Prima di gettarci a capofitto sul tema della difficoltà nei videogiochi, partiamo dal presupposto che non sono una schiappa. Molti di voi potrebbero essere arrivati leggendo il titolo e pensando “vediamo che cosa ha da dire questo scarsone”, magari dall’alto del proprio profilo online abbellito con decine di platini.
La realtà dei fatti è che io ho anche platinato Bloodborne, così come Dark Souls III e Demon’s Souls (trofei visibili su PSN, se non ci credete :D). La riflessione che vi sottopongo oggi è un po’ più sfaccettata: voglio parlare infatti di quei videogiochi o di quei momenti nella nostra vita, in cui proprio non siamo dell’umore per sbattere la testa su un boss o un livello oppure di tutte quelle volte in cui riteniamo, in un certo senso, che non ne valga la pena.
Cosa intendo dire? Ora ve lo spiego.
Caratterialmente sono sempre stato un tipo preciso e organizzato, anche per quanto concerne l’intrattenimento: ogni film, serie TV, videogioco e libro che inizio dev’essere portato a termine proprio per una mia questione di completezza. È sempre stato così, o almeno lo è stato fino a quando… beh, fino a quando mi sono reso conto – parafrasando La Grande Bellezza – che stavo banalmente perdendo tempo facendo cose che non mi andava di fare. Ed ecco che, col passare degli anni ho iniziato a interrompere, mollare e troncare qua e là praticamente ogni prodotto che mi ritrovavo per mano, al primo accenno di noia. I videogiochi però sono un medium molto peculiare e diverso dagli altri, e partendo da due dei titoli premiati ai The Game Awards di quest’anno, voglio provare a farvi capire il mio punto di vista.
Sekiro: quante lacrime ma che goduria!
Mi riferisco in particolare a Sekiro Shadows Die Twice e Death Stranding, due prodotti differenti e a loro modo peculiari. Si tratta di due delle produzioni che più ho atteso nel 2019 e che quindi ho scelto di acquistare felicemente al Day One. Insomma, due giochi che ho affrontato con piacere. Come avrete intuito, sono un grande amante dei giochi diretti da quel mattacchione di Hidetaka Miyazaki così come ho anche giocato e adorato quasi tutta la Metal Gear Saga, riponendo nel tempo grande fiducia e affetto nei riguardi di Hideo Kojima. Questo per dire che la mia predisposizione mentale verso i nuovi Sekiro e Death Stranding è stata particolarmente sincera e positiva, guidata da un amore genuino e da una forte aspettativa. Il parallelo che voglio tracciare tra i due videogiochi però, riguarda il livello di difficoltà: nel primo caso, come da tradizione, non è possibile regolarla e quindi mi sono dovuto adattare, di buon gusto. Nel secondo invece, ho approcciato l’avventura a livello difficile, come suggeritomi praticamente da chiunque.
Ed ecco che arriviamo al punto: nei panni di Shinobi mi è capitato di provare rabbia e frustrazione, di mollare per un po’ il gioco per poi riprenderlo più determinato che mai, di interrompere strategicamente il gameplay prima di uno scontro con un boss, per potermici poi dedicare con calma più tardi, per decine e decine di tentativi, nel silenzio delle ore notturne. Ma l’ho fatto, paradossalmente, felice: è stata una sofferenza piacevole perché ho riconosciuto, fin da subito, la grande cura che è stata dedicata allo sviluppo del sistema di gioco e la pignoleria con cui sono stati creati e scelti i tempi del gameplay. Ed è questo per me, che ha davvero valore, indipendentemente dalla difficoltà proposta.
Death Stranding ha diversi pregi ma non questo
Death Stranding invece, senza scadere in spoiler, ha un struttura di gioco molto peculiare e interessante: in particolare, ne ho apprezzato ogni aspetto che concerne l’esplorazione e lo stile delle meccaniche stealth. Gli scontri a fuoco invece – specie in alcuni frangenti – sono piuttosto banali e freddi, e non offrono alcuna emozione o spunto da approfondire per migliorare la propria efficienza. Il gioco di per sé non è molto impegnativo e, salvo un paio di momenti, non ho avuto grandi problemi. Ma è proprio lì, avviato verso la fine del gioco e con il traguardo a vista, che mi sono incagliato in una serie di tre-quattro Game Over consecutivi.
Nulla di drammatico, sia chiaro ma tanto è bastato per chiedermi “perché insistere e buttare il tempo così?”. Questo perché per me, banalmente, Death Stranding non è un gioco per cui vale la pena sbattere la testa; non possiede una struttura di combattimento tanto sfaccettata quanto rifinita da farti sentire davvero sconfitto e fuori luogo, ricorrendo a una correzione di questo tipo. Inoltre, il mio approccio al titolo e gli aspetti che più mi interessavano erano altri e perlopiù di stampo narrativo. Perché perdere tempo in uno scontro che non ha niente da insegnare e che sopratutto non mi migliorerà in alcun modo?
Ogni esperienza videoludica affonda le proprie radici in determinati aspetti e pertanto, da utente, non trovo sensato dover utilizzare lo stesso approccio per ogni singolo videogioco. Se da una parte comprendo il morire decine e decine di volte in Bloodborne per studiare un boss, per cercare di assimilare al meglio i tempi delle animazioni, gli attacchi e i piccoli campanelli di allarme prima di uno specifico colpo, dall’altra non vedo perché fare lo stesso con i più recenti capitoli di Far Cry, Assassin’s Creed oppure con Star Wars Jedi: Fallen Order.
Non è sempre colpa del giocatore
Quest’ultimi infatti, sono tutti esempi di videogiochi pensati con un livello di difficoltà scalabile e che, pertanto, gestiscono le complicanze banalmente aumentando il numero di nemici oppure potenziandone la forza d’attacco o ancora, minando la resistenza del nostro personaggio. Insomma, nulla di particolarmente eccitante, che va di pari passo con un sistema di combattimento non particolarmente rifinito – e non lo dico in senso necessariamente negativo, ogni prodotto parla a un pubblico diverso – e che potrebbe dar luogo a innumerevoli momenti di frustrazione.
La difficoltà nei videogiochi, di per sé, non ha niente di interessante: la rilevanza gliela diamo noi nel momento in cui questa è inserita in un contesto che fa percepire vantaggi e svantaggi o in un sistema di crescita che sfida il giocatore. Ma è anche vero, tornando agli esempi di prima, che il sistema di combattimento, la fluidità e i tempi delle animazioni di Jedi Fallen Order non sono così ben curati e impeccabili come si potrebbe credere per cui può capitare, ed è frustrante, di morire ripetute volte per ‘colpe’ non direttamente connesse alla nostra abilità.
E quando si ha poco tempo per giocare, è meglio evitare.
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Bell'articolo Tom, baby mode tutta la vita per me nei giochi che se la meritano. Un applauso a Dishonored 2, uno dei giochi della generazione per me, per la sua moltitudine di slider per la difficoltà per personalizzare ogni aspetto della sfida.
Baby mode non l’avevo mai sentito ma rende l’idea ahha
Vabbe Dishonored 2 fuori scala per quanto é fico sotto ogni aspetto :)
Gran bell'articolo Tommino!
Tommino in da house
Sinceramente Tommaso non ci vedo nulla di male a giocare livelli di difficoltà bassi e non mi sono mai permesso di giudicare coloro che prediligono godersi la storia al strapparsi i capelli perché vogliono un trofeo o sono masochisti. Per quanto mi riguarda prediligo la difficoltà standard, ma ciò non toglie che se il titolo lo amo, mi lancio in run di dolore, che sanno regalarmi momenti indimenticabili. Ho sentito Fallout 4 in modalità sopravvivenza, che oltre a rendere il gioco tosto ti toglie il fast travel in una mappona niente male?! 😅🍻
Quoto, io pure inizio a normale. Se mi blocco e non ha senso, abbasso senza problemi 😛
Idem come sopra
Inizio sempre a difficoltà "normale" poi, se non mi diverto più e c'è la possibilità, diminuisco la difficoltà senza pensarci due volte!
'E quando si ha poco tempo per giocare, è meglio evitare' ti darei un premio solo per questa frase.
Articolo top; condivido pienamente.
Anche io parte sempre a difficoltà normale, poi, in base a come va l'andazzo abbasso o aumento.
Ahahaha grazie :)