Recensione

The Irishman, l’anti cinecomic

The Irishman è senza dubbio tra le pellicole più attese e vociferate del 2019. Il progetto, nel cassetto di Martin Scorsese da diverso tempo, ha infatti fatto fatica a trovare la via della produzione, con il rifiuto in prima battuta di Paramount, spaventata degli esosi costi di post produzione necessari per il ringiovanimento dei protagonisti. Fortunatamente, in aiuto del maestro Scorsese è accorso il colosso americano dello streaming che, dopo Roma di Alfonso Cuaron, può vantare nel suo portfolio produttivo un autore tra i più influenti della storia del cinema.

I heard you paint houses.

La storia che The Irishman porta alla ribalta sul grande schermo (purtroppo con una distribuzione limitatissima temporalmente) e sul piccolo schermo è quella di Frank Joseph Sheeran, detto appunto “l’irlandese”, un camionista dalla morale piuttosto fluida che si troverà ben presto ad essere il filo rosso tra la mafia italiana di Chicago e il mondo politico a stelle e strisce. Sheeran è infatti membro dell’International Brotherhood of Teamsters, sindacato statunitense dei camionisti guidato da Jimmy Hoffa, personaggio altrettanto ambiguo e centrale nella storia degli USA tra gli anni ’50 e ’70. Le circa tre ore e mezza di cui il film si compone raccontano infatti, attraverso la storia dei protagonisti, uno spaccato doloroso e oscuro della storia americana. Ad interpretarli un trio d’eccezione in stato di grazia. Frank Sheeran è interpretato da Robert De Niro, Jimmy Hoffa da Al Pacino mentre Joe Pesci veste i panni del boss Russel Buffalino, “mentore” di Frank nel mondo della malavita.

Il potere logora chi non lo ha.

Ma anche chi lo ha, verrebbe da dire. Questo potrebbe essere, semplificando, l’insegnamento del film. Grandissimo spazio viene dedicato all’approfondimento psicologico dei protagonisti, ben lontani dagli stilemi rappresentativi talvolta caricaturali del genere mafioso. Frank, Russel e Jimmy sono prima di tutto uomini, non certo degli stinchi di santo, ma con una propria scala di valori. Hanno debolezze che cercano di nascondere, tic e desideri anche semplici (la passione per il gelato di Hoffa, ad esempio). Non sono personaggi aprioristicamente negativi, ma inseguono degli obiettivi e la strada per perseguirli a volte è costellata di scelte poco edificanti. Ma il potere è passeggero, è cosa nota, e spentesi le luci dei riflettori a questi uomini non rimane che raccogliere quello che hanno seminato.

La durata straordinaria del film, per ammissione dello stesso Scorsese, serve proprio ad avere il tempo di entrare in empatia con i protagonisti senza alcun artificio. Ogni dialogo aggiunge qualcosa, una sfumatura nuova, una nuova espressione. Dialoghi impreziositi, oltre che dalle performance attoriali cristalline, dal registro linguistico “mafioso” utilizzato, laddove “deve essere fatto” significa che per qualcuno è giunta l’ora e “imbiancare case” è sempre di colore rosso.

Quello di Scorsese è un cinema di un classicismo granitico, rigoroso nella messa in scena e nel montaggio.

La centralità dell’aspetto umano e psicologico dei personaggi mette addirittura in secondo piano il piatto forte di ogni “gangster movie“, quali sparatorie e omicidi. Certo non mancano auto che esplodono, vetrate in frantumi e revolverate in pieno volto, tuttavia questi momenti non vengono mai enfatizzati dalla regia e anzi vengono parzialmente disinnescati. Quasi sempre assistiamo agli omicidi in campo lungo, da lontano, come se fossimo un passante o un vicino al balcone. Persino la musica fa un passo indietro in questi momenti e i colpi di pistola sono quasi timidi, sfiatati. Una scelta indubbiamente molto riuscita, che sottolinea quanto sia in realtà facile porre fine ad una vita con un arma da fuoco: uno sparo soffocato, uno schizzo di sangue sulla parete, un corpo che cade. Fine.

Old but gold.

L’uscita di The Irishman nelle sale si è portato con sé, come ormai noto ai più, tutta una serie di polemiche relative ai poco lusinghieri giudizi che lo stesso Scorsese ha rilasciato, nel corso di un’intervista, sui cinecomic Disney Marvel. Senza voler tornare sull’argomento, è evidente, guardando The Irishman, quanto l’idea di cinema di Scorsese sia lontana dalle produzioni moderne più spiccatamente di intrattenimento. Quello di Scorsese è un cinema di un classicismo granitico, rigoroso nella messa in scena e nel montaggio. Impossibile perdere il filo del racconto, nemmeno per un momento: la struttura narrativa è perfetta e senza sbavature, nonostante la mole di contenuti e di situazioni. Per i cultori del regista italoamericano e di un certo modo di fare cinema la visione di The Irishman è un rassicurante ritorno a casa. Questo non vuol dire che sia un linguaggio “vecchio”, come qualcuno ha avuto l’ardire di affermare, o che manchi di sperimentare. Tutt’altro. Scorsese ha delle intuizioni personali e originali. Usa in maniera estremamente intelligente e creativa l’elemento della voce fuori campo e dirige i suoi attori con una brillantezza non comune.
Vi sono dei passaggi, in The Irishman, che vi lasceranno a bocca aperta per la credibilità e la naturalezza della messa in scena e il ritmo è sempre perfetto.

I dolori del giovane De Niro.

Da un punto di vista tecnico The Irishman è un prodotto francamente inattaccabile. La fotografia di Rodrigo Prieto è vivida e le scenografie, dalla più povera alla più sontuosa, sono estremamente ricercate e caratterizzanti.
L’unico aspetto che convince solo parzialmente è l’opera di ringiovanimento dei protagonisti, in particolare di Robert De Niro, nonostante il budget del film sia salito, dai 100 milioni previsti in origine, a 140 milioni proprio a causa dei costi di post produzione.

L’unico aspetto che convince solo parzialmente è l’opera di ringiovanimento dei protagonisti.

Per l’opera di ringiovanimento non si è optato infatti per un 3D completo, ma si è intervenuto in painting, sostanzialmente “piallando” le rughe del buon De Niro. Il risultato, seppur lontano dall’essere negativo, compromette parzialmente la performance dell’attore stesso laddove, insieme alle rughe dell’età, sono state eliminate quelle di espressione. Niente di particolarmente fastidioso, sia ben chiaro, ma resta la sensazione che si potesse fare meglio.

Il testamento di Scorsese?

Si è parlato di The Irishman come di un film testamentario per il regista italoamericano. Una sorta di punto esclamativo alla fine di tutto (per citare Max Payne). Ebbene, nonostante la veneranda età di 77 anni, mi permetto di dissentire, almeno parzialmente, da questa lettura.
Certo, in The Irishman ritroviamo temi e situazioni tanto cari al cinema di Scorsese (impossibile non pensare a Quei bravi ragazzi o The departed, ad esempio) e uno stile di racconto estremamente classico e lineare, summa del linguaggio del regista. Eppure sarebbe ingrato ridurre tutto ad una riproposizione di modelli e linguaggi già percorsi in passato poiché in più di una circostanza Scorsese dimostra, se ce ne fosse bisogno, sprazzi di lucida inventiva e una capacità di analisi non comune. Insomma la sua verve registica è tutt’altro che stantia o autocelebrativa.
Pertanto ritengo che ogni cinefilo debba augurarsi di poter godere ancora per lungo tempo della straordinaria maestria di “nonno” Martin. Non è ancora tempo di testamenti.

Leonardo Alberto Moschetta

Appassionato di videogiochi dal lontano...ehm..troppo tempo. Amo ogni genere di audiovisivo, in particolare il cinema, al punto da aver trasformato in lavoro questa mia passione. Tra le altre mille passioni: Giappone, Cibo, Vino, Musica, un po'di sport (il fantacalcio conta?), letteratura, fumetti e...

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