Agli albori della prima PlayStation Tomb Raider fu un dirompente esempio di gioco action/adventure moderno. Tuttavia i tempi passano ed le definizioni cambiano in base all’evidenza. Quello che oggi definiamo un’avventura non corrisponde più a ciò che era un tempo. Ripensando alle prime quattro, forse cinque, avventure di Lara (ossia Tomb Raider I, II, III, The Last Revelation e, forse, Chronicles) faticherei a classificarle secondo i generi odierni. Come pure mi risulterebbe complicato indicare un gioco che rassomigli loro per meccaniche ed intenti. Dopo una corposa ponderazione, però, qualcosa mi è venuto in mente: The Legend of Zelda: Breath of the Wild.
L’ultima iterazione di Zelda su Switch ha messo in mostra un’open world basato sulla fisica più che sulla mole di contenuti classicamente organizzati in quest primarie, secondarie e così via. Le istruzioni impartite al giocatore non riguardano cosa deve fare, bensì cosa può fare se lo vuole. Le prime iterazioni di Tomb Raider su PlayStation, sebbene organizzate in livelli chiusi come era tipico ai tempi, offrivano un’esperienza di gioco simile.
Le istruzioni impartite al giocatore nell’ultimo Zelda non riguardano cosa deve fare, bensì cosa può fare se lo vuole.
Il fine era arrivare alla fine del livello, possibilmente raccogliendo i collezionabili segreti, e, soprattutto, le possibilità di esplorazioni erano dettate e limitate dalla fisica. Favorito dalla grafica poligonale della prima console Sony, Tomb Raider era un gioco rigoroso nelle sua geometria e molto coerente nell’accoppiare questa alle azioni concesse alla protagonista. Facciamo un esempio che evoca tanti cari ricordi: il salto di Lara. Specialmente nel primissimo capitolo capitava spesso di dover spendere diversi tentativi (con conseguenti cadute rovinose) per individuare il salto giusto da fare per proseguire nel livello. Lara poteva compiere piccoli passettini frontali o laterali in modo da prendere esattamente la rincorsa che si voleva. Inoltre, una volta spiccato il volo, si poteva essere certi che la distanza coperta in elevazione era un multiplo esatto della misura poligonale fondamentale. In breve, saltare era una scienza esatta e, proprio per questo motivo, capirne i fondamenti apriva un mondo di possibilità a basso rischio. In Zelda accade qualcosa di concetualmente simile: una volta compresi esattamente quali movimenti e strumenti Link abbia, si può fare di tutto con relativo agio e senza causare la rottura del gioco.
I puzzle ambientali sono piccoli rompicapo in cui è richiesto l’utilizzo di particolari azioni in un dato ordine. Lara era occupata a spingere massi, premere leve e cercare porte. Il Link di Breath of the Wild è impegnato in attività ovviamente più complesse che hanno a che fare gli elementi naturali quali fuoco, ghiaccio, vento e cosi via.
Breath of the Wild ed i primi Tomb Raider di Core Design basano l’intero gameplay sulla risoluzione di puzzle ambientali.
A differenza di giochi quali i Tomb Raider del reboot di Crystal Dynamics, in cui il puzzle ambientale è solamente un momento di gioco che si va ad affiancare a fasi di sparatoria, di stealth o pura esplorazione, Breath of the Wild ed i primi Tomb Raider di Core Design basano l’intero gameplay sulla risoluzione di rompicapo che coinvolgono l’interazione con l’ambiente. In tal senso, questi giochi si guadagnano pienamente la definizione di platform.
L’evoluzione delle saghe di Zelda e Tomb Raider è stata profondamente differente. Ricorsiva nel primo caso, lineare nel secondo. Molti fan di vecchia data dell’universo di Hyrule, ovvero persone molto più esperte di me sull’argomento, hanno accolto Breath of the Wild come un ritorno dello spirito dell’avventura che aveva animato il primissimo The Legend of Zelda. Tomb Raider, d’altro canto, attraversa una metamorfosi perenne che lo ha portato, e forse lo porterà, verso lidi ignoti. Il platform “adulto” del lontano 1996 quasi sicuramente non tornerà mai. In tutti questi anni si è limitato a fare comparsate marginali: si pensi alle tombe in Rise of the Tomb Raider e, ancora dippiù, in Shadow of the Tomb Raider. Questa disparità di trattamento si origina nelle peripezie attraversate negli anni dai rispettivi franchise. Zelda è Nintendo, Zelda è da sempre una delle colonne portanti dell’azienda di Kyoto e, come tale, ne ha rispecchiato alti e bassi.
Diversamente da Zelda, Tomb Raider è multi-piattaforma ed è passato tra le mani di diversi team di sviluppo.
Tuttavia, la permanenza di uno sviluppatore unico al timone ha garantito la conservazione dei capisaldi della serie. Breath of the Wild, appunto, è un’audace riformulazione moderna di un qualcosa esistito da sempre. D’altro canto Tomb Raider, oltre ad essere un gioco multi-piattaforma, è passato tra le mani di diversi team di sviluppo: dal già citato Core Design delle origini si è giunti ad Eidos Montreal per il recente Shadow of the Tob Raider. In mezzo vi è stato un reboot ufficiale, quello del 2013 ad opera di Crystal Dynamics, e, ancor prima, una trilogia di giochi che si distaccava nettamente dalle prime cinque opere menzionate ad inizio articolo. Se è vero che ogni saga, prima o poi, sacrifica una parte di se stessa per inseguire le mode del momento, Tomb Raider lo ha fatto in grande misura. Senza peraltro neppure riuscire ad imporsi come l’Uncharted multipiattaforma immaginato da Square Enix nel 2013.
Ogni lode sperticata per Breath of the Wild è pienamente giustificata. Tuttavia non si tratta di un’opera esistente in un universo a parte, bensì di un ingegnoso capolavoro che ha proiettato elementi di gioco che tanti avevano dimenticato in un mondo vibrante che rispetta i desideri di libertà e longevità del giocatore più moderno. Una parte di questi elementi deriva, secondo me, dai primi Tomb Raider. In quest’ottica si può paradossalmente dire che le prime scorribande di Lara fossero moderne ben oltre il loro tempo. Sicuramente ben oltre il reboot competente ma spento di Crystal Dynamics e Square Enix.
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