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SUPERHOT è un violentissimo orgasmo virtuale

Il tempo diventa un fluido, in SUPERHOT. Si è immersi tra le sue molecole, se ne percepisce la densità. Muoversi al suo interno propaga onde che animano una reazione a catena prevedibile e furiosa, come una mossa improvvisa, incauta, nella tensione di uno stallo alla messicana. Rompere l’equilibrio, giocare con le lancette di un orologio per poi notarne estasiati l’effetto su ciò che ci circonda. È qui che l’opera di Piotr Iwanicki diventa paradigma dell’azione più pura, quella che fin da bambini cerchiamo di emulare dopo aver visto un ipercinetico blockbuster, quella che i videogiochi hanno sempre cercato di replicare, magari andandoci vicini, senza mai però colpire a morte il bersaglio. Se il bullet time di Max Payne è una soluzione coreografica ed estemporanea, il controllo del tempo attraverso il movimento di SUPERHOT è la reale immedesimazione nel sicario perfetto, quello che conosce già il suo obiettivo, quello che vede le opportunità prima che si manifestino, sempre un proiettile avanti agli altri. Lo stesso trial & error non è una frustrante reiterazione del fallimento, ma preparazione mentale che porta a scartare tutte le possibilità tranne quella che culminerà con un lavoro perfetto. Meditazione e disciplina che portano alla preveggenza. Si ha coscienza del proprio corpo virtuale, di come ad esso siano collegati i fili che muovono l’agguato, un avveniristico teatro dei burattini.

Tirare quei fili invisibili è una libidine, un’infusione di adrenalina, un brivido violento. Schivare un proiettile, sentirlo sibilare tra cuffia e orecchio, velocissimo, per poi fermarci proprio davanti al nostro assalitore, rubandogli lo scorrere del tempo e assestandogli un pugno che manda in frantumi il suo cranio poligonale; la pistola vola in aria, lentamente, disegnando un arco talmente morbido da permetterci di prenderla al volo e voltarci, giusto per vedere un altro killer arrivare verso di noi, di corsa. Il grilletto scatta sputando la sua sentenza, permettendoci di osservarne il viaggio al ritmo di una camminata spavalda, sicura, che rallenta tutto alla sua cadenza. La scenografia che si piega e muta ai voleri dell’attore principale, del primo ballerino. Un flash mob sincopato su una traccia scratchata dall’analogico, illuminato da uno sfondo asettico, nudo di un Unity minimale, pronto a scintillare di schegge rosse, residui cristallizzati di nemici apparentemente deumanizzati per lasciare spazio al puro gesto tecnico, senza che altre emozioni possano contaminare l’ambiente. Apparentemente, perché c’è poi tutta una narrazione tra il metareferenziale e il cyberpunk distopico, sfiziosissima, cerebralmente stimolante, che lega azioni e situazioni dotate ugualmente di vita propria, indipendenti come i singoli livelli di un arcade.

Un gameplay solido come metallo e allo stesso tempo liquido, scorrevole. Come mercurio, tossico al contatto, capace di venire assorbito immediatamente dalla pelle ed entrare in circolo, fino al cervello, subendo i suoi effetti stupefacenti per almeno 2/3 ore, senza pause, per poi venire defibrillati dai titoli di coda. Ricadendo poi in tentazione dopo aver rivisto John Wick per l’ennesima volta, naturalmente, per puro spirito di emulazione, o per completare tutte le sfide che, a dire il vero, auto-limitano lo spettacolo originale, costringendolo in spazi espressivi troppo sacrificati che ne ingabbiano la bellezza. È un titolo che ha il coraggio di spegnersi al culmine della sua escalation, giusto in tempo per far riprendere fiato e scongiurare danni da apnea prolugata, trasmettendo una sensazione di compiutezza difficile da raggiungere anche per opere ben più corpose e strutturate. Un prototipo straordinario, un action che viene direttamente dal futuro del genere, o per lo meno da uno di quelli possibili. Un’opera da esporre, declamandone le meraviglie sparatoria dopo sparatoria, rissa dopo rissa, prosaicamente, figata clamorosa dopo figata clamorosa. Perché alla fine SUPERHOT resta un cafone in smoking, che con l’eleganza del suo abito non riesce a celare il suo fine ultimo: esaltare il giocatore fino all’orgasmo ludico più travolgente. Uno degli esercizi di stile, tecnica e gameplay più spettacolari degli ultimi anni, costretto a non invecchiare, a rimanere punto di riferimento per un certo modo di intendere l’azione armata virtuale, ancora troppo futuristico per essere di ispirazione a qualche major.

Stefano Calzati

Petrolhead di The Games Machine, cummenda di Gameromancer e tuttofare per il Tanzen. Scrivere di videogiochi per me è un atto d'amore dove il fattore emotivo batte quello tecnico.

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