Editoriale

L’eredità di Cory Barlog

Sono passate poche ore dallo scorrere dei titoli di coda di Kingdom Hearts 3: l’oscurità è stata sconfitta e finalmente, a distanza di oltre quindici  anni, l’epopea di Sora e compagni ha raggiunto il suo epilogo.

Del capitolo conclusivo dell’opera di Testuya Nomura si è già abbondantemente discusso, eppure, sebbene mi trovi in linea con il giudizio di gran parte della critica che ne sottolinea la compresenza di luci e ombre, temo che il sapore agrodolce rimastomi in bocca al termine dell’avventura abbia delle origini più subdole e nascoste, che trascendono pregi e difetti specifici del gioco in questione. Nel tentativo di capire meglio le motivazioni dietro a questa mia malcelata insoddisfazione – che magari chissà, potrebbe essere condivisa anche da qualcuno di voi – proviamo allora a fare un passo indietro e a ripercorrere mentalmente la strepitosa annata videoludica appena conclusasi. Un’annata, quella targata 2018, che oltre ad aver definitivamente consacrato il videogioco come espressione culturale dei nostri tempi, potrebbe anche aver sancito un vero e proprio punto di non ritorno nella storia di questo medium, un “cambio di paradigma” di filosofica memoria. E se per confermare la prima affermazione basta pensare all’articolo “Red Dead Redemption 2 Is True Art” apparso sul New York Times, o ai volumi di incassi a nove zeri generati da più di un titolo; per giustificare la seconda e comprendere i cambiamenti avvenuti dobbiamo prima di tutto capire chi siano i responsabili di questa piccola, grande rivoluzione.

Bè, nel caso ve lo steste chiedendo, la risposta è tanto semplice quanto scontata: si sono abbattuti sul mercato due uragani dal nome God of War e Red Dead Redemption 2. Se i meriti del capolavoro Rockstar sono cosa nota e se è vero, come è vero, che la banda di Dutch ha settato nuovi standard qualitativi per il genere degli open world, sono altresì convinto che l’ultima avventura di Kratos non sia da meno, ed è proprio sul gioiello forgiato da Cory Barlog nelle fucine di Santa Monica che vorrei rifocalizzare l’attenzione. Al di là dell’unanime consenso ricevuto da God of War da parte di pubblico e critica, ribadito ulteriormente dalla vittoria del premio Game of the Year ai The Game Awards, ritengo infatti che l’arrivo sul mercato dei primi “tripla A” della nuova stagione videoludica, e quindi il loro confronto con l’esclusiva di casa Sony, ci impongano una nuova riflessione sull’effettivo valore di questo prodotto che fino a oggi, forse, non si è ancora espresso a pieno.

Illuminante in tal senso, almeno per quanto mi riguarda, è stata proprio l’uscita di Kingdom Hearts, ma sono abbastanza convinto del fatto che le riflessioni che seguiranno sarebbero potute scaturire allo stesso modo da tanti altri titoli in arrivo. Prima di addentrarci nella spinosa questione del confronto però, cerchiamo di ricapitolare i motivi che hanno portato l’incazzatissimo Dio barbuto ad accaparrarsi la statuetta più ambita dello scorso anno.

God of War non disdegna i virtuosismi del cinema e non rinuncia a una sceneggiatura profonda e toccante, ma resta orgogliosamente un videogioco per tutta la sua durata

Onde evitare di far adirare ulteriormente il suddetto individuo, mi sembra doveroso cominciare citando quello che è forse il più felice connubio tra storytelling e gameplay che si sia mai visto su schermo. Potrei poi parlare della magnificenza del comparto tecnico o della bellezza incomparabile della regia imbastita dai Santa Monica, che consiste di un unico piano sequenza che non si interrompe mai, oppure ancora del sapiente sviluppo dei personaggi, della loro maturazione psicologica durante l’avventura, e della bontà dei dialoghi, per giungere infine all’innovativo e appagante combat system. Incredibilmente però, l’aspetto che più stupisce del prodotto nel suo complesso non è tanto il magistrale labor limae svolto su ogni singolo tassello che compone questo mosaico digitale, ma piuttosto la maestria con la quale Barlog sia riuscito a impossessarsi degli aspetti migliori dei medium dei quali il suo lavoro è figlio, che sia la macchina da presa di un Alejandro Iñarritu o la penna di un Neil Gaiman, fonderli tra loro e dare vita a un’opera che semplicemente non ha eguali nel panorama videoludico. God of War non disdegna i virtuosismi del cinema e non rinuncia a una sceneggiatura profonda e toccante, ma è e resta un videogioco, affermandolo con orgoglio dal primo all’ultimo secondo, non sacrificando mai le componenti più prettamente ludiche che caratterizzano il suo medium di appartenenza: siano esse intese come senso di sfida, piacere dell’esplorazione o puro divertimento. Proprio questo aspetto è forse ciò che più distingue l’ultima avventura di Kratos da tante altre produzioni, comunque eccellenti, viste in tempi recenti. La perfetta fusione di tutti gli elementi citati, oltre a elevare indiscutibilmente il videogioco a espressione artistica matura e indipendente, segna di fatto anche un nuovo termine di paragone per tutti quei titoli single-player che potremmo raggruppare nella generica definizione di story driven.

Ben consapevoli dell’eterogeneità delle produzioni raccolte sotto questa etichetta, approfondiamo il nostro discorso prendendo in considerazione quello che è (almeno) uno dei loro tratti comuni e che consiste, come suggeritoci dal nome, proprio nell’importanza rivestita dalla narrazione nel loro ecosistema e analizziamo come questa venga sviluppata all’interno di God of War.

Un primo importante termine di paragone è costituito dal sapiente uso che il gioco fa delle sequenze filmate, la cui alternanza con quelle giocabili procede senza soluzione di continuità generando un ritmo perfetto che, complice l’utilizzo del piano-sequenza, rende quasi impercettibile lo stacco tra una fase e l’altra. I vantaggi di queste soluzioni sono evidenti in quanto aumentano a dismisura l’immedesimazione del giocatore, posto costantemente al centro dell’azione insieme al suo alter-ego virtuale, e rendono la narrazione un continuum che scorre fluido dall’inizio alla fine dell’avventura. Con questo in mente fermatevi allora un istante e pensate alle interminabili sequenze video di dieci, quindici, venti minuti che costellano (anche) l’ultima avventura di Sora. Un po’ anacronistico, non trovate? Potreste giustamente obiettare che il passato è pieno di esempi simili, basti solo citare l’illustre Metal Gear Solid 4 e le sue oltre nove ore di cutscene, ma se questa pratica poteva essere giustificata un tempo dalle limitazioni tecniche dell’hardware e la conseguente necessità di avvalersi di scene prerenderizzate per evidenziare le fasi più salienti, così come forse dal tentativo, a volte maldestro, di inseguire una forma d’arte già affermata come quella del cinema, penso che God of War abbia dimostrato chiaramente come al giorno d’oggi si possano trovare delle soluzioni alternative più adatte e congeniali al videogioco moderno.

Sempre restando in tema “scelte efficaci” consideriamo anche il geniale sviluppo della Lore imbastito dai ragazzi di Santa Monica, così elegantemente integrato nel gameplay grazie ai racconti di Kratos e Mimir che estendono l’orizzonte narrativo dell’avventura senza che il giocatore sia mai chiamato a soste o interruzioni. Discorso simile anche per gli Altari di Jötnar, dei dipinti raffiguranti storie della mitologia norrena che vengono commentati in tempo reale dai protagonisti, sostituendo così, insieme ai racconti citati, quella tediosa pratica di raccolta e lettura di documenti, dossier, note e simili presenti nel 99% dei titoli single-player: un retaggio di vecchia data che negli intenti dovrebbe servire a donare maggior profondità alla trama, ma che nella pratica finisce per frammentare troppo il ritmo dell’azione ed essere conseguentemente ignorato o dimenticato dalla quasi totalità degli utenti, come accaduto recentemente nella trilogia reboot di Tomb Raider o in Horizon Zero Dawn, tanto per citare un paio di (ottimi) esempi. E se in passato anche questa pratica poteva essere compresa e anzi, persino ammirata, in quanto una delle poche possibilità in mano agli sviluppatori per dare spessore ai propri lavori, oggi i Santa Monica ci impongono di andare avanti, indicandoci al tempo stesso una delle possibili strade percorribili.

Il discorso si potrebbe poi estendere anche oltre gli aspetti più registico-narrativi (che comunque, lo specifico, non si esauriscono qui: confrontate ad esempio la maturazione psicologica di Kratos inter-intra episodica con quella dei protagonisti di Kingdom Hearts), menzionando altre trovate che di certo faranno scuola nei prossimi anni, come la spettacolare costruzione delle boss-fight, in particolare il brutale, ammaliante e indimenticabile scontro con “Lo Sconosciuto”, o l’invenzione del cosiddetto”aim ‘n slash”: un vero e proprio nuovo sottogenere all’interno dello stantio filone degli hack ‘n slash, come suggeriva il Mottura in un interessantissimo articolo apparso su Everyeye.

God of War è la summa delle conquiste di oltre 30 anni di storia videoludica e un nuovo radioso punto di riferimento per il settore

Considerati singolarmente potranno magari sembrare dettagli di poco conto, ma è nel complesso che queste soluzioni di game design trovano la loro forza, elevando l’opera a nuove vette di eccellenza per il medium e dimostrando chiaramente come sia possibile sfruttare in maniera originale e intelligente le potenzialità intrinseche del videogioco, sia esso visto come forma artistica o puro mezzo d’intrattenimento. Fermo restando il fatto che questo titolo sia comunque il prodotto di oltre trent’anni di trascorsi videoludici, penso che in questo preciso momento, per tutti i motivi discussi, si possa considerare God of War come uno spartiacque naturale di ciò che è stato e di ciò che sarà, la summa delle conquiste del videogioco e un nuovo punto di riferimento per il settore. Un’eredità preziosa per gli sviluppatori e un inevitabile metro di paragone per la critica. Un gioco i cui meriti non finiranno archiviati sullo scaffale a semplice testimonianza di un capitolo memorabile della storia di questo medium, ma continueranno invece a riaffiorare con forza nella memoria degli appassionati, condizionandone, forse irrimediabilmente, lo sguardo e l’approccio ai titoli del prossimo futuro, i quali saranno chiamati a reggere il non facile confronto con questo Capolavoro.
Grazie Cory, e sempre tu sia lodato. Amen.

 

Giacomo Bornino

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