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ArtCafé: l’animazione nei videogiochi

Nella rubrica ArtCafé finora ci siamo sempre concentrati sulla caratterizzazione di elementi statici (qui potete recuperare le scorse puntate). Ma cosa sarebbero i videogiochi se non fossero animati? Dall’era del Game & Watch all’odierno motion capture sono passati molti anni, eppure la maggior parte dei principi non sono variati.

 

Cosa significa animare?

Animare, come dice la parola, significa prima di tutta donare anima, emozione, espressione o azione. Ciò si traduce tipicamente nel disegnare animazioni per personaggi, effetti o ambientazioni per dare un feedback immediato agli input del giocatore, visualizzando allo stesso tempo movimenti e fisica ben contestualizzati nello stile artistico del titolo e nel carattere dei personaggi. Il lavoro dell’animatore è però immerso in un terreno scomodo: se da un lato il suo scopo sarebbe quello di creare movimenti dettagliati e ricchi di anima, dall’altro queste creazioni devono adattarsi alla necessità di gameplay basate su risposte veloci alle pressioni dei tasti di un joystick. Se animare significa dare un feedback, è chiaro che qui nasce un problema: meglio avere animazioni spasmodicamente dettagliate alla Red Dead Redemption 2, che però generano un consistente ritardo nello svolgere dell’azione, o animazioni brevissime, poco dettagliate ma immediatamente responsive come il basico salto di Mario in Super Mario Odyssey? Tutto ovviamente dipende dalla direzione artistica che il team di sviluppo vuole intraprendere, una scelta che impatta direttamente sull’aspetto che avranno le animazioni. Forse ancora di più che in altri campi della direzione artistica, l’animazione risente pesantemente del budget del progetto: motion capture e altre tecniche di scansione sono mezzi costosi per ottenere grandi risultati, spesso realizzati in outsourcing, che talvolta anche team di medio calibro non possono permettersi.

 

Tra Keyframe e Rig

Le tipologie di animazioni esistenti si legano direttamente allo stile artistico del gioco, ed in generale ne possiamo quindi distinguere tre: animazione 3D, animazione 2D e animazione Pixel Art (in realtà dalle metodologie affini a quella 2D). Attenzione ad un dettaglio: per animazione 2D viene intesa quella che utilizza disegni animati, quindi da questa sono esclusi tutti i titoli con visuale 2D ma con costruzione dei modelli poligonali come ad esempio Donkey Kong Country Returns. Il concetto più basico per comprendere la costruzione di un’animazione è quello dei keyframe: ogni movimento è visualizzato a schermo grazie ad una sequenza di immagini ed i keyframe sono, tra queste immagini, le più importanti nella definizione dell’intero movimento. Se quindi in un gioco effettivamente bidimensionale come Cuphead ogni keyframe è un disegno differente, in un titolo tridimensionale questi saranno definiti da una differente posa di un modello poligonale posizionata tramite l’utilizzo dei cosiddetti Rig. Questi sono essenzialmente degli scheletri digitali creati da specifici artisti, chiamati technical artist, e vengono applicati ai modelli permettendo agli animatori di poter muovere i personaggi tridimensionali in maniera anatomicamente corretta.

 

La serie Super Smash Bros., dallo stile tridimensionale ma con vista laterale, è storicamente stata estremamente efficace nel coniugare svariate tipologie di character design e animazioni di diverso stile in un insieme coerente.

 

I dodici principi dell’animazione

Redatti negli anni ’80 nel libro “The Illusion of Life” di Ollie Johnston e Frank Thomas, due animatori Disney, sono da allora considerati lo standard per l’apprendimento dell’arte dell’animazione, al tempo solamente concepita nella sua accezione bidimensionale. Non è necessario elencarli qui tutti, basti sapere che alcuni di essi giocano un ruolo particolarmente chiave nell’ambito dei videogiochi. Primo tra tutti, il concetto di “staging” assume grande importanza: un’animazione efficace deve anche essere ben posizionata e facile da osservare, il che non è banale in un videogioco con visuale libera non prevedibile dagli sviluppatori. Altri di questi principi sono invece relativi all’enfatizzazione dei movimenti stessi: dallo “squash and strech” cioè la dilatazione del corpo dei personaggi, all’“anticipation” ovvero la creazione di uno stato di pre-movimento che dona forza e consistenza all’azione. Quest’ultimo principio ha anche il suo contrario, detto “follow through” cioè una fase di post-animazione che sottolinea il rilascio e dispersione della forza del movimento. Tutti questi principi sono facilmente osservabili nei picchiaduro bidimensionali classici come Street Fighter 2, ma anche in quelli moderni come Dragon Ball FighterZ. Seguire o meno la totalità, o anche solo una parte, di questi principi è ancora una decisione relativa allo stile artistico: il meravigliosamente animato Cuphead non utilizza il principio dell’ “easing”, cioè la variazione spaziale della velocità dell’animazione durante la sua durata, data l’illusione di realismo che questa va a creare, un effetto che il titolo di Studio MDHR certamente non ricerca. In altri contesti, perfino l’assenza di animazioni può essere una tecnica valida per la comunicazione di scelte artistiche o di gameplay: pensiamo alla staticità dell’isola di The Witness, praticamente congelata nel tempo, o ai laboratori di Aperture Science di Portal, i cui soli elementi animati sono quelli relativi alla risoluzione di un puzzle.

 

I dodici principi dell’animazione illustrati dall’animatore Cento Lodigiani.

La lentezza, pesantezza ed epicità dei colossi di Shadow of the Colossus è resa alla perfezione dalle animazioni ricche di anticipazione e rilascio dei colpi.

 

Animare personaggi: posa, movimento ed espressione

Buona parte del lavoro di un animatore è dedicato ai personaggi, che per quanto possano essere modellati in maniera dettagliata, risulteranno completamente privi di vita se non animati correttamente. Il punto di partenza nel processo creativo è sempre la posa basica: come sta ferma in piedi Bayonetta? E come passa da questa posizione a quella della corsa? Ogni singola animazione deve essere determinante nel donare una personalità. Prendiamo come esempio il gruppo di personaggi di Overwatch: ognuno di essi ha una sua corsa, posa e perfino respiro differenti, senza tener conto delle animazioni di ricarica delle armi. Dal veloce e preciso cambio di munizioni di Pharah al nervoso e squilibrato maltrattamento dell’arma di Junkrat. Ogni dettaglio comunica un’emozione o uno stato, come nello splendido lavoro di animazione del mai troppo apprezzato Luigi’s Mansion, la cui tematica horror in salsa Nintendo è perfettamente convogliata dalla tremarella e dai passi impaccianti e spaventati del buffo protagonista. In aggiunta alle tecniche di movimento dei corpi, nelle ultime due generazioni di console l’avanzamento tecnologico ha permesso anche la creazione di animazioni facciali sempre più credibili. Nel 2002 The Legend of Zelda: The Wind Waker dimostrò come potesse essere possibile, anche solamente con texture facciali animate, infondere emozioni e personalità in un protagonista. Nel 2011 L.A. Noire mise in campo delle tecniche di scansione facciale da attori reali rivoluzionare per l’epoca, ed oggi titoli come Detroit: Become Human o Death Stranding stanno proseguendo la strada del progresso nel livello di fedeltà agli attori originali. Non bisogna però mai dimenticare un dettaglio rilevante: nessuna animazione punta al fotorealismo. Ogni movimento, per poter essere facilmente letto e compreso nelle sue intenzioni comunicative, necessita di una certa dose di esagerazione rispetto al reale. Per questo non ci stupiamo particolarmente degli spropositati salti di Nathan Drake o Lara Croft: i loro movimenti vogliono comunicarci la loro natura di eroici ed atletici avventurieri, e noi ne siamo consapevolmente illusi.

 

Il motion capture dona naturalezza alle espressioni facciali, che necessitano comunque lunghe fasi di ritocco.

 

Con l’aumento dei budget per i videogiochi AAA, ogni team ben finanziato può creare animazioni custom per ogni personaggio del gioco, specialmente se questo prevede una progressione lineare. Tuttavia, i videogiochi spesso richiedono la creazione di animazioni non specifiche per un singolo personaggio, come nel caso degli RPG con montagne di linee di dialogo in cutscene animate: in questi casi vengono creati sistemi di animazioni, cioè micro-movimenti non specifici che vanno a sommarsi tra loro a seconda delle esigenze. Sebbene questo processo salvi tante risorse al team di sviluppo, è spesso purtroppo colpevole di animazioni spersonalizzate e mal implementate, come nel famoso caso di Mass Effect: Andromeda.

Quell’espressione da Mass Effect Andromeda sembra si ridicola, ma nasce dalla necessità di creare milioni di combinazioni di animazioni invece che singoli casi personalizzati.

 

E se vedo solo due mani ed un’arma?

C’è un particolare tipo di animazione di personaggi che crea non pochi grattacapi agli artisti: quella in prima persona. Come fare a convogliare emozioni, forza, movimento e dettagli se l’unica cosa che il giocatore vede sono della braccia ed un’arma? Il già nominato Overwatch è un campione in questo campo, ma non è il solo. Anche Mirror’s Edge Catalyst riesce, grazie anche all’ausilio di effetti come il motion-blur, a convogliare un grande senso di velocità, spinta ed inerzia tramite il movimento non solo del modello di Faith, ma anche della camera che la accompagna. Osservandola con attenzione si può notare come essa segua il movimento primario della protagonista con una sua propria inerzia, aumentando la sensazione di coinvolgimento per il giocatore. Un altro grande esempio è dato da Dishonored 2 o dalla serie Bioshock nei quali i peculiari poteri magici sono rappresentati con intricati gesti della mani ed effetti che ne fuoriescono. Anche nel mondo dei cosiddetti walking simulator, spesso in prima persona, si possono osservare ottime animazioni, come in Firewatch e il costante gesticolare e interagire manualmente con l’ambiente del protagonista. Nell’ambito degli FPS si possono poi ritrovare esempi di alternanza tra prima e terza persona: in Destiny alcune special spostano la camera sull’intero personaggio per enfatizzare l’effettistica e facilitare il gameplay. In aggiunta a queste trovate efficaci, anche quando il gioco rimane in prima persona il lavoro di animazione è esemplare: nessuna ricarica delle armi va a coprire la visuale del giocatore, i salti convogliano il giusto senso di gravità ed il feeling delle armi è la giusta combinazione tra forza e perfetto controllo. Queste sensazioni donate da Destiny, possono essere facilmente comparato a quelle di altri shooter come ad esempio Killzone 2 le cui lente e e dettagliate animazioni di ricarica o rinculo rendendo il gioco pesante e macchinoso, in contrasto con la pulizia e la velocità dei titoli Bungie. Attenzione: questo non è un giudizio di merito, ma una semplice constatazione di come le animazioni vadano ad incidere perfino sulle sensazioni donate dal gameplay. I principi dell’animazione in prima persona sono gli stessi di tutte le altre, tuttavia queste devono sottostare all’ulteriore difficoltà del dover lavorare con molti meno elementi capaci di comunicare personalità, forza e movimento.

 

Sia Firewatch che Dishonored 2 sanno fare delle animazioni in prima persona dei protagonisti un elemento narrativo estremamente rilevante.

 

Ambientazioni ricche di vita

Oltre ai personaggi, anche le ambientazioni di gioco necessitano cura per le animazioni. Sono ormai passati i primi anni del rendering tridimensionale e la staticità dei suoi sfondi: anche quando ben realizzati, come nell’originale Resident Evil su PlayStation con fondali pre-renderizzati, questi erano spesso inanimati e quindi freddi e privi di vita. Di tutt’altra caratura erano invece le ambientazioni dei titoli dell’era 16-bit: dai fondali ricchi di dettagli animati di Yoshi’s Island su Super Nintendo fino agli effetti di parallasse che fanno da sfondo ai livelli di Sonic su Megadrive, la pixel art si è spesso dimostrata capace di sopperire ai limiti tecnici. Oggi, all’alba di un’era tecnologica più legata alle tecnologie cloud, l’animazione ambientale ha fatto passi da gigante. Effetti particellari dinamici, fogliame in movimento e distruzione ambientale sono sempre più presenti nei videogiochi. Pensiamo ad esempio alla ricchezza di animazioni dell’open-world di The Witcher 3: Wild Hunt o all’incredibile vita della mappa di Sapienza in Hitman (2016). Alcune tecniche dell’era 16-bit sono ancora oggi riproposte con tecnologie moderne, come in Ori and the Blind Forest ed il suo uso di sfondi con parallasse per creare ambientazioni profonde e ricche di contrasto. L’utilizzo dell’animazione nell’ambientazione ha quindi uno scopo simile a quello per i personaggi: infondere vita, creando feedback ed emozione per il giocatore. Questo feedback può essere anche totalmente irrealistico, perché anche l’animazione può essere stilizzata: pensate a quando in Fortnite martellate un muro di una casa e lo vedete rimbalzare come fosse gelatina. Alle volte invece, la cura dei dettagli raggiunge dei livelli che trascendono i discorsi legati al feedback per giungere in un territorio di quasi verosimile realtà: provate a sedervi su una panchina nella città di Saint Denis in Red Dead Redempion 2 e guardatevi intorno senza fare nulla: l’animazione racconta il luogo, le sue storie ed i suoi personaggi con dei dettagli tali da creare delle vere e proprie scene dinamiche da osservare per minuti.

Le Isole Skellige di The Witcher 3: Wild Hunt, così come le altre ambientazioni del gioco, sono così memorabili perché permeate di forte caratterizzazione anche grazie alle loro animazioni. 

 

Si conclude qui il quinto capitolo di ArtCafé. Nel prossimo episodio parleremo di una caratteristica direttamente legata alle animazioni: il punto di vista e la camera.

Emanuele Vanossi

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  • Ciao, bellissimo articolo! Vorrei inserirlo nella mia tesi di laurea ma non trovo la data relativa alla pubblicazione. Qualcuno potrebbe aiutarmi? :)

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