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Il melodramma nei videogiochi e nella cultura orientale

Se questo articolo fosse la sceneggiatura di un melodramma, alla fine di ogni paragrafo dovreste fare un respiro profondo e guardare il vuoto innanzi a voi per almeno un minuto buono, possibilmente sfoggiando uno sguardo corrucciato e dolente. Vi sembrerebbe strano? Certamente: il rapporto degli Occidentali col melodramma non è intenso e naturale come quello di molte popolazioni dell’Estremo Oriente. Telenovelas e soap opera sono per noi sottoprodotti di infima qualità che pongono un’enfasi esagerata ed inelegante sui sentimenti più melensi.

I videogiocatori invece sono, nella maggior parte dei casi, naturalmente inclini ad amare la cultura orientale, specialmente giapponese. Ragion per cui, più dei comuni mortali, hanno avuto occasione di imbattersi nel melodramma che spesso sconfina nel nostro medium preferito.

“Lupi, non cani”, Metal Gear Solid

“La guerra è cambiata”

Kojima ha sempre infuso di melodramma i capitoli principali della sua serie più famosa, Metal Gear. Il soliloquio sulla guerra con cui si apre il quarto capitolo, storicamente considerato quello narrativamente più prolisso, esemplifica in maniera magistrale la solenne drammaticità con cui vengono veicolate alcune tra le idee più perspicaci e futuristiche del senpai giapponese. Appena giunto in una cruenta zona di guerra medio-orientale, Old Snake ci spiega che la guerra è cambiata: da atto eccezionale, fuori dall’ordinario, è passata all’essere una triste routine, necessaria a nutrire un’industria imponente che sforna eserciti privati fatti di soldati succubi, emotivamente e fisicamente, delle nanomacchine iniettate nei loro corpi. Seppur sospeso tra fantascienza e fanta-politica, questo ragionamento kojimiano poggia su fondamenta solide e realistiche: la guerra è un business. Tuttavia, le implicazioni di questa affermazione sono ingigantite e portate all’estremo, con lo scopo di creare una realtà in cui ogni sentimento, poderosamente amplificato, viene vivisezionato attraverso cut-scene consapevolmente eccessive e, per questo, leggendarie.

Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots

“Il nostro compito non è creare contenuto, ma dare contesto”

Sons of Liberty, il secondo capitolo della Metal Gear Saga, è ancora oggi, a quasi venti anni dalla sua uscita, un oggetto controverso. Sebbene col tempo molti scettici si siano ricreduti, rimane una bestia molto difficile da incasellare nei canoni standard della critica e dei gusti del grande pubblico. A valle del consolidamento dei social media e della conseguente valorizzazione dell’informazione come strumento di controllo equiparabile, ad esempio, al denaro, le elucubrazioni mentali di Kojima che, secondo i detrattori, funestano la parte avanzata del gioco hanno assunto una valenza semplicemente indiscutibile.

“Nel mondo digitale odierno, informazioni triviali si accumulano ogni secondo”. Infatti, pur pescando nel consueto mare della fanta-politica, il visionario giapponese ha messo nero su bianco, e con una chiarezza strabiliante, fatti che si sarebbero avverati di lì a pochi anni: in altre parole, i prolissi sproloqui su gruppi di potere occulto che brandiscono l’informazione come una frusta sull’opinione pubblica hanno trovato appiglio nella nostra realtà.

Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty

Tuttavia, non tutta la narrativa di Sons of Liberty verte sui temi citati poc’anzi. Molte parole (ma proprio tante) vengono spese dal e sul protagonista inaspettato del gioco, Raiden. Da sbarbatello a ninja cyborg, la sua parabola (sviscerata in ogni sua sfumatura qui) dice molto su cosa sia il melodramma secondo Kojima. L’iniziale piattezza bidimensionale del suo carattere (“La missione viene prima di tutto!”) si sgretola man mano che Kojima snocciola aneddoti sulla sua vita. Nato sul campo di battaglia, addestrato alle armi fin da bambino, programmato all’assassinio: tutto quanto ci viene detto su Raiden è esasperato. Le sue emozioni vengono micro-analizzate in infiniti minuti di conversazioni via codec. Tra i tanti interlocutori che si alternano, ce n’è uno in particolare che, per andare al cuore del melodramma, deve essere citato: Rose.

Rose, Meatl Gear Solid 2: Sons of Liberty

“Jack, ti ricordi che giorno è oggi?”

Una delle tante piccole gemme di game design dei primi Metal Gear (esclusi i primissimi due capitoli, ovviamente), c’è la gestione dei salvataggi manuali. Invece che dirigersi in un menu, bisogna chiamare un personaggio di supporto deputato a registrare i nostri progressi. Nel caso di Raiden, si tratta della fidanzata Rose. Tuttavia, quest’ultima non si limita a gestire l’accesso alla schermata di salvataggio, bensì cerca di ci coinvolgere il protagonista in conversazioni sulla loro relazione. A questo punto, e qui si vede l’estro del designer giapponese, sta a noi giocatori decidere quanto vogliamo ascoltare: iniziando a chiamare la frequenza di Rose sul codec, pur senza voler salvare, è possibile conoscere molte informazioni interessanti del rapporto con Raiden, come ad esempio gli scatti d’ira da PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) oppure i battibecchi più sereni e leggeri.

Nel dettaglio quasi maniacale che viene speso per quest’ultimi si intravede l’eccesso nella scrittura prolissa di Kojima. Questo fiume di parole è tuttavia elemento essenziale per veicolare una ricetta di melodramma che a volte, come visto nei due casi citati nei paragrafi precedenti, sa prestarsi anche a temi non strettamente legati alla sfera dei sentimenti, sconfindo nella socio-politica. Nel caso di Raiden e Rose, a parte alcuni accenni al tema della violenza domestica e del trauma, l’attenzione rimane per buona parte del gioco (eccetto la fine) su argomenti degni di una coppia di quattordicenni protagonisti di un anime di terza categoria. Eppure, senza questi momenti, il gioco non sarebbe quello che è ovvero un punto di equilibrio quasi sempre perfetto tra temi impegnati e non, tra alti e bassi di scrittura, tra epica e melodramma.

Raiden e Rose, Metal Gear Solid 2

Menzione d’onore: Yakuza

La serie Yakuza è una miscela sapiente di storie verosimili e momenti surreali. Il suo stile, definitosi molto chiaramente attraverso ben otto capitoli principali, mischia elementi da noir ad eccessi tipicamente giapponesi. Il codice della Yakuza, ovvero le regole non scritte cui obbediscono tutti i personaggi di cui facciamo conoscenza nei giochi, è un’entità granitica che, pur regolamentando la zona grigia dell’illegalità, distingue in modo netto cosa è lecito fare e cosa no, come se ogni situazione fosse bianca o nera. Questo provoca non pochi grattacapi ai suoi ferventi seguaci, i quali, pur essendo inequivocabilmente votati alla vita criminale, hanno esigenza di mantenere una morale ferrea. Il protagonista principale della serie, Kazuma Kiryu (uomo ideale), si strugge spesso su come agire e quali decisioni prendere. Tuttavia non è l’indecisione a turbarlo, bensì il sapere esattamente cosa gli è richiesto di fare. Pur nella sua intrinseca natura melodrammatica, questa rigidezza morale è sapientemente usata dagli autori per fare della comicità.

“Tu sarai sempre il mio bro!!” (Yakuza 5)

Negli Yakuza non è impossibile ascoltare dieci minuti di dialoghi degni di un gran film noir d’autore seguiti poi da frasi tipo “Tu sarai sempre il mio bro!!” (esclamazione pronunciata da Saejima Taiga in Yakuza 5, ndr). Questo intreccio fra serio e assurdo è ricorrente nei videogiochi giapponesi, e spesso, ad addolcire questo impasto azzardato, c’è proprio il melodramma, il quale ci tiene emotivamente coinvolti anche quando subentrano elementi sopra le righe. Con questo stratagemma, tante storie, su amore, politica, amicizia, realtà sociale, sono state raccontate al grande pubblico occidentale. D’altronde, il melodramma non è  mica solo telenovelas e soap opera.

gmg215

Videogiocatrice a vita, fin dal giorno in cui Psycho Mantis ha provato a controllarmi la mente.

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