Nei videogiochi la morte è un elemento ormai scontato, al quale non prestiamo nemmeno più tanta attenzione, ma nella realtà essa rappresenta una delle nostre più grandi paure. Per millenni l’essere umano ha tentato di definire che cosa essa sia (è un evento oppure un processo che ha inizio nell’istante in cui nasciamo?) dando vita a discussioni senza fine. Nel mondo reale la paura della morte ci consente spesso di evitare situazioni pericolose, facendo scattare quello che noi chiamiamo “istinto di sopravvivenza” ma allo stesso tempo siamo spinti a ricercare quella sensazione di “morte imminente” praticando sport adrenalinici oppure andando su giostre particolari, in grado di mettere in allerta il nostro corpo. La fine di una vita è sicuramente un fenomeno biologico, che ha a che fare con la corporeità, ma ha anche un forte ruolo culturale e sociologico. Pensateci, diverse culture affrontano la scomparsa di una persona in modi differenti poiché a variare è la concezione della morte, ovvero quella costruzione culturale creata attorno a questo evento/processo biologico del tutto naturale.
Anche nel mondo dei videogiochi possiamo trovare diverse interpretazioni di questo concetto e, a partire dall’analisi di come viene gestita la morte del giocatore dagli sviluppatori, è possibile effettuare delle riflessioni su come essa venga concepita e che funzione abbia.
Agli albori del mondo videoludico, quando ancora ci si ritrovava nelle sale giochi a spendere i propri risparmi in gettoni e si faceva a gara a chi riusciva ad avanzare maggiormente di livello, a farla da padroni erano i cosiddetti giochi arcade. Ogni volta che si moriva era necessario inserire un nuovo gettone se si voleva continuare a giocare; con la morte arrivava la sensazione spiacevole del fallimento, accompagnata però dalla voglia di rimettersi alla prova per raggiungere un punteggio più elevato. I vari Pac-Mac, Donkey Kong e Space Invaders facevano leva semplicemente sulla voglia di superare il proprio record o quello dell’amico, non di certo sul desiderio di proseguire con la trama della storia. Possiamo quindi affermare che inizialmente la morte era vista semplicemente come un’opportunità di guadagno da parte degli sviluppatori mentre per i giocatori rappresentava una sorta di “stop” virtuale alla propria scalata verso il punteggio più alto, nulla di più. La morte non era “morte”, era solo un simbolo e diciamolo: un ottimo modo per svuotare le nostre tasche!
Con l’arrivo dei videogiochi nelle abitazioni non era più necessario pagare per ogni partita poiché il giocatore aveva già acquistato l’intero gioco, così con la morte si era semplicemente costretti a premere un tasto per poter continuare la propria esperienza videoludica. Se ad uno sguardo superficiale non sembra essere cambiato molto rispetto agli arcade della sale giochi, in realtà vi è stato un profondo mutamento nell’approccio del giocatore; infatti, avendo già pagato per l’intero videogioco, egli sembra quasi avere la pretesa di poter concludere l’avventura. Infatti è proprio in questo contesto che vennero sviluppati gli strumenti di salvataggio dei progressi fatti, che consentivano finalmente al consumatore di non perdere i risultati ottenuti. Questa possibilità cambiò radicalmente il concetto di morte nei giochi; esso infatti non era più legato all’idea di “fine” e a questo punto i giochi iniziarono ad acquisire complessità sia nella trama che nelle meccaniche. Se prima la morte era rappresentata con una semplice schermata di “game over”, ora iniziò a dare spettacolo di sé; gli sviluppatori cominciarono a far galoppare la fantasia, creando modi sempre più espliciti e fantasiosi per mostrare la dipartita del nostro personaggio. Ebbe così inizio una vera e propria spettacolarizzazione della morte (famosissime le morti di Lara degli ultimi titoli di Tomb Raider), che in sé ha sicuramente una funzione catartica.
Con il passare degli anni il popolo dei videogiocatori è divenuto sempre più raffinato, esigendo perciò non solo un buon gameplay ma anche delle trame coerenti ed appassionanti. Se prima la storia era solo un contorno alle varie sfide, ora diviene un tutt’uno con esse; il giocatore infatti ha la possibilità di interagire con gli elementi narrativi, sentendosi quindi parte di quel mondo e di quelle vicende. Nei videogiochi basati sulla narrativa la morte (e il fallimento che essa rappresenta) può essere problematica perché perdere significa dover concentrarsi maggiormente sulle meccaniche di gioco, rischiando così di perdere di vista la trama ma non solo; la frustrazione provata nel dover ripetere alcune missioni può sovrastare tutte le altre emozioni legate invece alle vicende di cui si è protagonisti. In questi giochi infatti abbiamo due importanti livelli emotivi: uno legato alla diretta esperienza ludica, l’altro invece appartiene alla trama. Molte persone preferiscono giocare i titoli di questo genere scegliendo un livello di difficoltà medio-basso, non perché non amino la sfida, ma semplicemente perché non vogliono essere distratti dalla frustrazione del fallimento. Diversi appassionati infatti puntano a proseguire con la storia e non ad acquisire abilità nel gioco attraverso la pratica e tanti tentativi.
La resurrezione può essere vista come un elemento stridente in videogiochi che fanno del realismo un vanto; pensate ad esempio alle campagne single player dei vari Call of Duty, magari quelli ambientati in guerre passate… Sicuramente in quel contesto la resurrezione dei soldati non è la cosa più verosimile del mondo e ciò può far storcere il naso a chi ama la coerenza nelle trame. Per evitare ciò, alcuni sviluppatori hanno reso la morte e il ritorno alla vita degli eventi “previsti” nella trama e, utilizzando degli espedienti narrativi, sono stati integrati in essa, rendendoli così perfettamente plausibili e coerenti al contesto. Pensiamo a BioShock, in cui il protagonista muore, risvegliandosi poi nella “Vita Chamber”, mentre il mondo attorno a lui è andato avanti senza “cristallizzarsi” con la sua dipartita, oppure al recentissimo Sekiro in cui ogni nostra morte ha conseguenze ben tangibili su tutti gli altri personaggi che possono pregiudicare le nostre missioni.
Questo tipo di titoli sembra inoltre ricalcare il concetto che sta alla base dei racconti interattivi degli anni Novanta; ricordo benissimo la prima volta che alle scuole elementari la maestra ci propose uno di quei titoli! Mi sentii così potente… Ero in grado di cambiare la trama in base alle mie scelte. Questo genere di approccio, che consente maggiore libertà all’utente e lo fa sentire padrone delle proprie scelte, sta sempre più prendendo piede. Tra i più celebri nomi abbiamo Deus Ex e il sopracitato BioShock, ma anche moltissimi giochi di ruolo seguono questa filosofia. Se in un classico videogioco una scelta sbagliata porterebbe alla morte, in questo caso il fallimento viene integrato nella trama; ogni scelta del giocatore viene presa in considerazione e ritenuta valida per il proseguimento delle vicende. Questo sicuramente contribuisce ad aumentare il coinvolgimento nel gioco poiché ogni scelta avrà delle conseguenze su tutta la narrativa, e le decisioni immorali non verranno cancellate con un “sei morto” ma avranno un loro peso per tutta l’esperienza videoludica.
Abbiamo visto come la morte del giocatore possa fungere da strumento di reset oppure avere delle conseguenze importati nello svolgersi delle vicende; in base a come viene gestito questo elemento infatti l’esperienza dell’utente sarà diversa, implicando un impatto emotivo più o meno forte. Con questo articolo non voglio dare alcun giudizio poiché a mio parere non esiste una tipologia di videogioco migliore in tal senso, semplicemente ognuno può apprezzare un genere rispetto ad un altro.
Sicuramente però possiamo dire che l’associazione tra morte e fallimento non può che farci pensare a come noi riteniamo che essa sia un elemento negativo della nostra natura; facciamo davvero fatica ad accettarla, ma la paura che abbiamo sembra quasi non essere legata in realtà alla morte in sè, forse perché non sappiamo nemmeno cosa sia. Spesso infatti ad essa associamo altri elementi che temiamo: il dolore, l’ignoto, la mancanza… Ma di per sè non è la morte a terrorizzarci. Proprio per questo motivo dovremmo imparare ad accettare quest’evento, o percorso, così inevitabile per noi esseri viventi.
Per citare Epicuro: “abituati a pensare che nulla è per noi la morte”
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Sempre interessante l'analisi sociologica dei videogiochi. Complimenti alla redattrice
Ottimo articolo.
In alcuni giochi si è ormai consolidata la "vita singola". Giochi con struttura complessa con la possibilità di morire da un momento all'altro e perdere tutto, proprio come con i tradizionali cabinati( Ad esempio in Diablo III).
È un esperienza da provare almeno una volta a mio parere, forse quanto di più simile ad uno sport estremo in un videogame.🤣