3D Monster Maze è un gioco del 1982 per ZX81. La storia racconta che Malcolm Evans, il suo autore, non lo concepì come videogioco, almeno inizialmente. Evans era un ingegnere elettronico appassionato del nascente mercato dei computer casalinghi, mercato che non aveva ancora dei confini ben definiti. Ricevette in regalo dalla moglie uno ZX81 per il suo compleanno e iniziò a sperimentarci del codice sopra, realizzando quello che poi sarà il motore di 3D Monster Maze, di cui in verità non sapeva che farsene. Fu il suo amico J.K.Greye a dargli qualche consiglio per farlo diventare un videogioco vero e proprio. Oggi diremmo che ne realizzò il design, ma non sottilizziamo. Evans piazzò quindi un dinosauro nel labirinto e diede un obiettivo al giocatore: riuscire a trovare l’uscita senza farsi mangiare.
Il gameplay di 3D Monster Maze è di una semplicità incredibile. Una singola partita può essere conclusa in pochi secondi. Al di là di questo è interessante esaminarlo perché contiene moltissimi di quegli elementi che sono ancora fondanti per il genere horror, che di fatto ha inaugurato.
Il gameplay inizia in realtà dalla schermata dei titoli, in cui un clown dice al giocatore che nel labirinto si trova un terribile tirannosauro e che si tratta di un’attrazione solo per quelli che hanno i nervi saldi. Siamo in un parco giochi? Probabile. Ma deve essere uno strano parco giochi, perché entrando accettiamo di rischiare la vita.
Avviata la partita, il giocatore appare in una nicchia che dà su un lungo corridoio con diversi bivi. L’inquadratura è in prima persona e non vediamo il nostro avatar. È da qui che inizia a costruirsi l’atmosfera horror, che sfrutta come trampolino ciò che c’è stato detto fuori dal labirinto dal clown, cui vengono sommate una serie di meccaniche archetipiche entrate nel concept, a prescindere dalla consapevolezza dei suoi autori.
Sappiamo che ci troviamo in un labirinto di cui non disponiamo di una mappa e di cui non conosciamo (ancora) la morfologia. Davanti a noi ci sono diverse possibilità (i bivi). Sappiamo che c’è un mostro che ci attende. Ne siamo coscienti perché ce lo ha detto il clown e perché è scritto chiaro e tondo in fondo allo schermo (“Rex Lies in Wait”). Se abbiamo letto le istruzioni sappiamo anche che non possiamo sconfiggere il tirannosauro, ma solo scappare. I controlli sono semplicissimi e molto limitati: con un tasto si avanza, e con altri due ci si gira. Non si può indietreggiare e non ci si può girare di 180°. Soprattutto non ci si può difendere in alcun modo.
Insomma, appena iniziata la partita abbiamo non solo un campo (ciò che vediamo sullo schermo), ma soprattutto un fuoricampo (ciò che non vediamo ma che sappiamo esistere da qualche parte in un mondo che ha ancora dei confini incerti). Il gameplay è determinato dalla fusione di questi due piani, con uno che presuppone necessariamente l’altro: c’è il noto, limitatissimo, e ce l’ignoto, molto più vasto, dove il pericolo ci attende.
Evans e J.K.Grey si affidarono a delle scritte per far capire al giocatore lo stato del tirannosauro e per fargli percepire la sua presenza, anche quando non visibile
Mosso qualche passo inizia l’inseguimento e tutta la tensione costruita finora esplode. Lo ZX81 non aveva un grande sistema audio, così Evans e J.K.Grey si affidarono a delle scritte per far capire al giocatore lo stato del tirannosauro e per fargli percepire la sua presenza, anche quando non visibile. Muovendoci per il labirinto ci viene detto quando ci sta inseguendo, quando si ferma, quando ci ha quasi raggiunti e così via. Altro tocco di classe, per l’epoca non scontato, è la presenza fisica del tirannosauro nel labirinto (lo ZX81 aveva appena 16kb di memoria e già realizzarci un labirinto in 3D, per quanto navigabile per blocchi e con rotazioni del punto di vista di 90°, fu considerato un piccolo miracolo… non per niente la dicitura 3D finì nel titolo). Vagando per i corridoi, il giocatore può a un tratto trovarsi a osservare la sagoma del mostro che si fa sempre più grande e minacciosa. Ciò che fino a quel momento era solo evocato, prende improvvisamente forma… e si muove! L’unico modo per salvarsi è girarsi e scappare. Immaginate in un’epoca in cui per molti non era nemmeno chiaro cosa fosse un videogioco, cosa potesse significare vivere una situazione simile.
Se ci pensate bene, ancora oggi i giochi horror sfruttano la gran parte di questi principi di design per funzionare, nonostante siano stati raffinati da diversi autori e maggiormente elaborati grazie alle nuove tecnologie. A essere particolarmente intrigante di 3D Monster Maze è il suo essere nato dall’incontro tra una fatto puramente tecnico e una scintilla creativa: J.K.Greye vide un gioco lì dove Evans vedeva solo del buon codice, scritto senza un vero e proprio scopo. Chissà quanto fossero coscienti di stare per inventare un genere o, quantomeno, di essere i primi ad aver dato una forma ludica a quella parte dell’incoscio che regola le nostre sensazioni di fronte a ciò che non riusciamo a comprendere o che non possiamo comprendere.
Non per niente 3D Monster Maze perde completamente il suo fascino e la sua atmosfera quando il giocatore impara a memoria la conformazione del labirinto e come anticipare le mosse del tirannosauro. Se ci pensate bene, vale lo stesso per tutti i titoli horror moderni, anche quelli graficamente più complessi.
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