Syberia è una vacanza. Un virtuale Orient Express che sulla tratta Francia-Russia, divisa in due meravigliosi atti, sospende inesorabilmente l’incredulità, nonostante si conosca ogni enigma e ogni linea di dialogo dopo l’ennesimo andata-ritorno alle porte delle festività natalizie. L’opera firmata da Benoit Sokal è una passeggiata per il lungofiume di un paesino trentino, un’escursione tra le pinete innevate ai piedi delle Dolomiti, capace di far sbocciare questi parallelismi spontanei con la realtà e farci scoprire ancora vulnerabili alle meraviglie della natura e dell’ingegno umano. Come quello di Hans Voralberg, ultimo erede della dinastia di giocattolai di Valadilène, fiabesca località incastonata nelle Alpi francesi e sede dell’azienda di famiglia, le cui creazioni avveniristiche, tra artigianato finissimo e orologeria applicata alla robotica, impreziosiscono ogni angolo del paese. Un erede che non sarebbe neanche dovuto esistere, creduto morto in giovane età e invece uscito vivo ma irrimediabilmente segnato nella mente e nel fisico da quell’incidente, protetto da sua sorella Anna e odiato dal padre, ai cui occhi altro non era se non una vergogna da nascondere.
Kate Walker in questa storia familiare doveva essere solo un personaggio di passaggio, intermediario di una trattativa tra Anna Voralberg e una multinazionale statunitense del giocattolo per la vendita della sua amata azienda, irrimediabilmente impantanata in una nicchia di mercato anacronistica, senza futuro, troppo romantica. Una formalità, una firma e poi il volo di ritorno verso una vita borghese, New York, un fidanzato con cui convolare a nozze. Il sipario però cala sulla vita terrena della signora Voralberg con una messa in scena suggestiva, potentissima, ouverture di un’opera indimenticabile: i rintocchi delle campane tengono il tempo di una marcia sommessa, quella degli automi vestiti a lutto, compagni di vita che sembrano più di semplici macchine senz’anima, bagnati da una pioggia battente, autunnale, che ne riga i volti metallici, scintillanti. L’inizio di un viaggio, non tanto metaforico quanto prettamente pratico. La traversata d’Europa in treno, inseguendo il geniale idiot savant Hans e il suo sogno, forse un’illusione, vedere gli ultimi Mammuth esistenti sull’isola di Syberia, dimenticandosi piano piano tutto il superfluo di cui è lastricata la vita.
Ci sarebbe da scrivere tutto, riportando la narrazione emozione per emozione, ricordo per ricordo, ma verrebbe meno il senso della rubrica, quel “riscoprire” che per Syberia è una costante, quella delle storie indelebili, senza tempo, evergreen, e perché c’è molto di più oltre ai meravigliosi personaggi e copioni recitati a braccio, mettendoci tantissimo del loro, come fossero veri, vivi.
Con Syberia, nel 2002, Microids scrisse uno degli ultimi atti dell’avventura grafica classica, a metà tra l’ultimo respiro e il tentato rilancio di un genere allora morente, che verrà poi riscoperto solo dalla scena indie qualche anno più tardi. Vetuste agli occhi dei più come l’artigianato Voralberg, con le major intente a fare terra bruciata attorno a interi generi, prima terreno di floridi blockbuster. Da qui il viaggio quasi autobiografico degli autori, lontano dal mondo frenetico, dalle mode (anche videoludiche), prima incarnate e poi rinnegate da Kate Walker, uno dei personaggi più straordinari che l’industria abbia mai scritto. Avvocatessa un po’ snob, sempre con la battuta pronta, tagliente, la si vedrà crescere, evolvere, prendere decisioni drastiche una volta resasi conto di quanto siano futili certe meccaniche sociali a cui ci siamo abituati, anestetizzando volontariamente la nostra quotidianità. Ce se ne rende conto soprattutto tramite le chiamate che la ragazza farà di tanto in tanto a casa (al suo capo, a sua madre, al fidanzato Dan e all’amica Olivia), svegliandosi piano piano dal torpore che induce la vita moderna, cui ci si può sottrarre solo allontanandocisi completamente. Un processo tratteggiato con grande calma e senso del tempo da Benoit Sokal, sopraffino regista che spezzò la vicenda in due capitoli, 2002-2004, lasciando decantare il cliffhanger del primo atto, sapendo che ormai il giocatore sarebbe stato completamente sedotto dal suo mondo, pendendo dalla sua penna. Coerente e credibile, alternativo eppur realistico, mai slegato da temi geopolitici come la situazione della Russia post-URSS, ogni scenografia disegnata a mano dal fumettista belga è un colpo al cuore da sindrome di Stendhal che esalta la bellezza delle inquadrature.
Ogni fermata della ferrovia Voralberg, nella prima metà del viaggio, ha luogo in una cittadina romanticamente decadente, semi abbandonata, capace al contempo di incutere soggezione e meraviglia per i tempi che furono, in un’ibridazione steampunk dove il passaggio di Hans è sempre tangibile, ancora funzionante. Sembra quasi che arrivo e addio del genio di Valadilène abbia coinciso con la massima gloria e la caduta di questi luoghi, oltre a diventarne la vera chiave di gioco. Un cuore punta-e-clicca classico che si piega a enigmi soprattutto meccanici, squisitamente logici, sempre divertenti e mai campati per aria, forzati, soprattutto perché perfettamente integrati con le necessità narrative. Ma è soprattutto l’estetica a rendere rotondo il gusto enigmistico, non solo per facilità di lettura ma per la bellezza del risultato. Ogni automa o dispositivo è animato in modo superbo (ancora oggi) e una volta decifrato si ha l’idea di averne assimilato i segreti del funzionamento, lasciando al risultato il compito di rilasciare endorfine nell’organismo del giocatore, sempre stimolato e mai preso in giro. Straordinario in questo senso l’enigma della macchina da cocktail del centro termale di Aralbad, a metà tra un pianoforte e un bar automatico, perfetta dimostrazione di ingegno e amore alla base del game design.
E il merito qui è ancora di Sokal, che ha teorizzato l’ingegneria alla base dei meccanismi Voralberg con una cura incredibile, inserendoli in un personalissimo contesto Art déco ancor più morbido nelle linee e azzardato nell’architettura, cui solo le immagini possono rendere giustizia. È uno stile visivo di impatto violentissimo ed elegante, che parte da identità architettoniche conosciute (come la corrente del “ritorno all’ordine” di stampo fascista per l’università di Barrockstadt, che potete vedere poco sopra) per poi modellarne le geometrie secondo criteri assolutamente nuovi, con fondamenta piantate nel solido terreno del realismo, libero di ergersi verso vette ai limiti del surreale. Cromosomi artistici unici, capaci di infondere vita in ogni location e fondersi con le magnifiche e rilassanti composizioni orchestrali del trio Varley-Bodiansky-Zur (quest’ultimo legato indissolubilmente alla saga). Da stazioni-serra umide e tropicali nel cuore dell’ex-Germania Est a città industriali abbandonate al volere dei Monti Urali dopo il crollo del Muro di Berlino, finendo nella già citata Aralbad, il cui antico sfarzo è oggi ricoperto da una brillante coltre di sale. Sarà poi nel secondo capitolo che la direzione artistica cambierà con grande classe, man mano che ci si allontanerà dalla civiltà industrializzata per immergersi nella cultura Yukol, popolazione indigena delle steppe siberiane, lasciando spazio alla natura innevata e alle usanze tribali, sconfinando sempre più nella fiaba e nell’onirico giunti nella loro capitale scavata nel ghiaccio, mentre l’unico comun denominatore tra punto A e B del viaggio rimarrà Oscar. Automa, capotreno, amico, assolutamente umano nonostante le differenze biologiche e tecnologiche.
Un attore straordinario che formerà una coppia esplosiva con Kate, fonte inesauribile di scambi di battute al vetriolo, divertentissime e, ancora una volta, divinamente scritte. È un gioco denso di umanità, tratteggiata anche in maniera macchiettistica e per questo capace di incidere nella mente anche i personaggi meno importanti, raccontando tematiche di grande spessore e ad ampio spettro ma sempre con una leggerezza sublime, naif, frizzante, tra introspezione intime e cliché avventurosi di scuola Lucasfilm (c’è molto dell’epica di Indiana Jones, anche), sempre attuali. Ma sarà soprattutto il personaggio di Hans a diventare centro di gravità permanente capace di attrarre curiosità e affetto. Un sognatore, un illuminato che combatte ogni giorno con i limiti imposti da quel giorno fatale, l’incidente in una grotta affrescata da pitture rupestri che ritraggono i maestosi proboscidati preistorici, divenendo da allora ossessione ai limiti della follia, unico obiettivo di una vita incredibile. La così detta sindrome dell’idiota sapiente, qui messa in scena con grazia e rispetto, tratteggia un bambino intrappolato in un corpo anziano, appassito, in cui arde ancora l’ingegno di un Da Vinci moderno.
Una storia straordinaria quella raccontata da Syberia, un classico che non teme la prova del tempo, impreziosito lo scorso anno da un terzo capitolo atteso per tredici anni. Coerente col finale indimenticabile del secondo atto, sfregiato da un utilizzo penale di Unity che ha portato di peso il mondo di gioco verso le tre dimensioni, mantiene tutta la bellezza enigmistica e narrativa dei predecessori, regalando scorci di rara bellezza evocativa sempre egregiamente dipinti da Sokal. L’importante è però riscoprire i due capitoli originali, assolutamente conclusivi, ormai venduti a pochi euro su Steam oppure su Switch, acquistabili in blocco. Un percorso formativo come un’Interrail post-maturità.
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