Editoriale

I giochi vanno giocati all’uscita per goderseli appieno?

Ispirata da un affascinante pezzo su Alan Wake pubblicato su Gameplay Cafe qualche tempo fa, mi sono lanciata con entusiasmo nel recuperare il titolo di Remedy. A dispetto delle migliori premesse, tra cui una bellissima storia narrata con l’inconfondibile piglio della casa di sviluppo finlandese, il risultato è stato moderatamente agrodolce.

Che sia passato troppo tempo dall’uscita?

Se da un lato il comparto narrativo, evocativo e suggestivo come pochi, mi ha ammaliata, dall’altro il gameplay mi ha creato non pochi problemi. Per esempio, le continue sezioni di combattimento nei boschi mi sono parse nulla più che il prezzo da pagare per proseguire la storia principale. Al netto dell’innegabile ripetitività di queste parti del gioco, ciò che ho trovato “incompatibile” coi miei gusti di giocatrice sono stati i controlli approssimativi in fase di combattimento (si trattava della versione PC) che mi hanno costretta a dover “sopportare” molte morti prima di completare le diverse aree. Premetto che sono perfettamente consapevole che, in teoria, un gioco come Alan Wake non merita un giudizio avverso solo per qualche spigolosità di gameplay, eppure ho pensato di mollarlo in moltissime occasioni. Mi sono chiesta i motivi della mia insospettabile intolleranza. In fondo, io ho recuperato entrambi gli Shenmue senza lamentarmi: non sono certamente intransigente su questioni come la fluidità dei controlli, perbacco!

Esiste un forte rischio intrinseco nell’estrapolare un gioco dal suo contesto storico

Allora quale è stato il problema? Se avessi giocato Alan Wake al tempo dell’uscita (2011, ndr), ovvero prima di aver entusiasticamente completato almeno quattro giochi targati Naughty Dog, tanto narrativamente superbi quanto ludicamente permissivi, sarebbe stato molto diverso il mio giudizio? La risposta è: indubbiamente si! Negli ultimi otto anni la mia concezione di action/adventure a trazione narrativa si è trasformata di continuo in base a quello che ho potuto giocare e, evidentemente, il titolo cult targato Remedy poggia su colonne portanti che non bastano più a sorreggere le mie aspettative. L’implicazione che ne ho tratto è che esiste un forte rischio intrinseco nell’estrapolare un gioco dal suo contesto storico e, in molti casi, si può mancare completamente ciò che lo ha reso speciale. Infatti, è probabilmente impossibile approcciare la saga di Zelda con le giuste aspettative dopo aver assaggiato l’interattività inebriante di Breath of the Wild, che ha subordinato la logica basata sui dungeon all’esplorazione pura. Tuttavia, le potenziali “incompatibilità storiche” non si applicano alle opere che hanno mantenuto nel tempo la loro originalità.

Non è semplice stabilire con obiettività se e quando un gioco è stato superato in ogni suo ambito

Ad esempio, poco prima delle mie disavventure a Bright Falls, ho giocato il primo Deus Ex e, nonostante un’interfaccia decisamente elaborata ed anacronistica, ne ho trovato ineguagliata la libertà ludica offerta nell’approcciare le situazioni più varie, anche a confronto con i numerosi immersive sim che sono usciti sul mercato negli ultimi anni. Ovviamente non è semplice stabilire con obiettività se e quando un gioco è stato superato in ogni suo ambito, dunque è fisiologico che ognuno recepisca sensazioni diverse quando si cimenta nei recuperi del famigerato back-log.

In casi estremamente rari, vecchi classici possono ricevere il trattamento del remake e godere così di nuova linfa vitale agli occhi di diverse generazioni di giocatori. È innegabilmente ad esempio il caso di Resident Evil 2, con Capcom che ha infatti svolto un lavoro chirurgico nel preservare le atmosfere dell’originale attraverso un adattamento coraggioso che ha coinvolto un radicale ripensamento dell’interfaccia e del gameplay. Con questa operazione, un gioco ormai superato in molteplici aspetti, non ultimo quello registico, all’epoca affidato addirittura ad inquadrature fisse pre-renderizzate, ha potuto risalire sulla cresta dell’onda e risultare “digeribile” sia ai fan di vecchia data che a nuovi appassionati.

I gusti dei giocatori cambiano repentinamente, smuovendo le tacite convenzioni che di anno in anno definiscono ciò che un gioco può pretendere da un giocatore in termini di abnegazione e coinvolgimento. La maggior parte delle volte i grandi successi commerciali hanno la capacità di assecondare rispettosamente questi paletti. Tuttavia, è possibile (nonché auspicabile) che un’opera si ponga in aperta rottura con questi, fungendo da apripista per nuove correnti mainstream e dando così il via ad un rinnovamento ciclico delle preferenze del grande pubblico. Sarebbe fin troppo facile citare come esempio Dark Souls e la sua gestione articolata del level design interconnesso. Non a caso, giocare oggi l’opera di Miyazaki risulta un’esperienza fresca, che non mostra il peso di otto anni di vecchiaia (la medesima “età” di Alan Wake, curiosamente).

A conclusione di questa piccola riflessione sull’importanza del tempismo nella fruizione del videogioco, sembra doveroso sottolineare come sia utopistico il voler approcciare qualcosa senza preconcetti. Ogni titolo giocato arricchisce infatti il bagaglio ludico personale, fornendo chiavi di lettura uniche che permettono di interpretare in maniera soggettiva ciò che si gioca. Sebbene ciò possa portare inevitabilmente a opinioni contrastanti, siano esse clamorose sopravvalutazioni o sottovalutazioni, si tratta di un interessante punto di discussione che andrebbe sviscerato con attenzione piuttosto che dibattuto a suon di presunti assiomi.

gmg215

Videogiocatrice a vita, fin dal giorno in cui Psycho Mantis ha provato a controllarmi la mente.

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