Non si può dire che quella parte del mercato videoludico che orbita attorno alla realtà virtuale, e in generale la stessa tecnologia dei visori che a fasi alterne rinasce per poi ricadere apparentemente nell’oblio, negli ultimi tempi non ci abbia riservato grosse e gradite sorprese.
L’emancipazione del gioco in VR, che anela ad affiancare i cugini in flat ha forse raggiunto un picco con l’uscita del capolavoro di Valve, Half Life Alyx, ma è chiaro a tutti coloro che conoscono il medium che ancora siamo ben lontani da quella rivoluzione copernicana promessa da decenni da chi sostiene che il gioco proiettato su monitor stia per diventare obsoleto.
Vuoi per il costo dei dispositivi, talvolta proibitivo se si pensa all’equipaggiamento necessario in ambito PC, vuoi per il motion sickness che colpisce parte dell’utenza, vuoi per la mancanza di alternative console, salvo ovviamente la proposta di Sony (in procinto peraltro di ricevere un interessante upgrade next-gen con l’imminente PS VR2) e vuoi infine per il fattore immediatezza indiscutibilmente minore quando si tratta di indossare un visore.
Gli ostacoli sopra menzionati frenano dunque il proliferare dei tripla A (salvo casi eccezionali) e, per questa ragione, il parco titoli VR è costellato di esperienze il più delle volte interessanti ma brevi, supportate da un comparto tecnico sovente votato al compromesso. Di fronte allo scenario attuale, l’utenza è spesso divisa tra chi sostiene che quelli descritti siano i tratti perfetti per un titolo in realtà virtuale e chi invece desidera un maggior coraggio da parte delle case di sviluppo nel proporre titoli che possano essere paragonabili alle grandi produzioni da giocare con joypad o mouse+tastiera.
Quale potrebbe essere allora il giusto compromesso per chi vuol godere di esperienze lunghe e immersive senza dover aspettare il prossimo Alyx o Lone Echo? Esiste una particolare categoria di titoli, frutto di un lavoro di ibridazione a tratti sperimentale volta a sovrapporre entrambi gli approcci, il cui intento dichiaratamente quello di offrire la medesima esperienza sia su schermo che attraverso un visore.
Tralasciando per adesso l’universo delle mod VR – spesso fenomenali, a onor del vero – e restando sul piano dell’offerta ludica ufficiale delle stesse case di sviluppo, abbiamo osservato che il più delle volte l’opzione VR viene pubblicata come aggiornamento gratuito postumo o come vero e proprio porting (venduto separatamente) di titoli fruibili anche in maniera tradizionale.
Skyrim VR, ad esempio, è la riproposizione standalone in terza dimensione di un classico del 2011: il GDR open world di casa Bethesda, forte di una maestosità senza pari in termini di ambienti e di longevità, è in grado di far impallidire, in quanto a contenuti, gran parte della concorrenza VR. Fattori di certo encomiabili che però non rappresentano necessariamente parametri assoluti quando si parla di realtà virtuale: sebbene, infatti, sia facile riconoscere il grado di sfida affrontato dagli sviluppatori nel traslare un titolo particolarmente datato in un contesto tecnologico del tutto diverso da quello pensato originariamente, si poteva forse chiedere qualcosa in più in termini di meccaniche, non sempre riuscite.
Ci riferiamo ad esempio ad alcune opzioni pensate per l’utilizzo dei visori (comunque disattivabili) come il nuoto immersivo eseguito con le braccia, quasi sempre fallace, o l’utilizzo dello scudo attraverso il posizionamento del braccio, il cui risultato è spesso strampalato e poco bilanciato con i movimenti della testa.
Hello Games ci propone un altro fulgido esempio di upgrade postumo, No Man’s Sky, che, oltre a vantare un numero di aggiornamenti gratuiti da guinness dei primati, si ripropone, anni dopo dalla sua uscita come titolo VR. Le meccaniche restano le stesse, e l’impianto videoludico, già affascinante nella sua versione base, raggiunge vette inaspettate grazie all’immersione concessa dai visori.
Eppure una migliore ottimizzazione per i pc High-End, muniti peraltro di DLSS, sarebbe stata cosa gradita dall’utenza master race, che invece si ritrova per le mani niente di più che lo stesso gioco con settaggi medi, fastidiosi problemi di popup al caricamento e un aliasing prepotentemente presente nell’immagine restituita.
Tutti esperimenti riusciti a metà, quindi? A dare una risposta ci pensa EA Motive che, con il suo Star Wars Squadrons, regala ai fan delle guerre stellari un’esperienza che in flat risulta godibile (in pieno stile X-Wing vs TIE Fighter) ma che in VR è in grado di mandare facilmente in brodo di giuggiole chiunque sia cresciuto augurando al prossimo la vicinanza di un certo “campo mistico”.
Pur rientrando tra quei titoli difficili da digerire se si è particolarmente affetti da motion sickness, il simulatore di dogfight spaziale, forte anche di un comparto tecnico garantito dal Frostbite di EA, restituisce al pilota un’esperienza strepitosa e ben ottimizzata. L’offerta di Squadrons si compone di una forte componente multiplayer e, per gli irriducibili del single player, di una campagna dalla trama non memorabile ma certamente ben scritta e ottimamente incastonata nell’universo canonico di Star Wars.
Se si dispone infine di un buon volante, come non menzionare le sensazioni restituite dalla possibilità di gareggiare “veramente” in pista grazie a titoli quali Project Cars 2, a patto comunque di avere un hardware ben carrozzato, pena una buona dose di motion sickness alla prima curva ripida.
Sembra dunque che il mercato tenti di tanto in tanto di aggirare i problemi di ritorno di investimenti con progetti in realtà virtuale, proponendo offerte ibride che talvolta risultano grezze e poco ottimizzate ma che forse rappresentano il giusto compromesso per chi non apprezza i titoli pensati esclusivamente per la VR, spesso troppo vicini agli standard di una mera demo tecnica.
Demo tecniche o versioni standalone?
Capiamo che si tratti di una sfida notevole per le case di sviluppo che, nel tentativo di massimizzare il numero di copie vendute a un’utenza in larga parte sprovvista di dispositivi appositi, spesso abbandonano l’idea di dedicare tempo e denaro allo sviluppo di titoli pensati per VR: basti pensare al parziale impegno di Capcom con Resident Evil 7 (disponibile in VR per la sola PS4) e alla mancata occasione di Resident Evil 8 (assente ingiustificato) che, con l’implementazione di una buona fisica e con il supporto di hardware high end, avrebbero potuto magari competere nel medesimo campionato di Alyx, con il vantaggio tattico di essere allo stesso tempo fruibili anche in modo tradizionale.
A questo punto ci si chiede però se l’approccio ibrido possa in qualche modo rivelarsi utile all’evoluzione di questa variante del medium: la risposta è quasi certamente affermativa, se si guarda al graduale sdoganamento della VR in produzioni che superino gli standard del genere di appartenenza; tuttavia, per un concreto balzo creativo e produttivo, dovremo attendere probabilmente il prossimo scossone in arrivo (PS VR2), sul quale ripongono le speranze tutti i fan dei caschetti per realtà virtuale, desiderosi non solo di mettere le mani sul nuovo feticcio ma anche di veder crescere l’interesse generale dell’utenza, così da indurre gli studi di sviluppo a puntare maggiormente su questo mondo così particolare e interessante.
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