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L’arte di The Legend of Zelda: una storia di creatività – Parte I

C’è un motivo dietro al clamore che accompagna ogni uscita di un gioco della serie The Legend of Zelda: c’è sempre qualche sorpresa nascosta, un elemento differenziante o un asso nella manica pronto ad essere giocato dalle sapienti mani di Nintendo. In una serie che ha fatto della qualità costante del suo gameplay un punto cardine, l’impronta artistica e grafica è stata la caratteristica meno costante fra tutte. Capace di variare dalla pixel art al realistico, spaziando tra cartoon e super-deformed, la serie The Legend of Zelda è indubbiamente quella più esteticamente varia che si possa ammirare nell’intero panorama videoludico. La perenne capacità di osare dei suoi sviluppatori ed artisti ci ha da poco consegnato l’ennesima perla, Link’s Awakening, da cui prendiamo spunto per ripercorrere l’intera storia artistica dell’amato franchise. Oltre a guardare ai singoli titoli, osserveremo insieme anche le key-art che hanno negli anni rappresentato il protagonista Link: queste costituiscono un importante punto di comprensione ed analisi per l’intero impianto artistico di ogni episodio. Questo è il primo di due episodi speciali di ArtCafé, continua a seguire Gameplay Café per il secondo che arriverà tra due settimane.

 

The Legend of Zelda (1986)

Sono passati più di trent’anni dall’uscita del capostipite della serie: un capolavoro capace di scuotere le fondamenta del genere Adventure postulando la possibilità dell’esistenza di open-world liberamente esplorabili. Tuttavia, almeno fino all’era Gamecube, la maggior parte dei giochi della saga hanno dovuto sottostare agli imperanti limiti tecnologici delle console. The Legend of Zelda ha una palette colori semplice ed una pixel art primitiva che nel tempo sono comunque riuscite a diventare iconiche. I forti contrasti cromatici e gli sprite ben calibrati compongono dei micro-diorami che, con un pizzico di immaginazione, catapultano il giocatore nella prima versione di Hyrule. La vera magia è però nella scelta della prospettiva: top-down ma leggermente spostata verso i tre quarti, ovviamente senza l’utilizzo di camere virtuali (tecnologia inesistente al tempo, ndr) ma con dei furbi trucchetti di design. Questa perfetta visuale sarà il punto di partenza di tutti i The Legend of Zelda bidimensionali, a testimoniare il talento di Nintendo nell’indovinare quasi sempre al primo colpo. Questo può anche essere facilmente verificato grazie ad una tech demo realizzata nella fase di sviluppo di Breath of the Wild: le meccaniche alla base del gameplay del mastodontico titolo del 2017 sono ricreate con l’impianto di gioco del primo The Legend of Zelda il cui stile grafico, con qualche piccolo aggiustamento, non sfigura neanche nel panorama attuale.

Link si presenta per la prima volta come una specie di giovane Robin Hood dallo scudo crociato. Il gigantesco ciuffo sostiene il lungo ed iconico cappello che lo accompagnerà per tutta la sua carriera (o quasi). Lo stile di disegno è semplice e piuttosto stilizzato, le proporzioni sono nettamente alterate facendo sembrare il protagonista un elfo. L’importante linea di contorno nera sottolinea la natura fumettistica di questo primo stile di rappresentazione.

 

Zelda II: The Adventure of Link (1987)

Smentiamo subito l’ultima frase del paragrafo precedente: Zelda II: The Adventure of Link non ha la stessa prospettiva dell’originale. Nintendo in questo caso ha optato per un misto di visuale laterale e top-down che non ha aiutato la cosmesi del gioco. Link ha di fatto due diversi sprite per le differenti visuali rendendo scostante il suo disegno. Sebbene la parte di overworld del gioco richiami visivamente lo Zelda originale, le sezioni in 2D prendono invece spunto da altri titoli usciti successivamente (come ad esempio Kid Icarus), risultando in una palette colori meno vivace ed efficace a causa dei contrasti meno pronunciati. Gli stessi artwork del gioco sacrificano un po’ della personalità dell’originale in favore della ricerca di uno stile più serioso e sfortunatamente meno ispirato. Insomma, la serie The Legend of Zelda si è permessa all’inizio un mezzo passo falso che fortunatamente non precluse un cammino futuro fatto di grandi successi.

Le proporzioni si fanno più realistiche e l’espressione più matura ed adulta, seguendo il generale cambio di stile dell’intero titolo. Lo stampo è ancora chiaramente fumettistico, ma si può notare una certa perdita di forza nel disegno unita ad una palette interamente giallastra e poco contrastata.

 

A Link to the Past (1991) e Four Swords (2004)

Considerato da molti fan il miglior Zelda mai creato, A Link to the Past ha anche il pregio di aver incominciato un processo di definizione di uno dei canoni estetici della serie: quello della pixel art. La maggiore capacità di calcolo di Super Nintendo ha dato la possibilità agli artisti di Nintendo di incominciare a donare sempre più personalità ai personaggi ed alla scena. La palette colori si arricchisce, la maggior parte degli elementi degli scenari e dei personaggi sono contornati da sottili linee di pixel neri che donano un effetto fumettistico al gioco. Le ambientazioni sono finalmente più ricche ed il contrasto tra i vari ecosistemi è reso più chiaro. Dimenticati gli inspiegabili capelli rosa di Link, possiamo tranquillamente affermare che A Link to the Past è riuscito nell’obiettivo di diventare il solido punto di partenza di tutte le produzioni a venire introducendo una lunga serie di archetipi visivi per la serie. Nel 2004 Nintendo ha poi recuperato lo stile di A Link to the Past nel particolare esperimento The Legend of Zelda: Four Swords per Gamecube. Sebbene questo sia una totale riproposizione degli asset grafici del titolo SNES, è interessante osservare gli artwork del gioco: delle versioni aggiornate degli originali con proporzioni leggermente più realistiche e dettagli meglio curati.

Il nostro protagonista perde qualche anno d’età e presenta un ciuffo ancora più indomabile oltre ad uno scudo finalmente più personale e dettagliato. Lo stile di disegno rimane inalterato rispetto ai predecessori ma si nota la ricerca di una maggiore personalità, sicuramente collegabile alle superiori capacità tecniche di Super Nintendo.

In Four Sword del 2004 lo stesso Link di A Link to the Past viene riproposto con una decisa svecchiata che lima qualche dettaglio e aggiunge ombreggiatura, migliorando colori e contrasti. È rilevante notare invece la maggior stilizzazione dell’espressione facciale, sicuramente figlia del lavoro fatto sull’espressività di Link dopo the Wind Waker nel 2002.

 

Link’s Awakening (1993), Link’s Awakening DX (1998) e Oracle of Seasons/Ages (2001)

Recentemente interessato dal remake su Switch, l’originale Link’s Awakening su Game Boy è un titolo ad oggi difficile da digerire. Vuoi per la palette totalmente bianca e nera (o meglio, verde); vuoi per la estrema ristrettezza dei quadranti dell’ambientazione, lo stile artistico del titolo appare come una pesante riduzione di quello di A Link to the Past. La più grande mancanza è forse una delle cose meno evidenti: A Link to the Past presenta un mondo fortemente delineato da ombreggiature disegnate sui pixel di quasi tutte le ambientazioni. Una soluzione certamente simulata ma comunque di grande impatto, che non ha però trovato posto in Link’s Awakening. Una volta trasportato su Game Boy Color, con la versione DX, la situazione cambia radicalmente: l’aggiunta dei colori ringiovanisce completamente l’intero apparato estetico rendendolo molto più appetibile. Tutti i compromessi della portabilità sono ancora evidenti, ma è chiaro come Nintendo sia riuscita a tirare fuori il meglio che poteva dalla sua prima piattaforma portatile. Oracle of Seasons e Oracle of Ages ripercorrono in maniera pedissequa la strada tracciata da Link’s Awakening con una minima variazione verso una palette colori più satura in alcune circostanze.

Un ciuffo costantemente in espansione e delle proporzioni più infantili caratterizzano il Link di Link’s Awakening, a testimonianza del target più giovanile del titolo per Game Boy.

Di tutt’altra pasta sono gli artwork dei Link di Oracle of Seasons e Ages. A questo punto della storia (siamo nel 2001), Ocarina of Time e Majora’s Mask hanno già imposto le loro visioni di un Link ben più caratterizzato e l’eroe di Hyrule presenta ora la classica calzamaglia bianca. Oltre a questo, incomincia ad essere dotato degli strumenti rappresentanti le meccaniche di gameplay dei titoli. Lo stile è ancora una volta fumettistico ma la quantità di dettagli e di ombreggiature è notevolmente superiore al passato.

 

Ocarina of Time (1998) e Majora’s Mask (2001)

Siamo arrivati ai pesi massimi della serie: Ocarina of Time è ad oggi considerato uno dei migliori giochi mai creati ed i fan della serie sono sempre pronti a citare Majora’s Mask come l’episodio più dark, strano e ormai di culto. Lo stile artistico della serie compie la grande rivoluzione: è il passaggio al 3D con la modellazione poligonale, le camere virtuali e la gestione, seppur primitiva, delle luci. Entrambi i titoli sono anche in questo caso vittima dei limiti tecnologici, e nonostante la meraviglia che suscitavano all’epoca, i 20 frame al secondo sono un macigno sulle spalle di coloro li vogliano rigiocare oggi. Lo stile artistico del titolo non si discosta troppo da quello della maggior parte della prima era poligonale e i due giochi soffrono degli storici difetti del Nintendo 64 ossia texture scarse e colori spesso slavati. Nonostante i problemi, Ocarina of Time e Majora’s Mask hanno perfettamente dimostrato cosa potesse essere uno Zelda in 3D: un gioco dall’ampio respiro in cui le ambientazioni sono protagoniste e caratterizzate tanto bene quanto lo sono personaggi principali e comprimari.

L’era dei poligoni è finalmente giunta e con essa Link guadagna uno stile tutto nuovo. La prima cosa da notare è l’ombreggiatura delle tinte: non più netta e fumettistica come prima ma bensì sfumata con dei gradienti volti a mimare quelli del modello di gioco vero e proprio. Il livello di dettaglio continua ad alzarsi e Link assume dei connotati più spigolosi e netti, forse anche questi dettati dalla volontà di farlo somigliare il più possibile alla resa in gioco che per necessità tecnologiche, risulta piuttosto primitiva ed aguzza. Per la prima volta compare inoltre l’iconica Master Sword.

Il Link sempre bambino di Majora’s Mask si presenta nel suo artwork in maniera notevolmente diversa da quello di Ocarina of Time: le ombre sono nette e nere, a sottolineare la natura tetra e distorta del titolo.

 

Ocarina of Time 3D (2011) e Majora’s Mask 3D (2015)

Nel 2011 con Ocarina of Time e nel 2015 con Majora’s Mask, Nintendo si è occupata di un importante progetto di riproposizione dei due titoli affidandoli alle mani di Grezzo (autore poi del recente remake di Link’s Awakening su Switch) e rilasciandoli su Nintendo 3DS. Il processo di remake è intervenuto fortemente sull’impianto originale: ogni asset, dai personaggi alle ambientazioni, è stato completamente ridisegnato riuscendo in un eccezionale lavoro di cattura dello spirito originale dei giochi. Il più grande salto in avanti può essere osservato nel modello di Link: molto più dettagliato, ricco di ottime animazioni ed espressività facciale, l’eroe di Hyrule su 3DS è stato oggetto di un vero e proprio lifting. Se Ocarina of Time 3D si può certificare come un certosino lavoro di rifacimento, lo stesso non può essere detto per Majora’s Mask: come notato al tempo da tanti fan, nel remake su 3DS gli artisti Grezzo hanno optato per un arricchimento eccessivo della palette colori del titolo ottenendo un risultato non sempre fedelissimo al look tetro dell’originale. 

Nel remake su 3DS lo stile degli artwork è rimasto piuttosto simile all’originale, ma i contrasti cromatici eccessivi sono stati mitigati in favore di una palette leggermente più brillante. Un dettaglio importante: spariscono i contorni neri dell’illustrazione a dimostrare come il Link del 2011 ha da tempo superato le sue radici fumettistiche.

 

The Wind Waker (2002) e The Wind Waker HD (2013)

The Legend of Zelda: The Wind Waker rappresenta il punto di svolta per Nintendo. Finalmente libera da vincoli tecnologici, la serie ha saputo spiccare il volo nonostante, come ben noto, questo non si sia tradotto in un immediato apprezzamento da parte del pubblico. The Wind Waker è però una rivoluzione, un titolo che ha saputo scegliere uno stile artistico in linea con le sue idee di gameplay ed è per questo riuscito nel suo intento. Lo stile artistico, ora fortemente stilizzato e portato in vita grazie al cel-shading, ben si addice ad un’avventura scanzonata nell’oceano delle sorprese che Nintendo ha saputo regalare. La palette colori esplode di ricchezza e saturazione; i modelli poligonali, pur nella loro semplicità, prendono vita con una qualità di animazioni al tempo inesplorata; le ambientazioni lasciano sapientemente perdere il cel shading in favore di un rendering più naturale ricoperto da eccezionali texture in stile cartoon; l’effettistica è un tripudio di animazioni ispirate all’iconografia classica orientale. Insomma, The Wind Waker meriterebbe senza dubbi di essere inserito nella top ten dei giochi artisticamente meglio riusciti di sempre. Peccato per un remake HD del 2013 che non ha saputo cogliere in pieno l’eccellenza dell’originale, snaturandone alcune qualità. Il rendering dei personaggi è mal gestito, risultando un bislacco misto di cel-shading ed ombreggiature naturali, mentre l’effetto bloom, sebbene inizialmente impressionante, risulta ben presto applicato eccessivamente. Un vero peccato, dato che una semplice riproposizione in Full-HD e con un frame-rate più alto avrebbe sicuramente reso più giustizia al materiale di partenza (ad esempio come fatto nella Remaster HD di Okami, praticamente identica all’originale se non per la risoluzione).

Per la prima volta nella storia della serie gli artwork possono essere replicati quasi fedelmente nel gioco. Lo stile artistico compie una vera rivoluzione. Le proporzioni semi-realistiche dei titoli precedenti vengono rimpiazzate da personaggi totalmente stilizzati dalle gambe cortissime e la testa gigante. Link guadagna i caratteristici occhi da gatto e la sua espressività facciale ne fa largo uso. I contorni neri si fanno estremamente netti, larghi e pennellati: lo stile si distacca parzialmente dal fumettistico per virare verso l’arte classica di influenza calligrafica orientale. Le ombreggiature taglienti ricalcano quelle del rendering cel-shaded del gioco. Peccato per la perdita in gioco della peculiare texture cartacea che arricchisce l’artwork. Nonostante questo, The Wind Waker è il più importante passo mai compiuto dalla serie, e la key-art di Link lo rappresenta a pieno.

 

Per la versione HD di The Wind Waker Nintendo ha optato per la riproposizione degli stessi artwork, in termini di disegno e posa, ma con uno stile di renderizzazione e colorazione totalmente nuovo. La nuova key-art perde le caratteristiche linee nere calligrafiche, la texture cartacea e le ombre dal taglio netto per assumere un look più affine al rendering di gioco della versione HD con colori più brillanti ed un generale bagliore luminoso ad avvolgere il tutto. Così come l’intero titolo, anche Link in questo caso sacrifica quasi completamente la sensibilità artistica che aveva caratterizzato il gioco originale in favore di una presunta maggiore modernità.

 

The Minish Cap (2004)

Dopo l’esperimento riuscito di Oracle of Seasons/Ages, Capcom è tornata nel 2004 alle redini di un progetto per handheld Nintendo con The Minish Cap. Idealmente, lo stile artistico di partenza è quello di A Link to the Past ma con delle importanti variazioni. La pixel art delle ambientazioni è più ricca di dettagli ed i personaggi assumono proporzioni ancora più stilizzate. A rivestire tutto questo c’è una palette colori più brillante e peculiare in cui non esistono tinte nere ma solo blu e marroni molto scuri che donano un look più moderno all’intero titolo. Insomma, lo stile artistico di Minish Cap è il definitivo passo in avanti, nonché il miglior esempio, della Pixel Art nata con A Link to the Past. Non a caso, il recente spin-off Cadence of Hyrule ad opera di Brace Yourself Games condivide con Minish Cap moltissime caratteristiche estetiche anche dopo quindici anni. È proprio vero che i lavori migliori non invecchiano mai.

L’artwork ricalca completamente lo stile artistico di The Wind Waker, nonostante il gioco per necessità tecniche se ne distacchi completamente. È l’inizio di un’era in cui tutti i titoli handheld della serie continueranno ad ispirarsi a The Wind Waker, nel bene e nel male. Vuoi per necessità di marketing, vuoi per la volontà di continuità, la dissonanza tra stile artistico e estetica in-game ci ha riportato per diversi anni all’epoca pre-Gamecube.

Si conclude qui la prima parte del lungo viaggio nella storia dello stile artistico di The Legend of Zelda. Minish Cap e The Wind Waker hanno segnato da un lato il traguardo di arrivo per l’estetica Pixel Art della serie, dall’altro un grande punto di partenza per la futura storia dei giochi modellati in 3D. Nel prossimo episodio ripartiremo da Twilight Princess, un titolo divisivo che ha esplorato strade completamente differenti dal suo predecessore. Rimanete sulla pagine di Gameplay Café nella prossime settimane per la conclusione di questa storia. 

Emanuele Vanossi

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