Giochi da riscoprire

Le sette personalità assetate di perversione di Killer7

Solo ultimamente, diciamo dal finale dalla scorsa generazione ad oggi, il movimento videoludico si sta scrollando di dosso il timore reverenziale verso medium centenari. Merito di scrittori di altissimo livello come il budget che li sostiene e di programmatori visionari liberi di portare a schermo i loro voli pindarici, puri e indipendenti come un’idea. Si rimane estasiati davanti allo sprezzo che gli attori di Cyberpunk 2077 hanno per il proprio corpo, atterriti dalla causticità 8-bit di Hotline Miami, stregati da un bacio saffico che pare infondere nuova speranza a un mondo devastato da spore fungine e violenza primitiva. Si pensa al presente, dimenticandosi di un passato bollato come pretenzioso, rabbioso perché cercava di uscire dalla gabbia della moda e porsi sullo stesso livello di chi guarda i videogiochi dall’alto al basso. Un passato che sta per riemergere rimasterizzato direttamente dal 2005 (Steam, autunno) trovando, si spera, terreno più fertile, preparato, ben disposto all’arte pulp di un maestro, Goichi Suda, e della sua opera magna, folle, perfetta: Killer7.

Pulsioni

L’opera Grasshopper vive di manie, perversioni, allucinazioni, quelle dei propri interpreti e quelle indotte nel giocatore, portato fin dal primo minuto ad aprire i suoi sensi e abbandonarsi a un flusso ininterrotto di impulsi. Un gameplay che osa limitare la libertà di movimento in un mondo che ne chiede (e chiedeva) sempre di più, che sottrae invece di aggiungere, un tunnel claustrofobico in cui lo spettatore deve per forza passare senza possibilità di diluirne il carico di angoscia e adrenalina. Ci si muove semplicemente premendo un tasto, vincolati come lo sono le sette personalità dissociate in cui l’assassino Harman Smith ha il potere di trasfigurarsi. Suda51 gioca con la nostra mente, ci fa sentire in trappola togliendoci la sicurezza dell’analogico legata a un movimento libero ed estasiando al contempo i nostri occhi, studiando telecamere capaci di santificare una fotografia acidissima contrastata da ombre nere come il vuoto, dando sfogo a un utilizzo unico e penetrante degli shader. Un continuo gioco di luci, colori, prospettive, regia pura che esalta una delle direzioni stilistiche più clamorose che si abbia mai avuto la fortuna di vedere. Una scelta capace di creare distacco fisico coi personaggi fino al momento dell’azione, una risata agghiacciante, insopportabile, che preannuncia l’avvicinarsi di una bomba umana, di un terrorismo di nuova generazione.

Qui tutto passa in soggettiva scoprendo il cuore del game design e il perfetto utilizzo del sonoro. L’arma puntata sempre al centro del campo visivo, ghignanti si avvicinano sagome indistinte, trasparenti, almeno fin quando non sbattiamo le palpebre, come a destarci. Ciò che viene messo a fuoco sono esseri ormai disumani, deformi, folli, il cui punto debole è ben visibile all’occhio esperto di un assassino. Sangue freddo per assimilare quello caldo degli esseri appena uccisi (altra meccanica fondamentale), mano ferma, come in una sparatoria western, ennesimo rimando a un mondo cinematografico che Suda fa suo costantemente. Nella sua fase action il gameplay diventa maniacale e rituale, il gusto dell’uccisione rende euforici per il senso di pericolo e angoscia che lo precede, assuefacendoci con un piacere dolce e perverso. Un circolo vizioso di pulsioni ataviche che l’opera fa riaffiorare continuamente grazie al solo utilizzo del sound design, una grottesca risata che diventa il grilletto di un meccanismo ludo-psicologico perfetto. Schizofrenica, l’installazione formato videoludico di Suda51 alterna l’azione chirurgica e tesissima ad un’anima da avventura grafica, ricordata anche dalla sua limitazione su binari e dal level design a bivi, spesso interconnessi, sempre sofisticato, spingendo a riflettere senza mai eccedere nel cervellotico, sfruttando le abilità uniche degli assassini e mantenendo il ritmo sempre elevato, riuscendo a creare una continuità tra dialoghi, cutscene e giocato, cucite in maniera sartoriale e impercettibile. Perché ciò che rende davvero speciale e coerente questo gameplay allucinato, fuori dal tempo, è proprio il suo tessuto narrativo.

Cult

Il simbolismo di David Lynch applicato al pulp di Tarantino, il tutto tratteggiato e animato da Satoshi Kon. Questa potrebbe essere una sintesi spannometrica del lavoro del Suda sceneggiatore e regista, che richiama alla mente questi e altri maestri non tanto per ispirazione, quanto per una filosofia di base che accomuna il designer giapponese ai grandi appena citati. C’è un’autorialità marcatissima, unica, inimitabile nel mettere in scena un thriller psicologico fantapolitico di altissima caratura, complessità e originalità, un intreccio acid noir come il suo stile grafico, tanto criptico quanto parlato, simbolico quanto esplicito, sul cui palco si alternando tantissimi interpreti. Una narrativa su più piani capace di mescolare gusti occidentali e irriverenza orientale, che tendono inesorabilmente ad attrarsi e mescolarsi; quello terreno, un mondo che pare finalmente aver trovato la via della pace, in cui tutte le armi nucleari sono state distrutte, internet e il trasporto via aria aboliti nel tentativo di prevenire guerre e terrorismo, turbato dai giochi di potere che vedono protagonisti Giappone e Stati Uniti e dagli Heaven Smile di Kun Lan. Entità che si pone sul piano divino, condiviso con Harman Smith, bene e male che diventano indistinguibili nella nebbia delle sfumature di grigio che ne avvolgono mire e personalità. Personalità appunto, molteplici e disturbate, disturbanti, che frantumano il piano psicologico in schegge taglienti, folli, sadiche, labirintiche. È un intreccio clamorosamente riuscito, dal gusto tipicamente nipponico, tipicamente Suda51 nei suoi eccessi folkloristici e nella rappresentazione crudissima e spiazzante della violenza, quella plateale e quella accennata.

Un fascino sordido, occulto, magnetico come la luna che tutto osserva e influisce sulla marea emotiva del giocatore, ormai schiavo dei suoi segreti, in cerca di interpretazioni nei vicoli del web come un drogato in crisi di conoscenza. Si segue la vicenda in preda a un voyeurismo compulsivo in cui si cerca di carpire ogni dettaglio, ritrovandosi a rimuginarci anche ben lontani dalla console; merito di un copione surreale sorretto da un doppiaggio eccelso, che alterna la ricercatezza e l’aplomb di Garcian Smith alla volgarità di Dan, le metafore di Iwarazu, personaggio incredibile per estetica esplicitamente sessuale e filosofia, e i terribili racconti biografici di Susie Sumner; tutto raccontato attraverso una mescolanza di stili eterogenea senza soluzione di continuità, dove splendide sequenze in stile anime si alternano a cutscene girate col motore di gioco, ritrovandosi poi a leggere lettere deliranti colme di incredibili verità. È un progetto che non risponde a nessuna ricerca di mercato e a nessuna esigenza commerciale, avanguardia pura che conclude il filone di opere riunite sotto lo slogan “Kill The Past“, punta di diamante della produzione Grasshopper Manufacture e del suo fondatore, curata maniacalmente in ogni dettaglio, dalle animazioni fino forse ai menu/schermate più belli mai visti. Un’opera che si presta a non lasciare indifferenti, a farsi odiare come a ossessionare per tutta la vita, rimanendo sempre nascosta in un angolo della mente per poi manifestarsi prepotente come la voglia irrefrenabile di attaccare il GameCube alla TV, martellando come una traccia della sua estatica colonna sonora.

Estasi uditiva

Masafumi Takada è un musicista straordinario, legato a Goichi Suda come Angelo Badalamenti a David Lynch. Filosofie, opere, pensieri che prendono la loro forma definitiva solo accompagnati da una colonna sonora portante, fondamentale quanto ciò che è espresso per immagini. Sfaccettata e schizofrenica come tutti i tasselli che compongono il titolo, in continuo contrasto di ritmo e sensazioni. Dalla calma di un jazz corrosivo dalle tinte hardboiled a basi techno, drum & bass, fino ad un minimal a luci rosse, che richiama le atmosfere di certe discoteche e strip club dell’iconografia hollywoodiana. Chitarre rock e rimandi a ritmi arcade tra fumo passivo e cabinati. Tutto è però reinterpretato, reinventato. Ritmi, generi, suoni conosciuti i cui dettagli sono dissonanti, inquietanti, nuovi, mai passati attraverso i timpani col rischio di rigetto che ne consegue. Innovazione musicale che diventa perfezione una volta associata a immagini, situazioni, assurdità e no sense, come a cogliere un pensiero inespresso e pericoloso nella mente degli interpreti. Una precisione che sfuma poi in tutti i dettagli sonori, dagli spari assordanti ai gingle che sottolineano certe azioni, indizi, momenti, vissuti tra centinaia di risate isteriche. È lo shock dell’unicità in un mondo dove tutto è uguale a sé stesso e in pochi azzardano, cercando di spiazzare, colpire allo stomaco, ridendo in faccia al politicamente corretto e all’edulcorazione. Questo è un racconto sempre oltre il limite, eccessivo e autodistruttivo, caratteristica propria dell’arte capace di far dimenticare il media di appartenenza. A breve la possibilità per tutti di scoprirlo, rimasterizzato come la sua estetica merita, un’opportunità rara per assimilare qualcosa di unico e straniante caduto per troppo tempo nell’oblio del videogioco d’essai che in molti tendono a rinnegare.

Stefano Calzati

Petrolhead di The Games Machine, cummenda di Gameromancer e tuttofare per il Tanzen. Scrivere di videogiochi per me è un atto d'amore dove il fattore emotivo batte quello tecnico.

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