Game Design

Game Design – Resident Evil

La rubrica Game Design si occupa di confrontare una serie o un genere videoludico per valutare in termini di game design (di progettazione) come sia cambiato nel corso degli anni, come certe meccaniche siano rimaste le stesse, o come siano state modificate. Differenze a volte piccole, a volte enormi, ma sempre importanti per il modo in cui vanno a condizionare l’economia di gioco, sia nel dettare le azioni disponibili che il modo in cui eseguirle. Dopo una prima puntata servita a spiegare in cosa consiste il game design (leggibile a questo indirizzo ), quale sia la sua utilità e presentare questa rubrica, passiamo ai casi specifici.

Resident Evil è un buon esempio con cui iniziare: la saga horror di Capcom ormai viaggia verso il quarto di secolo ed è stata declinata in diverse forme.
La scelta di soffermarsi sul confronto tra il primo e l’ultimo capitolo è dovuta in particolare ad alcune polemiche sorte poco prima l’uscita di Resident Evil VII. Nello specifico, la critica più diffusa riguardava il cambio della visuale dalla terza alla prima persona, che secondo alcuni avrebbe snaturato l’impostazione del gioco. Eppure se andiamo oltre la telecamera e osserviamo entrambi i titoli sotto la lente del game design, le somiglianze sono sorprendenti, al punto da renderli paralleli. Il criterio del game design mostra quindi la sua importanza per andare oltre la semplice apparenza e concentrarsi sugli aspetti che fondano la giocabilità e l’esperienza ludica vera e propria.

La progressione è il primo e più evidente aspetto in quanto Villa Spencer e la magione dei Baker vanno esplorate in modo simile. Parti delle tenute sono inaccessibili nelle fasi iniziali e il backtracking accompagna il giocatore sin verso il termine, riportandolo in luoghi già ampiamente battuti, anche solo per arrivare ad aprire una stanzetta vicino l’ingresso (o con un beffardo, ma sorprendente, giro da gioco dell’oca. Vedi il finale di R.E. VII).
Questo avanzare è sempre scandito dalla soluzione di piccoli enigmi, dal reperimento di chiavi, dalla combinazione di determinati oggetti o emblemi, come se le ville fossero delle gigantesche escape room. Partenza e arrivo coincidono nel medesimo luogo, solo in punti diversi. In entrambi i casi viene offerta una deviazione nella foresteria degli Spencer o nella palude, nei laboratori Umbrella o nella miniera della Connection, ma dalla villa si inizia e si finisce.

Anche il sistema di combattimento è molto simile. La gestione dello scontro a fuoco non vede mai il protagonista padrone della situazione (come invece poteva accadere nel 4,5,6, in cui si affrontavano ondate di creature su cui scaricare con più disinvoltura il proprio arsenale). La norma è giocare in difensiva di fronte ai nemici, i quali possono incassare diversi colpi prima di essere eliminati. Che siano i micomorfi o gli zombie, il loro incespicare lento ma inarrestabile impone all’utente di arretrare, inoltre i corridoi stretti sono diversi dalle stanze ad ampio respiro del 4,5,6, ricreando un senso claustrofobico e restrittivo per la libertà di spostamento.

Concediamoci una piccola digressione sul terzo episodio per confrontare un’altro elemento importante, che accomuna quest’ultimo R.E. con quelli considerati più attinenti al suo tema.
Jack Baker, al pari di Nemesis, ricopre la figura di boss ricorrente per come questo concetto è stato declinato in un survival horror. Normalmente nei videogiochi il boss è un nemico particolarmente forte, ma non invincibile, che rappresenta uno scoglio da superare nel corso dell’avventura. Resident Evil ha reinterpretato questa idea in modo che fosse calzante con la giocabilità di un titolo che punta a mettere a disagio l’utente. In quasi tutte le loro incursioni (sino allo scontro finale, ovviamente), entrambi possono essere rallentati, ma mai sconfitti veramente. Questa loro persistenza rende dunque svantaggiosa, in termini di economia di proiettili, l’idea di andare all’attacco, favorendo invece la fuga e riaffermando la centralità del disagio, della paura tipica dell’horror, inserendo dei boss che si pongono come una minaccia insormontabile. Il patriarca dei Baker, così come il Tyrant cacciatore, svolgono un ruolo analogo.

Persino l’arsenale è reperibile con lo stesso identico ordine. Si comincia con un coltellino, per poi passare ad una pistola, un fucile a pompa (ottenibile peraltro tramite un enigma che va oltre il citazionismo), un’arma d’assalto e concludendo con una Magnum.
In entrambi inoltre il sistema di cura sconfina nell’esplorazione. Nei capitoli d’azione, gli spray e le erbe venivano piazzati lungo un tragitto abbastanza lineare e servivano a ripristinare la vita del personaggio, fungendo solo da indicatore di quanto bene avessimo gestito gli scontri a fuoco. In Resident Evil 5, ad esempio, si seguiva una progressione sempre in avanti e non era necessario effettuare una “vera” ricerca di questi oggetti. R.E. 1 e 7 invece hanno in comune una progressione backtracking più permeante, in cui l’erba non è solo lo strumento con cui mantenersi in vita, ma è l’oggetto di un’eventuale ricerca.

Trovandosi feriti dopo uno scontro con un hunter o con Jack Baker, è facile prendersi una pausa dall’obiettivo principale per andare a caccia di erbe ed evitare un prematuro game over.
Medesimo discorso per le munizioni, che essendo in quantità limitate condizionano non soltanto la scelta se fermarsi a combattere o scappare di fronte un nemico, ma anche se proseguire nella storia o dedicarsi a cercare preziosi colpi.

Di conseguenza Capcom sembra aver riabbracciato una formula più simile a quella degli esordi. Esplorazione, combattimento, gestione dell’inventario per gli oggetti di supporto e le munizioni, tipologia di puzzle per avanzare, struttura della mappa e impostazione del backtracking. Tutti questi elementi di game design segnano profonde somiglianze tra Resident Evil 1 e 7, al punto che il survival di Capcom si trasfigura nell’estetica ma nella sostanza compie un ritorno alle sue origini. E’ abbastanza simbolico che il settimo capitolo proietti l’utente dentro una villetta, segnando un parallelo concettuale, ma non soltanto, con il primissimo Bio Hazard.

Francesco Dovis

Complice una formazione professionale nel settore, decide di adottare l'approccio giornalistico anche nel trattare un argomento che oggi è diventato di costume al pari di musica o spettacoli. Da sempre videogiocatore multipiattaforma, in virtù di questo definisce la sua esperienza in materia "caleidoscopica".

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