Editoriale

Bioshock: la dedica di Levine alla cultura religiosa

Cosa rende memorabile una storia? La sua capacità di permeare il subconscio di chi la vive armonizzandone i suoi tratti in ogni angolo? L’estro con la quale essa viene raccontata? O magari la qualità del racconto in sé? Questi sono senza dubbio tutti requisiti fondamentali per fare, appunto, di un semplice racconto una bella storia su cui però, spesso, incidono anche altri fattori. Tra questi ci sentiamo di annoverare quello tematico, composto principalmente dalle ispirazioni “esterne” che ruotano intorno alla stessa storia, e che contribuiscono a renderla a suo modo indimenticabile.

E quant’è vero che la pizza è rotonda e la Terra pure, non c’è niente di più efficace della religione, in particolare quella cattolica, da sempre fonte di ispirazione per opere senza confini dal punto di vista della sfera d’intrattenimento di appartenenza. Prendete un bel racconto, piazzategli all’interno una qualsivoglia influenza teocratica e il tutto diventa memorabile? Sbagliato! Per funzionare, il tutto necessita di un’identità precisa e collocabile in un contesto credibile, “palpabile”, in un qualcosa insomma che abbia il giusto sapore, basandosi su dosi ben quantificabili.

In questi giorni, complice il “ritorno” sul mercato della saga Bioshock, approdata sull’ibrida di Nintendo, abbiamo avuto modo di rispolverare quei capolavori, immortali per certi versi, ma soprattutto abbiamo riscoperto una forte connotazione teocratica e religiosa, carica di riferimenti più o meno velati a quella che è la religione cattolica in tutte le sue sfaccettature. Senza mai risultare asfissianti o soverchianti, questi ultimi spingono l’opera di Levine ancora di più verso un vero e proprio tripudio narrativo, in cui il giocatore spesso è costretto a decidere tra il bene e il male, tra il giusto e lo sbagliato, spaccati esattamente in due da una linea incredibilmente marcata ma allo stesso tempo difficile da scovare.

Come la storia ci insegna, da dove partono l’odio e l’amore se non dal culto o dalla fede religione a cui si dona la propria fedeltà con grande facilità? In alcuni passaggi Bioshock prova timidamente a rispondere a queste domande, ma lo fa in modo fondamentalmente imparziale, lasciando al giocatore il gusto e la voglia di sfruttare a proprio piacimento l’immaginario costruito. Il diavolo, come si suol dire, si nasconde nei dettagli ma non sempre perché, in alcuni passaggi, anche molto evidenti e importanti sul piano narrativo, l’opera di Levine non nasconde ma, anzi, sbandiera con forza tutta quell’aura religiosa da cui è pervasa.

Basti pensare al primo Bioshock e al modo in cui l’avventura dello sfortunato protagonista prende il via, per ragioni all’apparenza dettate dal caso ma che in realtà sono profondamente legate a quello che è a tutti gli effetti un “disegno maggiore” di natura quasi divina. L’arrivo nella cittadina di Rapture è un vero e proprio pugno allo stomaco, per ceri versi, perché il solo mettere piede in una simile struttura riesce a compromettere tutto quello che si sa o si pensa di sapere su ciò che ruota intorno alla nostra esistenza.

“Che differenza c’è tra un uomo e un parassita? Un uomo costruisce. Un parassita dice: dov’è la mia parte? Un uomo crea. Un parassita dice: cosa penseranno i vicini?. Un uomo inventa. Un parassita dice: attento, potresti pestare i piedi a Dio…”

Sperduto in mezzo al mare e ormai praticamente spacciato, il protagonista si ritrova in una città costruita sott’acqua, dunque al di là della vita “conosciuta”, di cui il fondatore Andrew Ryan è il leader, o per meglio dire il tiranno indiscusso. E, proprio stando alle parole dello stesso Ryan, stampate su cartelloni disseminati per tutta la città, la sua missione è da considerarsi a tutti gli effetti “divina”, poiché proprio quest’ultimo pone se stesso di fronte allo spettatore sotto le spoglie di un salvatore, di un uomo spinto dal sano ideale di costruire un angolo di felicità per sfuggire alla crudeltà del mondo “esterno”. Sebbene, procedendo nella storia, il personaggio di Ryan venga in qualche modo “smontato” dalle scoperte del videogiocatore e la sua caduta corrisponde un po’ se vogliamo alla classica figura del “martire”, la forte connotazione religiosa del gioco e della serie in generale non si estingue ma anzi, continua a illuminare (passateci il termine da messa domenicale) il cammino di chi è seduto dall’altra parte dello schermo.

Se tali riferimenti appaiono abbastanza schietti e desiderosi di colpire dritto in faccia il giocatore, altri sono invece più velati, meno appariscenti, ma non per questo risultano meno importanti. Basti pensare al classico binomio abilità – barra di energia che ogni buon gioco di stampo ruolistico possiede, che in Bioshock fa un po’ da ciliegina sulla gigantesca torta che vi abbiamo illustrato poco sopra. Per darvi un’idea più precisa, nel caso in cui non conosciate il gioco, per poter attaccare con le abilità speciali (chiamati Plasmidi) è necessario utilizzare degli oggetti “curativi” chiamati Eve.

“Noi tutti facciamo delle scelte, ma in fondo sono le nostre scelte a fare noi…”

Se il nome Eva potrebbe sembrare un semplice caso, una mera coincidenza, i dubbi vengono diradati una volta che il gioco vi mette a conoscenza della “valuta” necessaria proprio per sbloccare i poteri in questione e i potenziamenti generali per poter proseguire nella storia. Tale valuta, assimilabile attraverso modi molto particolari, prende il nome di Adam (credete ancora sia un caso?) fugando così ogni dubbio sull’effettivo tasso di rilevanza che viene dato all’importanza della religione cattolica all’interno del titolo di 2K.

I riferimenti, comunque, non finiscono qui. Sin dalle prime ore di gioco, ma con una maggiore accuratezza se si prende come campione il secondo capitolo della saga, ci vengono poste davanti scelte difficili sul piano morale, legate ad una visione a tratti esoterica delle cose. Per le strade di Rapture vagano alla ricerca di Adam in modo all’apparenza insensato ma in realtà ben preciso le “sorelline”, delle bambine in verità molto poco bambine. Queste ultime sono infatti violente, assetate di Adam in modo ossessivo, ma soprattutto sembrano possedute da una qualche entità ultraterrena e ripetono all’infinito parole come “angeli” o si interrogano in modo a tratti ingenuo sulla propria integrità morale. Bioshock, in verità, ci spiega che loro sono possedute dall’Adam stesso, ma sia a livello estetico sia a livello comportamentale tutto lascia trasudare la forte ispirazione “esterna” delle cose.

Le Sorelline, poi, possono essere salvate o prosciugate, una scelta incredibilmente cruda ma allo stesso tempo quasi scontata all’interno del gioco; un gioco in cui, come dicevamo anche in apertura, il confine tra il bene e il male non viene mai solcato nel modo corretto.

Una città costruita nel nulla, falsi Dei, profeti, bambine possedute, Adam, Eve: come se questi riferimenti non fossero già abbastanza, affacciandosi al terzo ed ultimo (sinora) capitolo della saga, Levine e il tutto il team hanno compiuto un passo se vogliamo ancor più lungo in una direzione sempre più chiara. Nel terzo capitolo, infatti, il protagonista Booker DeWitt si ritrova in una città costruita non più sotto il livello dell’acqua, ma addirittura in cielo, una città che a tutti gli effetti richiama con forza e senza freni il concetto di Eden. Una terra promessa, insomma, a cui per accedere è necessario sottoporsi ad un vero e proprio battesimo cristiano, con tanto di “lavaggio” in acqua per pulire ogni onta di una vita passata fatta di peccati, tradimenti e azioni poco ortodosse. In Bioshock Infinite, seppur i cambiamenti di rotta in termini di ambientazione e impronta tematica siano evidenti, i riferimenti religiosi non sono assolutamente da meno ma anzi, compiono un balzo in avanti importante. Lo stesso mondo di gioco è una sorta di riferimento continuo a quello che potrebbe essere idealizzato come un mondo perfetto, impossibile da ritrovare nella realtà, in cui però si annidano verità e segreti a ogni angolo.

“Il seme del profeta siederà sul trono e ricoprirà di fiamme le montagne dell’uomo”

Lo stesso “cattivo” dell’ultimo capitolo della serie Bioshock si autodefinisce un Profeta, e già soltanto le raffigurazioni sparse in quasi ogni angolo della città sembrano attribuire a quest’ultimo una sorta di potere mistico figlio di una natura divina, o quasi. Ma non soltanto: di sette religiose, di ordini minori, di ribelli che in nome del libero arbitrio si scontrano con il potere ‘superiore’, il gioco ne è pieno zeppo e si insinua nella mente del giocatore con una velocità impressionante. Fino alla fine, Infinite lo bombarda di scelte morali, di dilemmi tipici di chi è in lotta con il proprio io e la propria fede, o comunque con tutto ciò che si è imparato negli anni ed è diventato rapidamente un miscuglio di parole difficile da mettere insieme.

I videogiochi e la religione non hanno, dunque, niente in comune? Beh, la risposta, dopo aver giocato la serie Bioshock, la lasciamo a voi. I profeti vanno e vengono, così come la debolezza morale dell’uomo finisce per vacillare, sempre. Ma c’è una certezza: la speranza, quando si crede in qualcosa, in un bene superiore, diventa un elemento fondamentale della vita di ogni persona, quella stessa speranza che invade la mente del giocatore una volta impersonati gli sfortunati protagonisti della trilogia in questione, costretti a scontrarsi con una verità tanto dolorosa quanto inesorabile, in grado di distruggere ogni convinzione con la stessa rapidità con la quale un’idea prende forma nella mente.

Salvatore Cardone

Scrivo, cucino, mangio. Spesso contemporaneamente. Necessito di più mani.

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  • Grandi giochi e ottimo articolo! A mio parere la questione più prettamente religiosa fa da sfondo alla componente morale, che nel primo bioshock è dominante. Religione che è invece, insieme alla componente soprannaturale in genere (evito spoiler), perno centrale di Infinite. Per me addirittura superiore, a livello narrativo, del primo capitolo.

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