Non ho mai… è al suo secondo episodio: pensarci mi rende felice e al tempo stesso mi spaventa. Forse è per questo, allora, che quando ho affrontato l’esperienza videoludica di cui parleremo oggi, e il baule di emozioni annesso, non ho avuto altro pensiero se non l’idea martellante che di Last Day Of June valesse la pena dire qualcosa, esternare ciò che mi aveva lasciato dentro con una grazia indescrivibile.
Sentivo anzitutto il bisogno di non sentirmi solo, in balia delle emozioni che il gioco mi aveva lasciato, ma soprattutto sapevo che questa era l’occasione perfetta, ma perfetta davvero, di aprire completamente a voi lettori l’idea che c’è dietro a Non ho mai… più di quanto non avessi già potuto fare col primo episodio. Questo scritto, difatti, si reggerà su di voi. Troverà senso e fondamento nella condivisione di esperienze, nel volermi raccontare – da parte vostra – quel carico emotivo dato da chissà quale titolo e di cui magari troverete qualche comunanza qui, nelle mie parole. Perché se è vero che le riflessioni di oggi nasceranno dalla toccante storia di Carl e June, è altrettanto vero che molte delle mie parole saranno dettate dal mio (quasi) totale digiuno da quel tipo di esperienze lì, e dal mio voler crescere grazie al confronto che – chissà – magari arriverà.
Last Day of June, qualcuno tra voi lo ricorderà, fu sviluppato dall’italiana software house Ovosonico e pubblicato nel lontano 2017. Ricordo piuttosto bene il periodo che seguì la sua uscita, e la risposta assolutamente entusiastica – tanto da parte della critica, quanto del pubblico – che ancora oggi risuona in un eco piuttosto persistente. Ciò che ricordo di più era la mia curiosità verso un titolo che, volente o nolente, era riuscito a colpirmi ben più di altre produzioni (story driven e prettamente indie), precedenti o – avrei poi constatato – anche future. Avevo, insomma, forte desiderio di giocare quel prodotto made in Italy. Adoravo l’assetto estetico: le immagini che avevo visto mi garantivano una lettura perfettamente chiara e limpida di tutto ciò che quei volti, solo apparentemente inespressivi, volessero comunicare. Successivamente, avrei anche scoperto che la colonna sonora era curata da un artista cui avrei dedicato, col tempo, la giusta attenzione: Steven Wilson.
Purtroppo, o forse più per fortuna, proprio il tempo ha fatto sì che giocassi per la prima volta Last Day Of June solo domenica scorsa. E ripensandoci ora, non poteva esserci momento migliore, sia per la mia maturazione nei confronti dell’opera di partenza – e cioè quella struggente Drive Home di Wilson, da cui il gioco trae l’incipit narrativo (opportunamente rivisto ed esteso nella narrazione) – sia per la mia maturazione come videogiocatore, ben più aperto ad esperienze varie per genere e racconto, e che guarda ormai al videogioco non più come un ciclone da cui lasciarsi prendere in balia – a furia di “proviamo questo, quello e quest’altro e vediamo come va” e spinto sì da passione, ma privo di una bussola con cui orientarsi – bensì come una galleria d’arte in cui è saggio voler vedere ogni dipinto, ma con la dovuta attenzione, il dovuto interesse, con la presa di coscienza che ogni quadro è a sé e che ognuno di essi è predisposto a restituire a chi guarda sempre qualcosa di diverso. Last Day Of June è uno di quei quadri, e sono felice di averne goduto con occhi diversi.
Last Day Of June, come accennato poc’anzi, getta le basi della sua storia nella breve narrazione (supportata dal notevole video musicale) presente nei versi di Drive Home, brano di S. Wilson tratto dall’LP The Raven That Refused To Sing (cui brano omonimo è, tra l’altro, colonna portante della soundtrack del gioco). Drive Home ci racconta di quest’uomo che, a seguito di un incidente d’auto, perde la donna amata che sedeva sul sedile passeggero, e si ritrova paralizzato dal busto in giù. L’uomo fa di tutto per cancellare i ricordi di quel tragico avvenimento, quasi sforzandosi di dimenticare l’amore che provava per la propria metà, ma un confronto coi propri riflessi e con ciò che le acque limpide di un lago fanno riemergere lo costringerà a ricordare, a soffrire, ma – finalmente – ad accettare.
Capirete, a questo punto, quante similitudini ci siano: Carl e June, l’incidente, la disperazione di lui, il chiedersi “how could she leave?” ed i disperati tentativi di rispondere a questa domanda.
“Pause without end,
a moment in time suspends.”
Carl, per le circa quattro ore di gioco che vivremo con lui, rivivrà continuamente quell’ultimo giorno, di fatto riscrivendo più e più volte i suoi ricordi che, però, impattano inevitabilmente con la realtà delle cose, ad ogni brusco risveglio. L’espediente narrativo della riscrittura dei suoi ricordi (messo in scena con un creativo quanto delizioso escamotage artistico, che tra l’altro trova un suo senso all’interno della trama stessa su cui provvederò a non spoilerare più del dovuto) ci fornisce un passepartout per accedere alle vite di questa piccola schiera di comprimari che ruotano attorno all’universo della coppia protagonista. Avremo il bambino, la migliore amica, il cacciatore, l’anziano. Ognuno di loro avrà una sua importanza nella storia che Carl cerca disperatamente di ridipingere, e sarà dunque importante, nelle fasi di gameplay a loro dedicate, giocare con i loro bisogni, obiettivi, mezzi e strumenti per far sì che i pezzi del puzzle non solo prendano il loro giusto posto, ma addirittura si plasmino all’occorrenza per garantirci un disegno tutto nuovo: il disegno che sogniamo di vedere.
È proprio dai personaggi comprimari e dalle loro fasi di gameplay che vorrei partire per raccontarvi il mio approccio a Last Day Of June, non più percepito solo come storia interattiva, ma finalmente affrontato anche nella sua componente propriamente ludica. Difatti, l’immagine che ho richiamato prima circa il puzzle ed i suoi pezzi calza a pennello con il genere in cui la produzione di Ovosonico va ad inserirsi, e cioè quello di un’avventura single player con puzzle ambientali, per lo più basati, tra l’altro, sul semplice concetto del dai al personaggio giusto lo strumento giusto, al momento giusto.
Arrivati a questo punto, la definizione del genere entro cui LDOJ rientra mi porta ad uno dei primi e più sinceri spunti di riflessione sul titolo: non mi aspettavo di divertirmi. Follia pura, direte voi. Ignoranza totale, dico io. Ignoranza, sì, poiché quanto vi dicevo poc’anzi era vero: io, di Last Day Of June, conoscevo solo qualche immagine. Quando ho dunque scoperto che quelle quattro ore di gioco che mi aspettavano non sarebbero state di pura e costante tensione emotiva, ma che addirittura mi avrebbero intrattenuto, divertito e persino rilassato durante quella domenica pomeriggio, non ho potuto in cuor mio non rallegrarmene. Non tanto perché avessi strettamente bisogno di essere intrattenuto da una componente più ludica, quanto più per il fatto che adoravo averla scoperta con una tale sorpresa da parte mia.
Il gioco riusciva così a distendermi, a raccontarmi con dolcezza e coi giusti tempi le parentesi più emotivamente coinvolgenti della narrazione, dai ricordi di Carl di quando June c’era ancora fino alle singole storie degli abitanti della cittadina, interessanti e descritte sotto forma di scatti fotografici da trovare e raccogliere in giro per una mappa piccolina ma dai colori vividi, dalla struttura subito chiara e che non accennava a diminuire l’interesse nell’esplorarla man mano che si procedeva lungo il gioco, anche e soprattutto per via di sezioni di backtracking (elemento predominante nel gioco, ma ben contestualizzato negli schemi narrativi) che, nella realtà dei fatti, portavano sempre a qualche interessante novità o qualche nuova strada.
Ecco che già qui il concetto stesso del Non ho mai…, che tanto mi sta a cuore, prende forma e inizia a concretizzarsi: non avevo mai provato un’esperienza videoludica simile; un viaggio durato un pomeriggio, croce e delizia emotive, dolcezza e dolore come se in quella domenica pomeriggio non esistesse altro. Non mi ero mai approcciato al medium col solo obiettivo di godermi una bella storia, sentirmene parte in un modo che altre forme d’arte non riuscivano a garantirmi con la medesima intensità. Non ho mai scelto di giocare a un gioco solo perché volevo confrontarmi coi miei sentimenti, scoprendo poi dopo che mi sarei anche divertito.
“How could she leave?
Release all your guilt and breathe.”
Si coglie, dunque, il punto? Last Day Of June è stata la prima opera, nel mio percorso videoludico, che ho scelto di giocare appositamente per tutto ciò che di norma sarebbe stato sì presente nelle mie scelte videoludiche, ma collaterale (o quasi). Coi videogiochi, insomma, c’ho pianto, ho scoperto storie meravigliose, personaggi che ancora porto nel cuore ed ambientazioni tra le più ispirate in cui possa mai essermi imbattuto; eppure, mai ho scelto di giocare ad un gioco perché sapevo che una di queste componenti era lì espressamente per scatenare qualcosa nella mia emotività. Giocavo per l’esperienza, e l’emozione ne era una parte rientrante. Quella domenica ho giocato per emozionarmi, per il viaggio, per la storia narrata dolcemente, per le musiche che conoscevo e che pur mi scioglievano l’anima nelle loro re-interpretazioni; solo dopo è arrivato il divertimento, la voglia di una nuova run, i pensieri su “e quel collezionabile come lo prendo?”. Ho messo in secondo piano – riferendomi sempre al contesto della mia carriera videoludica – gli aspetti storicamente più tipici del medium, saggiando cos’altro, di fatto, esso possa essere.
A ripensare adesso a quando nei meandri di internet mi capitava il let’s play di The Vanishing Of Ethan Carter, o l’analisi di What Remains of Edith Finch, mi viene così tanto da sorridere. No, non tanto per il fatto che – come starete già (giustamente) pensando – da bravo fesso li guardavo/ne sentivo discutere piuttosto che giocarli direttamente, quanto più per la mia percezione di quei giochi come di un’esperienza collettiva, corale, fatta di continue botte e risposte tra chi giocava e chi guardava, nel mentre ci si chiedeva “e adesso cos’altro salta fuori?”, o magari “dove stiamo andando a parare?”. In realtà, a dirla tutta, incoraggio ancora questa visione di un’esperienza videoludica che sia collettiva e condivisa. Può dare tanto, e ha dato tanto a me anche solo come spettatore; ma, aggiungo, è pur vero che l’aver provato un’esperienza simile nella mia più completa intimità m’ha certamente aperto gli occhi (quegli occhi diversi, e che diversi sempre diventano, cui accennavo sopra) su un modo nuovo – per me – di usufruire di quel genere di prodotti.
“Give up your pain,
hold up your head again.”
Ed io lo so, lo so bene che ciò che è nuovo per me è la base per voi. Ciò che vi ho detto risulterà scontato, probabilmente ai limiti della banalità. Ma va bene così, ed è questo il punto. Perché questo è il mio non ho mai… al vostro ho sempre fatto…. È il modo in cui cerco il vostro parere, la vostra esperienza, il vostro tempo, le emozioni che – se vorrete – condividerete con me.
Prima di lasciarvi la parola, però, c’è un ultimo punto che ritengo sarebbe importante da affrontare e vorrei mi seguiste in quest’ultima riflessione, tutta dedicata alla musica che sì, ha un suo ruolo anche in questo secondo episodio della rubrica. Non sarà sempre così, di questo sono più che certo, ma per ora godiamocela.
Di Last Day of June abbiamo ormai appurato l’eccelsa qualità, eppure sento che un’ulteriore lode, cui segue una riflessione, va comunque tessuta: il titolo di Ovosonico, infatti, è uno dei rari videogiochi (ma forse azzarderei anche a dire che sia l’unico) che traggono ispirazione dall’immaginario posto in essere da un brano musicale.
I videogiochi con la musica ci vanno a braccetto, questo lo sappiamo bene: essa può esserne protagonista per concetto (mi viene in mente proprio quel Brutal Legend cui accennammo nell’episodio scorso), o nel gameplay (e qui la lista di rhythm game si sprecherebbe); ancora, la musica può contestualizzare, suggerire, spiccare sul resto della produzione. Quale può essere, dunque, il prossimo step?
“You need to clear away
all the jetsam in your brain…”
Sembrerà scontato, ma è bene avere coscienza che, per esempio, le letterature classiche hanno trovato terreno fertile nel mondo videoludico, tra un Dante’s Inferno che attinge all’opera maestra del Sommo Poeta, i continui riferimenti a Lovecraft nel panorama videoludico odierno ed un’attenzione profonda rivolta allo Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle. Trovo che, ad oggi, l’industria videoludica sia matura a sufficienza per cogliere sabbia dorata anche da altri lidi, e la musica potrebbe essere senz’altro uno di questi.
Vorrei lanciarmi, se me lo permettete e se siete ancora con me, in qualche esempio che sarà sicuramente dettato da un sognare ad occhi aperti, ma che potrebbe regalarci ben più di qualche sorriso al sol pensiero: mi piace infatti immaginare il mondo incantato e psichedelico che i King Crimson raccontavano in The Court of The Crimson King, percorribile ed esplorabile in lungo e in largo mentre incedo in un’avventura scritta appositamente per omaggiare ed incensare quei versi. Intorno a me si stagliano le ombre della marcia funebre della Regina Nera e comincia il torneo per allietare il Re Cremisi. Ancora, un viaggio interattivo che ripercorra i passi di Gael nella New York fredda e sconosciuta di The Lamb Lies Down on Broadway, dei Genesis. O magari uno story-driven su Quadrophenia dei The Who, che già si era prestato ottimamente ad un altro medium: il cinema.
Infinite soluzioni per infinite storie, per infinite possibilità.
“..and face the truth.”
Ma c’è un ultimo esempio, però, che mi preme fare. Un ultimo esempio che non può non nascere da un momento di riflessione su di una data passata poco meno di un mese fa, e che da trent’anni è motivo di raccoglimento: il 23 maggio. Un esempio dalle innumerevoli potenzialità in ambito didattico ed educativo. Penso, infatti, ad un prodotto videoludico che si ispiri a quella vecchia canzone di Giorgio Faletti, Signor Tenente. Immaginare un’esperienza interattiva che ci metta nei panni di quel giovane ventenne in divisa che fa il turno al chilometro 41 della provinciale, in servizio, con l’autovelox montato. Immagino un’esperienza breve, senza troppe possibilità di movimento, con giusto l’interazione necessaria ad aprire il cassettino sotto al cruscotto della volante, dove sono riposti alcuni documenti che ben descrivono la situazione di quegli anni. Magari qualche contatto radio, una chiacchiera col collega (virtuale), il passare di un tempo indefinito, e poi le notizie che arrivano: prima Capaci, poi Via D’Amelio. E noi giocatori che assistiamo a tutto in un modo che – per altre vie – non ci sarebbe mai concesso. Un modo che, seppur nella tecnologica finzione, potrebbe fornirci prospettive diverse riguardo eventi che vanno osservati sotto ogni punto di vista possibile, per comprenderne e ricordarne la tragicità.
Un po’ come avvenne con Progetto Ustica – e qui prendo coscienza che ci allontaniamo dal focus principale sulla correlazione brani-videogiochi, tuttavia sono certo dell’utilità di questo rimando che pur sfocia nell’off topic– che fu sviluppato dal team italiano IV Productions dopo una raccolta fondi e distribuito gratuitamente per Oculus Rift, con l’obiettivo di ricreare ciò che avvenne in quelle ore sul volo IH870, informando i giocatori e contestualmente garantendo loro un punto di vista quasi intimistico con quei tragici avvenimenti, che trovano così ora un ulteriore modo per essere ricordati. La loro intuizione, da cui ho preso a piene mani nel mio immaginare quanto sopra, è ancora oggi degna di nota e merito.
Conclusosi questo mio volo pindarico ed essendomi già dilungato troppo, mi fermo qui, felice se qualcuna delle mie parole avrà offerto spunto di riflessione o dibattito. Sognare con la musica è cosa semplice, ben più difficile – ma altrettanto appagante – è realizzare quanto essa possa offrire. I ragazzi di Ovosonico, però, sono riusciti a pieno a comprendere ed interiorizzare il materiale artistico con cui erano entrati in contatto, e verso cui hanno dimostrato una passione ed un’empatia smisurate. Tutti ingredienti, questi, che ci portano ancora oggi a parlare di Last Day Of June come di un titolo che oserei definire gemma rara, e dunque ben più preziosa di quanto non potremmo noi stessi intuire. Io, nel mio piccolo, ringrazio solo di averla avuta tra le mani, conscio di quanto valore mi abbia restituito.
So, Drive Home.
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