Tra i vari titoli fuoriusciti dal grande calderone che risponde al nome di giochi indie, Dear Esther merita una menzione speciale, per almeno due buoni motivi. Da una parte, per l’indiscusso valore dell’opera creata da The Chinese Room, dall’altra, per aver dato origine ad una nuova categoria di videogame: i walking simulator.
Per tutta una serie di ragioni che approfondiremo nel corpo dell’articolo, Dear Esther è un gioco di difficile classificazione, ma che non lascia indifferenti. Come tutti sappiamo, la formula di gameplay offerta dai walking simulator non è particolarmente ramificata. Niente nemici da uccidere, niente enigmi da risolvere, niente interazioni ambientali, niente di niente: il vostro unico scopo sarà quello di spostarvi da un punto A ad un punto B.
Come è possibile affascinare un giocatore in questo modo? Collocando le giuste emozioni tra il punto A ed il punto B. Sotto questo aspetto, è indispensabile avere una colonna sonora che si amalgami bene all’esperienza e che ne rappresenti quasi un’estensione. Ebbene, nelle righe che seguono, analizzeremo le musiche del videogame targato The Chinese Room, spiegandovi come essa abbia pochi eguali nel mondo dei videogiochi.
Immaginate di trovarvi catapultati su un’isola deserta di cui non sapete nulla ma che, per qualche strana ragione, non vi è del tutto estranea, dove gli unici rumori sono rappresentati dai vostri passi, da qualche folata di vento, dai versi in lontananza dei gabbiani e da una voce fuoricampo, che narra alcuni ricordi all’apparenza sconnessi. Bene, questi saranno i primi passi che muoverete all’interno del gioco.
Prima di procedere oltre, è necessaria una premessa: chi vi scrive non ha mai particolarmente amato i walking simulator, percependoli come degli oggetti misteriosi; questo fino a quando i miei occhi si sono posati su Dear Esther.
Nato inizialmente come progetto di ricerca dell’Università di Portsmouth, Dear Esther è poi diventato un gioco a tutti gli effetti, ottenendo ottimi riscontri sia di pubblico che di critica, tanto da essere rimasterizzato in una nuova versione, denominata Landmark Edition. Caratteristica principale di questa edizione è quella di disporre di una colonna sonora completamente ri-orchestrata, per la gioia di Jessica Curry, che ha potuto inserire nuovi strumenti nelle sue composizioni, tanto da raddoppiarne la lunghezza complessiva.
Lo scopo del giocatore sarà quello di esplorare quest’isola misteriosa, scoprendone tutti gli anfratti e al tempo stesso svelando il passato che attanaglia il protagonista. Gli unici indizi che avrete a disposizione saranno quelli forniti dalla voce fuori campo, che parlerà sempre rivolgendosi ad una donna di nome Esther, e dagli oggetti che troverete nel corso del vostro viaggio. Man mano che vi addentrerete nell’isola, scoprirete i misteri che sono celati al suo interno, e farete chiarezza sulla sua vera natura, nonché sul trauma che lega il protagonista ad essa.
Inutile girarci troppo intorno: il vero protagonista di Dear Esther è il silenzio. L’intera isola è avvolta da una quiete assordante, che sarà la vostra compagna di viaggio fino alla fine del vostro cammino, consentendo al giocatore di concentrarsi su tutti i dettagli degli ambienti che si troverà ad esplorare. Come avrete facilmente compreso, in un videogioco del genere, le musiche sono chiamate ad un compito non semplice: quello di “accompagnare” il giocatore nella sua avventura, intervenendo solo quando necessario per comunicare le emozioni di un determinato momento.
Ebbene, Jessica Curry è riuscita in un’impresa tutt’altro che facile, e lo percepiamo sin dalle note iniziali di Standing Stones, il pezzo che dà il via al nostro cammino. La canzone, in poco più di 120 secondi di durata, ci fa calare perfettamente nello spirito del gioco, comunicandoci una sensazione di malinconia e al tempo stesso di mistero.
I Have Begun my Ascent, invece, è uno dei pezzi che compariranno a più riprese, rimarcando l’ascesa del protagonista che, passo dopo passo, si avvicinerà sempre più all’antenna lampeggiante presente sull’isola. Non mancheranno momenti più brevi, come “Remember”, che con le sue sonorità tra l’elettronico e lo psichedelico, si abbina perfettamente al protagonista, il quale man mano riacquista piena consapevolezza di sé.
Dear Esther raggiunge il suo apice, da un punto di vista ludico, narrativo, grafico e sonoro, in due punti specifici: nello stage delle caverne ed in quello della spiaggia. Si tratta di due momenti piuttosto avanzati dell’avventura, in cui il protagonista (ri)scopre il suo passato, ed in cui il giocatore si confronta direttamente con il grande dolore che l’ha condotto su questi lidi lontani e dimenticati.
Le caverne sono il punto più profondo dell’isola, simbolo di quanto il giocatore stia scendendo negli angoli più nascosti dell’animo del personaggio. All’interno di queste grotte si cela una vera e propria meraviglia per i nostri occhi, rappresentata da specchi d’acqua, cascate, cristalli luminosi, stalattiti e stalagmiti. Tutti questi elementi sembrano al tempo stesso eterei, magici, antichi, quasi eterni, proprio come il pezzo “Always” sembra comunicarci, con una melodia delicata e perfettamente funzionale a ciò che si para dinnanzi al nostro sguardo.
Il panorama che ci accoglie una volta arrivati sulla spiaggia di contro è completamente diverso. È calata la notte, è scesa l’oscurità, intervallata dalle fiamme di alcuni lumini e dalla luce di una magnifica luna piena che, con il suo bagliore, trasforma il litorale in un’immensa distesa argentata. Il protagonista è oramai consapevole del suo doloroso passato e si prepara all’ascesa finale, così come sembra comunicare il tono triste di The Moon in My Palm.
Le ultime due tracce della colonna sonora, The Very Air e Ascension, chiudono il nostro viaggio come meglio non si potrebbe: comunicandoci malinconia, l’ineluttabilità del dolore ma, al tempo stesso, un barlume di luce e di speranza.
Come detto in apertura, Dear Esther non è un gioco facile da classificare. Il titolo si pone a metà strada tra il videogame e “qualcos’altro“, un’area grigia che è stata poi denominata ed etichettata walking simulator. Nonostante i tanti dubbi iniziali legati ad un gameplay (almeno per me) nuovo e all’apparenza scarno, l’opera di The Chinese Room affascina come poche altre, riuscendo ad appassionare e comunicando emozioni tutt’altro che semplici, grazie ad una narrativa forte, ad una regia dal forte impatto e, soprattutto, ad una colonna sonora magica come poche altre.
Se anche voi, come il sottoscritto, siete incuriositi da questo titolo ma non avete mai rotto gli indugi, abbiamo un consiglio spassionato per voi: date una possibilità a Dear Esther, ed il modo in cui guarderete e vivrete i videogame non sarà più lo stesso. Ascoltare per credere.
Se invece volete dare uno sguardo ravvicinato al gioco, osservate la nostra galleria fotografica.
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Ho riscattato questo titolo tempo fa grazie a Twitch Prime. Questa breve recensione mi ha incuriosito, perciò è giunto il momento di rompere gli indugi. Darò sicuramente una possibilità a Dear Esther
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