Hardware

La storia di PSP: quando Sony reinventò il Walkman

Tenere tra le mani PlayStation Portable dà, ancora oggi, la consapevolezza di possedere un oggetto di culto, iconico, immortale, futuristico. Le sue linee elegantissime, arrotondate, sinuose, i tasti principali trasparenti, con i classici simboli dell’immaginario ludo-religioso PlayStation che sembrano conservati al loro intero come sotto formaldeide, eterni e incorruttibili, i dorsali quasi invisibili, all’apparenza delicatissimi, mentre lo sportello posteriore, sempre pronto ad abbracciare un UMD, scopre tutta l’intimità dei suoi perfetti meccanismi. Un oggetto dal design senza tempo, prezioso, bellissimo, che anche da spento sussurrava i motivi del suo cospicuo costo al dettaglio (e produttivo) per chi non poté resistere alle sirene del lancio, 249€, anticipando i tempi, la sete di multimedialità che cominciava ad insinuarsi nel subconscio del consumatore, il concetto di console come servizio al giocatore. Era l’anno 2004, PlayStation 2 cominciava a rendersi conto davvero della sua fibra muscolare e una piccola portatile lanciò il guanto di sfida al monopolio Nintendo, missione contro cui tantissimi hanno sbattuto la faccia e buttato capitali.

“21st century (Schizoid)Walkman”

Nel contesto storico-tecnologico dei primi vagiti del ventunesimo secolo, PSP si poneva come status symbol, oggetto del desiderio che ammiccava, sensuale, a chiunque, non solo al videogiocatore o all’appassionato di tecnologia hardcore. Un progetto che puntava sul fascino di un futuro a portata di mano, sulla realizzazione di un’idea che era ancora sogno, su una multimedialità avvolgente e totale, che prometteva di mettere nel palmo di una mano la possibilità di avere musica, film, videogiochi e accesso a internet (previa connessione a una rete wifi). Guardiamo un attimo indietro al nostro stile di vita, 14 anni fa, tecnologicamente un’era geologica. Un lettore mp3 sempre in tasca, un buon lettore DVD a casa, una PlayStation 2, un Gamecube o un Xbox per giocare sul nostro plasma nuovo di zecca per sfruttare un cavo component, se andava bene, oppure ancora visivamente legati all’estetica rotonda e un po’ sporca dello standard a tubo catodico e presa SCART. Magari un portatile, vero centro multimediale in movimento, al netto di batterie che duravano come la vita di un moscerino. Certo, c’erano anche i palmari, appannaggio degli yuppie in giacca e cravatta, mentre la telefonia mobile stava iniziando a maturare e mutare, quando ancora ogni casa produttrice aveva un design ben riconoscibile e la 3 stava intasando l’etere di pubblicità sulle videochiamate. E se iPhone, con la conseguente rivoluzione smart, sarebbe sceso sulla terra come nuovo Messia di silicio, acciaio e vetro solo tre anni più tardi, ecco che Sony riuscì a sconvolgere il mercato tecnologico dell’epoca con l’ennesima rivoluzione elettronica della sua storia, proponendo un’oggetto di rara bellezza, che emanava tecnologia da ogni centimetro, con cui godersi gran parte dell’intrattenimento che il mondo aveva da offrire.

Di icona in icona, attraverso il culto del design.

Un minuscolo media center che riproponeva l’iconicità del Walkman, la sua estrema fruibilità e immediatezza, cui interfacciarsi attraverso un display meraviglioso, brillante, panoramico, un 4,3” che invecchiava tutto ciò che gli girava intorno, assorbendo energia dal mondo circostante per dare vita alla sua anima ludica. Perché quello che più stuzzicava le fantasie degli appassionati era avere tutta la filosofia PlayStation in una console portatile, generando un duello di mercato con Nintendo che portò ad una guerra di qualità irripetibile con DS e la sua “Touch Generation”, altro pioniere del mercato, altro assaggio del futuro. Uno scontro di ideologie pre-smartphone e mobile gaming che portò nelle mani dei giocatori circa 230 milioni di console, diviso in 150 milioni di DS e 80 milioni di PSP. Furono probabilmente loro i grimaldelli per scardinare la serratura mentale di chi i videogiochi li trattava con ancora con sufficienza, ignoranza e timore, facendo in parte strada all’ascesa pop che il media sta vivendo negli ultimi dieci anni, proponendo un modo diverso di fruire il virtuale, cucito addosso allo stile di vita dei consumatori, chi con la multimedialità, chi con l’innovazione. Senza uscire dal contesto, PSP rappresentò per Sony anche uno standard a livello di sistema operativo, base estetica e pratica della futura PlayStation 3, con la funzionale e intuitiva Cross Media Bar, bussola fondamentale per navigare attraverso il mare del divertimento archiviato nella folle Memory Stick Pro Duo. Folle perché la console era talmente avanti che i supporti di memoria costavano ancora quanto una cartella esattoriale impazzita.

PSP fu dal 2004 il nuovo status symbol del pubblico PlayStation, quello assetato di tecnologia e futuro, che udiva nella filosofia Nintendo gli echi di un’infanzia che non gli apparteneva più.

Al lancio negli Stati Uniti, per farvi un esempio, la console veniva venduta a 299$, e al contempo il taglio da 512MB delle Memory Stick Pro Duo viaggiava sui 250$ (addirittura tagliato rispetto agli originari 300$). Se in linea teorica la portatile era, come detto, un perfetto centro multimediale, è anche vero che lo diventò nel corso degli anni e mai completamente, con il progressivo deprezzamento dei supporti di memoria e affidandosi soprattutto a schede di terze parti con relativi adattatori (al momento la mia personale PSP monta una Micro SD da 32GB inserita in un adattatore). La sensazione, nei suoi primi anni di vita, è sempre stata quella di vivere in un monolocale con quattro coinquilini, stretti, in preda ad attacchi claustrofobici mentre si sceglievano le (poche) canzoni da inserire in memoria. Limiti ancora più evidenti quando nel 2008 comparve nel menù a croce l’icona del neonato PlayStation Store e tutto il digital delivery che portava in dote. Anche il supporto ottico proprietario, il famigerato Universal Media Disc (UMD), tanto obbligato dall’ingegneria che sosteneva la macchina, tanto costoso da portare alcune case di produzione hollywoodiane a boicottarlo dopo poco tempo, soprattutto a seguito degli scarsi risultati di vendite della sezione film sulla console, ci mise del suo nell’azzoppare il progetto a tuttotondo di Sony, trovandosi, alla fine, ad apprezzare PSP principalmente come strumento di piacere ludico, melassa virtuale con cui cospargere le proprie pause dal caos quotidiano post-studio, post-lavoro, post-realtà.

Non solo motori grafici 3D da capogiro per una portatile, ma anche idee uniche, geniali.

La sensazione più seducente che la console restituiva era quella di avere tutte le potenzialità di una console fissa miniaturizzate in un feticcio nerd. È qui che tutti i peccati che si commettono in nome dell’anticipo sui tempi, dell’ambizione, vengono mondati e assolti dai giocatori, vicari del dio videoludico. Perché quando hai i migliori episodi di Ridge Racer e di Everybody’s Golf, quando uno come Tetsuya Mizuguchi rimane ammaliato dalla macchina tanto da regalarle un lisergico Lumines, quando perfino Hideo Kojima la usò come laboratorio per sperimentare nuovi approcci al gameplay del suo Metal Gear (dopo gli squinternati e splendidi Ac!d), ponendo nel 2006 e nel 2010 le basi per il suo quinto capitolo numerato nonché requiem dalla vita terrena di Konami, ci si rende conto della bontà del suo hardware e di quale fosse la portata principale del suo pantagruelico menù da consumare anche online, al netto di un analogico messo li per essere un gioiello da sfoggiare, più che un fondamento di gameplay. Una ludoteca memorabile, non solo colma di brand già noti e presenti con episodi nuovi, scintillanti e perfettamente declinati alle caratteristiche della macchina, dai sopra citati fino a God of War, Gran Turismo, Wipeout, OutRun, Jak & Daxter (meglio senza Jak), e tantissimi porting di terze parti, ma vera fucina di clamorose follie di gameplay. Vengono in mente One Minute Hero, Every Extend Extra (anche qui con lo zampiono di Mizuguchi), LocoRoco e Patapon, signori. Ogni genere era rappresentato, come un’arca di noè in pixel e idee, una collezione incredibilmente attuale, culturalmente validissima, speciale, cui attingere spesso e volentieri ancora oggi.

Retroresurrezione

Nel 2011 si chiude un cerchio, una storia, un paradosso che ha visto per la prima volta Nintendo minacciata sul suo stesso terreno di conquista. Se PSP era in anticipo, Vita arriva tardi, fuori tempo massimo, condannata dal mercato e ripudiata da Sony stessa, quando nel giro di pochi anni chiuse i rubinetti dello sviluppo first party per poi rimasterizzare le poche, preziosissime perle del suo collier su PlayStation 4, rinforzando la sua egemonia casalinga e perdendo la guerra della portabilità, prima contro 3DS e poi lasciando campo libero a Switch. Troppe due portatili in un panorama cannibalizzato dagli smartphone e dal gioco “snack”, universalmente accettato, più che andare in giro con una macchina creata appositamente. E proprio dalle ombre di questo fallimento PSP esce ancora più brillante, esercitando un appeal fortissimo sugli appassionati, con un post mortem (industriale) che l’ha vista imporsi come perfetta console da emulazione, risorgendo a nuova, enciclopedica vita. Vuoi perché il suo sistema operativo era evidentemente scassinabile da chi sapeva come metterci le mani, grazie all’attività della community continua a vivere una seconda vita nel limbo che divide pirateria da emulazione, soprattutto dopo che Sony issò tacitamente bandiera bianca con l’ultimo ed economico modello hardware, Street, togliendo il chip wireless e quindi la possibilità di aggiornare il firmware, compiendo un’inversione a “U” rispetto alla filosofia che accompagnò il lancio di PSP Go, lasciando alla scena homebrew la possibilità di proliferare, sperimentare e creare. Già spettacolare e ufficiale emulatore PS One, con la possibilità di regolare la dimensione dell’immagine per adattarla ai 16:9 della portatile, rendendo giustizia estetica a titoli ormai fuori luogo se spalmati sui monitor moderni, sviluppatori e amatori sono riusciti nel tempo a rendere PSP la macchina dei sogni del retrogaming. Non solo perché l’emulazione funziona da dio e il suo display riesce a diventare habitat naturale delle più gloriose opere in pixel art, ma anche a livello di controlli, ergonomia, facilità di fruizione. Dal Commodore 64 al Game Boy Advance, quasi tutto pare poter girare su PSP, in quella biblioteca virtuale in scala di grigio che è il mondo dell’emulazione, sempre in bilico tra leggi sul copyright e sete di conoscenza, di gameplay.

Stefano Calzati

Petrolhead di The Games Machine, cummenda di Gameromancer e tuttofare per il Tanzen. Scrivere di videogiochi per me è un atto d'amore dove il fattore emotivo batte quello tecnico.

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