gameplay sta tutto nel dover individuare e raggiungere i colossi grazie alla luce-guida della propria spada, per affrontarli studiandone il comportamento e scalandoli per attaccarne i punti deboli. Shadow of the Colossus offre quindi dinamiche da platform e puzzle ambientali: i primi colossi risultano piuttosto facili, quelli avanzati necessitano uno studio maggiore dell’ambientazione. Vanno colpiti magari con l’arco per farli muovere scoprendo i punti deboli, all’insegna di meccaniche ingegnose e peculiari, che mettono alla prova il proprio spirito di osservazione.
Pad alla mano bisogna agguantare le parti pelose o le sporgenze del loro corpo di pietra, rimanere ben saldi mentre si dimenano, tenendo d’occhio nello stesso tempo la barra della resistenza. Nessun movimento automatico: R2 determina la presa dopo un salto e l’appiglio costante in posizione di squilibrio, elementi fondamentali del gameplay che determinano il livello di sfida nelle situazioni più concitate.
Su PlayStation 4 vengono proposti due metodi di controllo aggiuntivi rispetto all’originale, i quali appunto favoriscono l’utilizzo dei dorsali per mira e presa, mentre la telecamera è stata posta a distanza leggermente maggiore.
In realtà ho trovato la visuale ancora troppo “nevrotica”, dovendo operare costantemente sull’analogico destro per aggiustarla.
Qualche riga fa vi ho parlato di coinvolgimento e atmosfera, perché è anche lì che si gioca la partita in Shadow of the Colossus. La narrazione è spesso affidata alle immagini rispetto che alle parole, quando si sconfigge un colosso si hanno molti dubbi di aver fatto la cosa giusta, l’ambientazione restituisce un senso di desolazione e malinconia che si porta dentro sino alle battute finali.
La colonna sonora, realizzata dal maestro giapponese Kow Otani, fa da perfetto contrappunto al gameplay. Di qualità eccezionale, si mette in disparte nei momenti di esplorazione, esaltando invece quelli topici. Propone brani memorabili accompagnati da cori orchestrali, violini e altri strumenti, senza dubbio tra le colonne sonore più belle che mi sia mai capitato di ascoltare.
Tra le altre cose risulta invecchiato piuttosto bene, come un vino che pur non risultando ruffiano come i suoi fratelli più giovani, nasconde note di storicità profonde che hanno tracciato la strada successiva.
L’opera di remake, infine, si è materializzata in un comparto tecnico al passo con i tempi per quanto riguarda l’aspetto grafico, rispettoso con qualche licenza per quello artistico. All’interno delle opzioni è possibile scegliere una modalità che da priorità alla fluidità e un’altra al taglio cinematografico, fissando il frame rate sui 30 fotogrammi al secondo e aumentando di concerto la risoluzione (su PlayStation 4 Pro). Io ho preferito quest’ultima, decisamente più appagante dal punto di vista visivo e in linea con l’atmosfera che permea ogni pixel di gioco. La ciliegina sulla torta è il supporto per l’HDR, in grado di esaltare ancora di più gli scorci offerti dal gioco e il sistema di illuminazione: se non fosse per alcune texture e la presenza di effetti limitati, si potrebbe tranquillamente parlare di un titolo sviluppato per questa generazione di console.
Ho giocato Shadow of the Colossus su PlayStation 4, dopo averlo già recensito su PlayStation 2 e provato a fondo su PS3 all'interno della collector's di ICO.
DurataShadow of the Colossus rappresenta ancora oggi un videogioco unico nel suo genere, un titolo che dovrebbe far parte del bagaglio culturale di tutti quelli che credono fortemente nella commistione tra narrativa, aspetto visivo e colonna sonora, supportata ovviamente da un solido gameplay. Che, tra le altre cose risulta invecchiato piuttosto bene, come un vino che pur non risultando ruffiano come i suoi fratelli più giovani, nasconde note di storicità profonde che hanno tracciato la strada successiva.
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