Caro The Mandalorian… un tempo c’erano i telefilm, tipo Star Trek o MacGyver. Il format della miniserie autoconclusiva era già stato inventato negli anni ’70 (e importato in Italia con Radici) ma… parliamoci chiaro: l’appuntamento quotidiano che per trent’anni ha tenuto milioni di spettatori attaccati allo schermo era quello del telefilm ovvero stessi personaggi, nessun cambiamento strutturale, eventi casuali, happy ending e l’indomani si ripartiva per una nuova avventura. Poi sono arrivati Steven Spielberg e J.J. Abrams con i loro Band of Brothers e Lost a rivoluzionare il concetto di serie TV a suon di paperdollari e operazioni transmediali.
Se oggi piattaforme come Netflix hanno lo scettro dell’home entertainment e la fanno da padrone, noi abbiamo il dovere di ricordare chi – tra i primi – ha saputo credere in questo format investendo cifre spropositate per prodotti non destinati al cinema. Perché tutta questa lunga premessa, direte voi?
The Mandalorian è solo – e ancora – un telefilm mascherato da miniserie TV
Beh perché The Mandalorian, come tante altre serie prima di lei, è un telefilm mascherato da miniserie TV: ogni episodio è autoconclusivo e piuttosto banale, ma c’è una sottotrama che fa da collante tra le varie puntate e lo spettatore vive nell’illusione di partecipare a qualcosa di più grande. Ci tenevo a puntualizzare questo aspetto nell’introduzione perché, a mio umile avviso, è l’unica chiave interpretativa matura con cui si può esprimere un parere sul lavoro di Favreau e soci. La seconda stagione di The Mandalorian, ancor più della prima, presenta infatti una struttura narrativa analoga a quella di Starsky & Hutch o di un A-Team. Bisogna essere onesti.
Speravo davvero, dato il successo registrato, che gli sceneggiatori optassero per un nuovo canovaccio di più ampio respiro, ma la formula è del tutto analoga a quella dei primi episodi: il protagonista arriva sul pianeta di turno, qualcuno gli chiede aiuto, lui risolve la questione a schiaffi, nessuno si fa male e Boss Hogg giura vendetta (se non sapete chi sia Boss Hogg potete anche smettere di leggere). Disney e Lucasfilm non si sono inventate nulla, voglio ribadirlo, ma il mio feed sui social network sembra non voler accettare i limiti narrativi di The Mandalorian, forse perché inserendosi nell’universo espanso di Star Wars ogni digressione sul confine tra il serio e il kitsch sfuma sempre in un “Oh, ma è un live action di Guerre Stellari e ci sono i personaggi della serie animata The Clone Wars! È fico a prescindere”.
Se della serie pilota se n’è occupato il buon Emanuele Vanossi (qui la sua recensione), tocca quindi a me proporvi una riflessione articolata sulla seconda stagione, trasmessa da ottobre a dicembre 2020 sul servizio on demand Disney+. Ci sarebbero tante cose da dire, per quanto la premessa potrebbe già essere sufficiente, ma ipotizzando che tutti abbiate già visto i primi otto episodi vorrei concentrarmi nel trovare una risposta alle tre domande essenziali che dovreste farvi prima di rinnovare la sottoscrizione a Disney+:
1 – La trama e le storyline secondarie mi emozioneranno?
2 – È ancora ad alto budget o assomiglia al Firefly di Joss Whedon?
3 – È rispettosa del canone? Perché io sono un fan e sai… non vorrei mai che…
Ecco: partirei dalla prima domanda con un grandissimo “nì” come risposta. Se facciamo lo sforzo di scindere il fil rouge della relazione tra Mando e il bambino dalle piccole storie raccontate nei singoli episodi, per lo più legate a personaggi secondari, ci accorgiamo che la trama della seconda stagione di The Mandalorian è talmente diluita che nemmeno il vino rosso del “Ma che ce frega, ma che ce importa, se l’oste ar vino c’ha messo l’acqua. E noi je dimo, e noi je famo: c’hai messo l’acqua e nun te pagamo“.
La seconda stagione di The Mandalorian è un grandissimo fan service
È del tutto irrilevante che possa costituire o meno un tassello importante all’interno dell’universo di Star Wars, giacché Rogue One ha già mostrato la via per condensare contenuti di qualità in appena due ore. Uno potrebbe anche chiudere un occhio se le vicende dei comprimari fossero sostanziose eh, però ci troviamo nuovamente una Cara Dune piuttosto imbolsita fare a cazzotti in location riciclate e un goffo Greef Karga che assalta basi imperiali sull’onda dell’entusiasmo senza alcuna preparazione. A livello narrativo non rimane niente; gli episodi passano e l’unica cosa che regala emozioni è quel continuo rimando a The Clone Wars e ai film della trilogia originale. Senza fare spoiler coraggiosi, ché davvero ormai lo sanno anche i muri, ritroveremo Bo-Katan Kryze e Ahsoka Tano. Ci saranno anche altre sorprese ma il nocciolo della questione rimane quello: vi emozionerete perché la seconda stagione di The Mandalorian è un grandissimo fan service, ma non vi addormenterete mai con la sensazione di aver davvero imparato qualcosa sull’universo di Star Wars.
Visto che ne sto parlando andrei diritto alla terza domanda, ‘sta volta confermando che Dave Filoni ha una carriera tale da essere una garanzia per ogni fan: regista della serie animata Star Wars: The Clone Wars, produttore esecutivo di Star Wars Rebels e di The Mandalorian. Ca va san dire: siamo in pieno canone ed è tutto un florilegio di connessioni e richiami. Ne cito uno per tutti: Bo-Katan Kryze, apparsa nella quarta serie di The Clone Wars, aveva la voce di Katee Sackhoff, qui presente in tutta la sua giunonica fisicità a stringere l’occhio a chi, come me, se l’è sognata per anni – senza vestiti – nel ruolo di Kara Thrace in Battlestar Galactica. Voglio andare snello su questo punto perché si tratta solo di confermare quanto già si era capito nei primi otto episodi: per un fan di Star Wars la seconda stagione di The Mandalorian è imprescindibile. Non voglio dire che senza vederla uno non possa vivere, quanto piuttosto che se avete guardato le serie animate – come ho fatto io – in ordine cronologico, di sicuro troverete pane per i vostri denti.
per un fan di Star Wars la seconda stagione di The Mandalorian è imprescindibile
Vorrei andare veloce anche sulla seconda domanda: a livello tecnico siamo davanti a un lavoro di ricerca e sviluppo davvero magistrale. Dall’evoluzione della tecnologia StageCraft con un motore proprietario della Industrial Light & Magic, qui implementata per la prima volta in maniera così estesa per realizzare il rendering in tempo reale di ambienti e parallasse, passando per l’utilizzo della fotografia virtuale già sperimentato da Favreau – ideatore della serie – durante la realizzazione del film Il Re Leone, in collaborazione con la Moving Picture Company e Unity. La tecnologia utilizzata per The Mandalorian avrà certamente un seguito in altre produzioni e nel mio piccolo, pur non essendo un addetto ai lavori, sono certo che lascerà un’eredità importante nel panorama delle serie TV e dello sci-fi in sala.
Ora, volendo riassumere il tutto in una chiosa che non leggerà nessuno, la seconda stagione di The Mandalorian prosegue la narrazione iniziata nel 2019. Il suo innegabile successo di critica e pubblico è dovuto a due fattori: Mando e Baby Yoda sono carismatici, c’è poco da fare. Tutti si sono affezionati alla loro sorte anche se nessuno sembra accorgersi che di passi in avanti nella trama ne sono stati fatti davvero pochi.
In secondo luogo The Mandalorian è una gioia per gli occhi. Tra asset di cui ci si è innamorati nelle trilogie ufficiali e quella meraviglia della Razor Crest (vi invito a vedere in alta risoluzione il suo atterraggio di fortuna sul pianeta acquatico di Trask e a non spalancare la bocca per la meraviglia), Favreau e Filoni vincono facile. Ai due produttori esecutivi e ideatori della serie va riconosciuto il merito di aver saputo capitalizzare un progetto fumoso – in capo a Lucasfilm sin dal 2009 – e di averlo ripensato forti degli investimenti possibili grazie a mamma Disney. Al netto di tutto questo, resta il fatto che a livello narrativo c’è davvero poco o niente.
siamo davanti a un lavoro di ricerca e sviluppo davvero magistrale
Insomma: se avete apprezzato i primi otto episodi sono abbastanza convinto che siate già arrivati ai titoli di coda del sedicesimo. Al contrario, se al quarto episodio della prima stagione (Il Rifugio) vi siete accorti che quella scazzottata tra Cara Dune e gli imperiali era degna di un film di Bud Spencer e Terence Hills; se avete sgranato gli occhi mettendo in pausa la puntata al grido di “ma cos’è ‘sta roba anni ’70?“; se avete rimpianto il west di Firefly “ché almeno quello non era main stream e gli si poteva perdonare una certa povertà di spessore“, allora… ecco: lasciate perdere.
La recensione della seconda stagione di The Mandalorian contribuisce a sostenere la ricerca scientifica sulla sindrome di Rett. Trovate i dettagli dell’iniziativa a questo link.
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Complimenti per l'articolo. Però mi pongo una domanda: "quale serie TV basata su brand di successo non è fan-service?" Personalmente mi è piaciuta nonostante il ritmo non sia pazzesco ed alcune scene non abbiano mordente.
È una domanda complessa e forse hai ragione tu sul fatto che non si possa fare diversamente se non il fan-service.
Firefly è una spanna sopra, tenendo anche conto del badget e per chi ha trovato sia la serie TV che il film magistrali, raccomando di leggere anche i fumetti che stanno uscendo in questo periodo
I fumetti di Firefly? Non ne sapevo nulla. Guardo e recupero. :)