Cosa accomuna Death Stranding a La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino? Sentire questo accostamento può quasi spaventare o lasciare interdetti. Non ti biasimo caro lettore, perfino io la prima volta che la mia testa ha elaborato questo pensiero, tramutato poi in articolo, sono rimasto spiazzato. Due media differenti, due ambientazione diverse, due sviluppi diversi. Un accostamento che potrebbe far inorridire sia i cinefili che gli appassionati di esperienze interattive. Eppure a ogni passo fatto nell’America distopica di Death Stranding questo paragone si faceva sempre più vivo e concreto nella mia testa fino a diventare quello che stai leggendo ora.
Viviamo in un periodo storico in cui il filo che divide esperienza ludica da esperienza cinematografica si è fatto molto sottile: il videogioco si è trasformato in un medium versatile capace di trasportare l’utente in un meltin pot di emozioni e sensazioni che spesso trascendono il semplice “giocare” e hanno il potere di schiantare metaforicamente il giocatore sulla sedia a ogni passo. Il taglio cinematografico del flusso di gioco, il coraggioso e non banalizzato sviluppo di tematiche attuali e rischiose, la trasposizione in digitale di performance di grandi attori reali, la voglia di lanciare uno strale nella mente di chi stringe il pad o il mouse tra le mane sono tutte caratteristiche del nuovo corso dello sviluppo dei videogiochi che in questi anni abbiamo imparato a conoscere e apprezzare – o disprezzare dipende dai punti di vista.
Anche grazie a questo avvicinamento lento e progressivo la percezione che il videogioco di oggi sia un po’ più film di quanto non lo sia stato in passato mi ha portato forse ad associare La Grande Bellezza a Death Stranding come se fossero due opere appartenenti alla stessa sfera di fruizione. Ma cosa accomuna quindi un’esperienza così atipica come Death Stranding a un film di critica sociale come La Grande Bellezza? Andiamo con ordine.
Ricordo ancora la prima volta che andai al cinema a vedere La Grande Bellezza, incuriosito da un film così osannato e speranzoso di trovare un prodotto che potesse lasciarmi sbigottito e appagato a fine proiezione. Eppure dopo poco, la curiosità lasciava spazio a un’espressione di perplessità degna di una emoji. Costa stavo guardando? Perché quella scena era piazzata lì apparentemente senza senso? Sorrentino, cosa stai cercando di dirmi? Queste le domande che frullavano nella mia testa una dopo l’altra durante la prolissa serie di fotogrammi. Per chi non ha visto il film sarà difficile comprendere il senso del mio spaesamento. Ma è stato notevole, al punto che mi sono trovato davvero a chiedermi se fosse davvero un film concettuale che non riuscivo a comprendere o se i media stessero sopravvalutando la pellicola. Mi ci sono volute tre visioni tra cinema e tv per avere un quadro più chiaro del messaggio, per capire che si trattava di un viaggio dove l’intreccio e l’accostamento di tematiche era più importante della direzione intrapresa, più importante del finale.
Anche la prima volta con Death Stranding è stata simile. Primo avvio, prime ore. Camminate, lunghe, lente. E poi le spiazzanti consegne. Mi aspettavo qualcosa alla Kojima, ma, devo essere sincero, al primo avvio del gioco ho sentito forte il desiderio di spegnere in preda ai pensieri di quanto Kojima avesse osato troppo. Anche qui ho iniziato a domandarmi se fossi troppo abituato a prodotti convenzionali per apprezzare questo o se il buon Hideo-san stesse facendo marketing sulla sua immagine di icona del settore. Poi ho continuato, una consegna dopo l’altra, una missione dopo l’altra, un pezzo d’America dopo l’altro e ho iniziato a trovare un filo conduttore di quel viaggio, ogni volta che Sam Bridges allacciava un legame di quella civiltà distrutta. Ho iniziato a lasciarmi traghettare, ad appassionarmi ai momenti di sosta e di riflessione più che alle opportunità che il gioco dava. C’era qualcosa che andava oltre.
Non andrò a scavare nel poderoso catalogo di film che hanno ispirato (o hanno potuto ispirare) l’opera di Kojima. L’infinito amore che Hideo ha dimostrato più volte per il cinema è cosa nota. Il suo spaziare da pellicole di guerra america, ad altre più intime e autoriali fino al cinema d’animazione giapponese influenza non poco le sue produzioni. La Grande Bellezza può sembrare un prodotto più “nostrano” contestualizzato al nostro Paese, lontano dal mondo di Kojima, ma è intriso di alcune tematiche che lambiscono il fiume della coscienza di Death Stranding. Si parte con il dramma umano di un singolo individuo. Sam come Jep Gambardella deve ritrovare il suo posto nel mondo, trovare nuovamente un punto di contatto con la sua natura con il suo scopo ultimo, con il resto dell’umanità. Gli scopi sono diversi – da un lato la salvezza di se stesso, dall’altra quella dell’intero continente – ma il percorso di maturazione passa attraverso una catarsi innescata dagli incontri e da eventi drammatici.
Lo strecciato viaggio di redenzione dei due protagonisti è rafforzato dal contesto decadente che li circonda. Nonostante ci sia da un lato una derelitta ‘fauna sociale’ e dall’altra una raffigurazione post pocalittica di un mondo davvero in rovina, la metafora è simile. La critica alla società contemporanea, disunita, fragile ed egocentrica, rappresentano il background di entrambe le opere multimediali. Come Kojima punta forte sul suo voler incentrare il tutto a una critica alla cultura americana (già espressa altri sui prodotti), così Sorrentino pare voler mettere l’accento sul autodistruttivo mondo modaiolo italiano come specchio di una società edonistica e vacua sul baratro del collasso.
Il punto forse centrale che accomuna le due opere è la sensazione di frammentazione di mondo e umanità. Ogni uomo o donna, in entrambe le opere, rappresenta un atollo isolato in un oceano di noncuranza e cinico senso di sopravvivenza. I nemici sono gli stessi esseri umani oramai così diffidenti e rudemente solitari da rifiutare perfino l’aiuto dato loro. Squali in un mare di squali, quelli di Kojima, ma anche quelli di Sorrentino. Tralasciando quanto le tematiche affrontate debbano far riflettere sulla deriva – tutt’altro che utopistica a mio modo di vedere – verso cui rischiamo di scivolare, la loro comune direzione arriva a un punto leggermente diverso solo nel finale, dove l’angolo di visuale degli effetti delle scelte dei protagonisti è molto meno personale e più universale nell’opera di Hideo-San.
I contenuti sono quindi molto simili – seppur ci siano anche delle differenze su come sia utilizzata l’allegoria religiosa e quella storica – così come è stato simile il modo con cui sono state recepite dal pubblico. I presupposti erano diversi: da Kojima si pretendeva il capolavoro della generazione, visti anche i suoi proclami post-abbandono di Konami e nonostante i dubbi sulla natura “indipendente” del progetto; Sorrentino aveva invece già i favori della critica.
Da Kojima si pretendeva il capolavoro, Sorrentino aveva i favori della critica
Quando La Grande Bellezza è arrivata nelle sale, il pubblico si è diviso restando interdetto dalle scelte di Sorrentino che intervallava scene di realtà patinata con scene cariche di significato allegorico. Il pubblico che usciva dalla sala di proiezione in molti casi era pieno di dubbi, gli stessi che hanno colto me. Kojima ha vissuto un’accoglienza non molto diversa. Quando la maggior parte delle recensioni parlava di un prodotto complesso, profondo e diverso, il pubblico vedeva Sam portare pacchi e si chiedeva se non fosse un walking simulator nell’accezione negativa del termine. L’ironia e i meme che lo etichettavano come un “corriere simulator” piovvero così come le polemiche. Tutti forse si aspettavano il nuovo Metal Gear e si sono invece trovati davanti a un gioco straniante e distante da molte concezioni e dogmi dell’industria. Un’esperienza interattiva non immediata, molto concettuale e onirica. Le stesse caratteristiche proprie di buona parte dei fotogrammi de La Grande Bellezza.
Quando si va a considerare la critica di settore invece il risultato è stato molto diverso. Sorrentino come detto partiva già con i favori, con un “bagaglio” di buona reputazione che lo accompagnava. Ne è venuto fuori quindi un plebiscito di apprezzamenti che hanno evidenziato il valore del prodotto – che in Italia si è manifestato ancor di più con il solito italico orgoglio del trionfo. Di contro la critica videoludica è parsa fin dalle anteprime spaccata in due: da un lato gli estimatori del genio eclettico di Kojima, dall’altro i diffidenti critici.
Non a caso per la critica e per il pubblico ho parlato principalmente degli autori più che delle opere. Il motivo è che i due prodotti sembrano essere una forte espressione, anzi estensione, dei loro autori. Death Stranding non è di Hideo Kojima, Death Stranding è Hideo Kojima. Questa frase è venuta fuori in una conversazione con un collega e amico. Associazione che abbiamo subito accostato anche a Sorrentino. Entrambe le opere rappresentano forse due grandi esercizi di stile dei due autori, l’esaltazione delle loro peculiarità, delle loro capacità. Questo però ha portato a rendere Kojima e Sorrentino troppo condizionati dalla loro immagine, dal loro trascorso e fama, al punto da curare più i leziosismi personali piuttosto che l’amalgama. Facendo un paragone calcistico, hanno cercato una appariscente giocata da fuoriclasse senza pensare troppo a mettere la palla in rete.
Dopo oltre due anni Kojima ci riprova con Death Stranding: Director’s Cut (un sottotitolo che ancora di più avvicina il videogioco al mondo del cinema, ndr) cambiando le carte in tavola e, stando alle recensioni, rendendo il titolo molto più accessibile e adatto come gameplay al gusto contemporaneo, un processo impossibile da realizzare per un film che anche in versione estesa resta un prodotto fatto e finito. Se questo abbia rovinato o alterato l’esperienza iniziale e/o le intenzioni di Kojima è compito delle recensioni stabilirlo. Di certo il prodotto originale è stato, nel bene o nel male, uno dei pilastri della piccola grande rivoluzione del mondo dei videogiochi dei nostri giorni.
Un cambiamento spesso sottovalutato che sta portando i videogiochi verso una declinazione di esperienza interattiva più emozionale, introspettiva e tematicamente complessa più che un prodotto d’intrattenimento; un veicolo per messaggi autoriali e non banali più che un diletto per attimi di relax. Tra qualche lustro forse non si parlerà più di “giocare ai videogiochi”, ma di “avviare delle esperienze”. Forse non li chiameremo più videogiochi, ma video-interazioni (mi sono spinto forse oltre, nrd). Qualunque cosa accadrà Death Stranding verrà ricordato come uno dei volani che hanno dato il via alla rivoluzione.
(Ndr. Un profondo grazie al collega e amico Leonardo Moschetta per aver messo a disposizione la sua esperienza, per i suggerimenti e il confronto su questo articolo).
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