Pochi giorni ho avuto modo di giocare ad un meraviglioso indie, Return of the Obra Dinn, della cui recensione vi ho parlato qui. Tale è stata la meraviglia per un gioco tanto minuzioso, originale ed appagante, che mi è sembrato quanto mai obbligatorio recuperare la prima creazione del suo autore, Lucas Pope. Parliamo dunque di Papers, please, uscito nell’ormai lontano agosto del 2013.
Un “Dystopian Document Thriller” recita il sottotitolo del gioco: un thriller distopico basato sui documenti. In maniera quanto mai inaspettata e sovversivamente originale, questa descrizione calza a pennello. Dimenticate i canoni ludici convenzionali e potreste trovarvi di fronte ad una sorpresa.
Dimenticate i canoni ludici convenzionali e potreste trovarvi di fronte ad una sorpresa.
Siamo nei panni di un ispettore dell’ufficio di immigrazione dello stato pseudo sovietico di Arstotzka. Ogni giorno, rinchiusi nel nostro gabbiotto, esaminiamo i documenti delle persone che vogliono entrare nel paese e, se conformi in tutto e per tutto alle direttive, mettiamo lo stampo di approvazione. Altrimenti li rigettiamo. Il cuore del gameplay si esaurisce nella schermata che raffigura le persone al di la del vetro ed il tavolo sul quale trasciniamo le scartoffie per esaminarle.
Siamo nei panni di un ispettore dell’ufficio di immigrazione di Arstotzka.
Potrebbe sembrare un’idea folle per un gioco: come è possibile capitalizzare in termini ludico-narrativi a partire da uno scenario tanto limitato?
La risposta a questa domanda appare quanto mai scontata alla luce dello showcase di abilità e raffinatezza che è Return of the Obra Dinn: Lucas Pope è un autore di videogiochi sopraffino, la cui volontà di sperimentare ha campo libero nella dimensione ridotta di una produzione indie. Minimalista, per giunta.
Il gioco è diviso in giornate lavorative, ciascuna dura il tempo effettivo di sei minuti. Maggiori sono le persone correttamente accettate o respinte, maggiore è il nostro stipendio. Due errori giornalieri sono perdonati tramite semplice ammonizione, a partire dal terzo scatta il decurtamento dello stipendio. A fine giornata si riceve la paga, che deve essere sufficiente per provvedere alla nostra famiglia: affitto, cibo, medicine e riscaldamento. Altrimenti nostro figlio o nostro zio moriranno di fame, malattia o freddo.
Maggiori sono le persone correttamente accettate o respinte, maggiore è il nostro stipendio.
Se il bilancio è in debito, la partita finisce: Arstotzka. non tollera debitori. Il sistema di salvataggio permette un checkpoint ad inizio di ogni giornata: ve ne sono venti in tutto, a cavallo tra il novembre ed il dicembre del 1982.
Dall’apparente monotonia del gameplay, movimentato solamente dalla crescente complessità delle direttive in merito alla conformità dei documenti, lentamente emerge la trama. Raccontata attraverso la prima pagina del quotidiano locale, il bollettino giornaliero distribuito ai lavoratori della frontiera e, soprattutto, le voci dei migranti allo sportello.
La trama emerge lentamente dal gameplay.
Ecco quindi l’anima distopica del gioco che si concretizza, dipingendo una satira intelligente e pungente di uno stato grigio, autoritario e kafkiano.
A dispetto dell’iniziale semplicismo, ben presto il gioco mette il giocatore in una posizione complessa: le dinamiche iniziano a trascendere la routine fatta di mero lavoro da svolgere per mantenere la famiglia. Iniziano ad arrivare allettanti tentativi di corruzione per lasciar passare migranti irregolari, piuttosto che storie di migrazioni fatte per necessità impellenti e per le quali un’espulsione al confine avrebbe conseguenze nefaste. Paper, please è un crescendo di scelte libere e moralmente ambigue alle quali il giocatore è chiamato.
Siamo di fronte ad un prodotto fondamentalmente diverso da Return of the Obra Dinn.
Non essendovi filmati di nessuna sorta, tali scelte, e le loro conseguenze, sono interamente inglobate nelle meccaniche di gameplay. Quest’ultimo, pertanto, presenta un grado di flessibilità elevatissimo. Il gioco stesso è spiazzante per come si presenta ma, al contempo, per come reagisce al giocatore. In tal senso, siamo di fronte ad un prodotto fondamentalmente diverso da Return of the Obra Dinn: quest’ultimo, per quanto sia un’esperienza fieramente originale, possiede le caratteristiche e l’infrastruttura di un gioco propriamente detto. D’altro canto, Papers, please è animato da un desiderio di unicità ancora più feroce, pur essendo intrinsecamente limitato nella realizzazione. La paternità dei due giochi è tuttavia evidente in entrambi, così come l’acume nell’ottenere un’atmosfera unica a partire da pochi elementi.
Eppure la paternità comune dei due giochi risulta evidente.
Uno di questi è la musica: composta interamente da Pope, accompagna in maniera ordinata ed inappuntabile i diversi momenti di gioco. A differenza dell’avventura investigativa a bordo della nave Obra Dinn, in cui ascoltare le persone parlare era parte della caccia all’indizio, Papers, please non ha dialoghi doppiati: le persone si esprimono attraverso suoni robotici incomprensibili e stereotipati, ognuno dei quali indica una precisa situazione.
Sicuramente non per tutti i palati, Papers, please rappresenta un gioco minimalista, complesso e genuinamente strano. Arrivandoci a ritroso, come ho fatto io, spinta dalla curiosità suscitata da Obra Dinn, risulta un prodotto spiazzante poiché ancor meno convenzionale del suo successore. Tuttavia, la precisione artistica, il gusto per la narrazione non convenzionale (a maggior ragione vista l’elemento satirico, estraneo anche ad Obra Dinn) e, soprattutto, la gestione veramente sublime delle meccaniche di gioco sono rimasti meravigliosamente inalterati nel passaggio da una scala di produzione molto piccola (Papers, please) ad una leggermente meno piccola (Obra Dinn, il quale, seppur creato interamente da Pope, ha richiesto quattro anni e mezzo di sviluppo). Aspetto con ansia il prossimo gioco di questo autore . Nel frattempo:
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