Un videogioco è un contenitore dove tecnologia ed arte convivono in simbiosi. Senza l’abilità tecnica necessaria per realizzare una visione artistica, non vi sarebbe alcun prodotto da vendere; viceversa, senza un arco narrativo appassionante, un’estetica suggestiva e delle idee di gameplay divertenti non vi sarebbe alcun prodotto che varrebbe la pena vendere.
Spesso le caratteristiche nevralgiche di un videogioco, quelle che lo rendono immediatamente riconoscibile a noi giocatori, sono il frutto di un compromesso ponderato fra un’idea teorica e le inevitabili limitazioni legate alla sua implementazione pratica.
Pertanto, può essere immensamente interessante indagare sul processo a monte dell’uscita di un videogioco: conoscendo il risultato finale, percorrere a ritroso alcune fasi cruciali dello sviluppo può gettare luce inedita sul gioco stesso.
In quest’ottica, è possibile scoprire che alcuni difetti di un gioco, sono in realtà limiti realizzativi comprensibili, ovvero mali necessari che gli sviluppatori hanno scelto di accettare per ottenere maggiori vantaggi altrove. Viceversa, taluni punti di forza si rivelano il risultato di lunghi processi iterativi di idee in partenza difettose.
Naturalmente non è sempre prassi che le software house svelino i retroscena delle loro opere, tuttavia vi sono appuntamenti quali la Game Developers Conference (GDC), tenuta annualmente a San Francisco, in cui si tengono delle presentazioni divulgative su vari aspetti dello sviluppo. Svariate figure professionali, appartenenti alle case di produzioni più famose al mondo, si riuniscono per discutere fra colleghi alcune difficoltà legate per esempio alla programmazione, al motore grafico, al game design, al level design e quant’altro.
Queste conferenze sono vere e proprie miniere d’oro per chi è interessato a saperne di più sul processo realizzativo dei maggiori giochi, specialmente quelli appena usciti.
In questo articolo di Gameplay Cafe, dal taglio un po’ inedito, ho riunito alcune delle chicche più interessanti che ho appreso dalle conferenze GDC e, in particolare, da quelle tenute da Naughty Dog. Tutte le conferenze di cui parlerò sono disponibili su Youtube o nel Vault GDC: lascerò i link in calce all’articolo.
I giochi che maggiormente saranno discussi sono Uncharted 2: Il covo dei ladri e The Last of Us: a mio avviso, questi due titoli racchiudono al meglio l’essenza recente di Naughty Dog. Il primo ha dato la svolta alla serie Uncharted, inaugurando quasi tutte le meccaniche di gioco sulle quali i successivi capitoli si sono appoggiati, senza tuttavia operare rivoluzioni; il secondo è, semplicemente, fiore all’occhiello della casa di produzione di base a Santa Monica in California.
L’intelligenza artificiale di Ellie
Sul personaggio Ellie vi sarà di discutere in uno speciale su Gameplay Cafe. Tuttavia, è imprescindibile ribadire anche qui l’empatia portentosa che si instaura fra questa bambina e noi giocatori. Ciò nasce dalla sensibilità della sceneggiatura, alle volte straziante alle volte più leggera, ma anche da alcune accortezze di gameplay: nel 2014, l’ingegnere Naughty Dog Max Dychoff ha fatto un’interessante presentazione proprio sul processo di ideazione e di sviluppo dell’intelligenza artificiale di Ellie e di come questa sia stata guidata principalmente da esigenze di tipo narrativo.
La prima informazione focale è che il ruolo di Ellie in TLoU ha acquisito importanza durante la produzione del gioco: pertanto, l’implementazione dei suoi schemi comportamentali ha subito sostanziali modifiche e rifiniture solamente in prossimità dell’uscita del gioco.
Inizialmente era previsto che la bambina fosse alquanto passiva nell’azione. Tuttavia, per facilitare la connessione umana fra questo personaggio e noi giocatori, fu deciso di renderla partecipe nei combattimenti. Ellie ci aiuta negli scontri con gli infetti: a volte trova degli oggetti per noi, altre volte ci salva da situazioni pericolose, per esempio quando siamo stati afferrati da un nemico.
La sfida principale per ottenere questa proattività nell’intelligenza artificiale è quella di mantenere la prossimità fra Ellie e Joel: giocando TLoU si nota immediatamente come Ellie sia quasi sempre dentro la schermata di gioco. Ciò crea, in modo del tutto naturale, l’aspettativa di avere Ellie sempre al proprio fianco: di conseguenza, nei momenti in cui Ellie e Joel sono separati, viene naturale ingegnarsi per favorire una riconciliazione il prima possibile. In altre parole, noi giocatori diveniamo quasi subito emotivamente investiti nel rapporto fra queste due persone, vera colonna portante del gioco.
In molte recensioni di TLoU e, più in generale, nell’opinione generale del gioco, è stato sottolineato come l’intelligenza artificiale dei compagni (detta buddy AI, per differenziarli da quella delle NPC ostili, la enemy AI) sia uno dei pochi aspetti leggermente deficitari del gioco. In particolare, nella modalità stealth la scoperta di Ellie da parte degli avversari non comporta l’allerta di quest’ultimi. È evidente che ciò non sia né realistico né logico. Si può impostare un parallelo con il recente (ed eccellente) God of War, in cui Atreus presenta un’intelligenza artificiale in combattimento molto avanzata (addirittura parte delle sue azioni nascono solo su input di Kratos, ossia al nostro comando). Dickhoff argomenta che il team di sviluppo era ben a conoscenza di questo difetto della buddy AI e che, a fronte della mancanza di tempo necessario ad operare rifiniture sostanziali della programmazione, si è accettato questo male minore pur di evitare che Ellie fosse causa di frequenti allarmi fra gli infetti o gli avversari. In altre parole, se giocando la nostra copertura saltasse in continuazione per “colpa” dei movimenti di Ellie, noi la odieremmo! Dunque, al fine di preservare il nostro attaccamento a questa bambina, ogni eventualità che potesse essere causa di risentimento è stata rimossa.
Per il medesimo motivo è stata favorita la proattività di Ellie: a volte ci salva dagli infetti (tale meccanica è implementata per accadere assai di rado, in modo tale da rendere ogni volta memorabile), a volte ci regala oggetti che compaiono nel mondo attraverso lei.
Le sue reazioni alle azioni esterne sono state basate sulle nostre probabili reazioni: per esempio, quando assiste ad un’uccisione particolarmente cruenta, esprime shock e disgusto, così come lo facciamo noi, giocando. Dunque, Ellie funge da nostro avatar nel mondo di gioco.
La sua partecipazione negli scontri con i nemici, particolarmente dal momento in cui entra in possesso di un’arma, è tarata in maniera tale da farla apparire utile ma, allo stesso tempo, di non abbassare drasticamente il livello di sfida: Ellie non può essere una macchina da guerra!
Motion Capture di Joel ed Ellie
Il sistema di combattimento melee di The Last of Us
La brutalità è la cifra stilistica di TLoU: è una storia di sopravvivenza in circostanze ostili, se non disperate. Il sistema di combattimento è incaricato di tradurre tale tono estetico in qualcosa di tangibile per il giocatore e di veicolare la sensazione angosciante di pericolo imminente.
Nel 2014, il sistema di combattimento melee è dunque il soggetto dell’interessantissima presentazione di Anthony Newman, game designer di TLoU e co-game director di TLoU Parte 2.
Innanzitutto, un piccolo chiarimento (magari superfluo per molti): si indica con l’aggettivo “melee” il combattimento a corto raggio, quindi quello a mani nude oppure con le armi melee (nel caso di TLoU parliamo di assi, tubi, eccetera). Altra cosa è invece il sistema di combattimento detto “ranged”, ossia quello alla lunga distanza, solitamente condotto con un’arma da fuoco.
Il compartimento artistico di TLoU ha rappresentato il picco del potenziale della generazione Playstation 3: in particolare, la caratterizzazione e l’espressività dei personaggi sono stati un elemento chiave per trasmettere la forte componente emotiva della storia. Il sistema di combattimento punta dunque a mostrare quanto più possibile i volti stravolti dalla fatica del combattimento: ogni qual volta ingaggiamo un particolare nemico, la telecamera tende ad orbitare in senso antiorario proprio per favorire una visuale privilegiata dei volti dei personaggi in lotta per la sopravvivenza.
Sempre in ambito di gestione delle telecamere, Newman ha segnalato l’abbondante uso della “camera shake”, ovvero del tremolio dell’inquadratura nei momenti più concitati, e la presenza dei “camera cut”, ossia i cambi di inquadratura, solo in caso di morte (per non rendere più confusionario il combattimento).
Combattimento ranged
Un’altra rivelazione interessantissima è quella secondo cui il sistema di combattimento inizialmente implementato fosse sostanzialmente più complesso di quello poi inserito nella versione finale del gioco. Joel poteva afferrare i nemici, usarli come scudo e poi lanciarli contro altri. Inoltre, erano presenti le meccaniche di blocco ed evasione: si potevano dunque attenuare i colpi ricevuti oppure evitarli del tutto, premendo un tasto col giusto tempismo.
Come detto, questa varietà della lotta melee fu abbassata in maniera significativa in prossimità della data di rilascio. Il motivo principale di questa importante decisione risiede nella natura da gioco “shooter” di TLoU: come spiegato da Newman, il combattimento non è l’unico elemento focale e pertanto deve amalgamarsi con altre meccaniche quali lo stealth e la presenza di frequenti dialoghi a scopo narrativi anche nelle fasi di gameplay.
In altre parole, giocando l’avventura di Joel ed Ellie, abbiamo molte cose a cui pensare contemporaneamente: alcune di esse hanno la precedenza gerarchica sul mero combattimento, il quale deve perciò essere calibrato per rispettare le priorità del gioco.
Un momento davvero interessante della presentazione è stato, per l’appunto, quando si è mostrata una versione di prova del gioco in cui si vedeva Joel che evadeva l’attacco di un clicker. Sono rimasta colpita da quanto il pathos risentisse dell’eventualità che i clicker non fossero letali: a mio avviso, la presenza della meccanica di evasione avrebbe rovinato la suspence di molti scenari di gioco.
Infine, Newman spiega che molto lavoro è stato dedicato ad elaborare le mini sequenze in cui si uccide brutalmente un nemico e che la loro attivazione, da parte del giocatore, è fortemente incoraggiata dal sistema di gioco. Ad esempio, è possibile spingere un infetto contro un muro anche se la distanza tra lui e Joel è di svariati metri. Questo perché, essendo il punto di vista ancora alle spalle del protagonista, non si ha una precisa percezione della distanza stessa e pertanto il realismo non viene compromesso.
Uncharted 2 è una “Active Cinematic Experience”
Nel 2010, Bruce Straley e Neil Druckmann, all’epoca rispettivamente game director e lead game designer di Uncharted 2: Il covo dei Ladri, parlano approfonditamente di come l’avventura di Nathan Drake potesse essere definita una “active cinematic experience”.
È da segnalare che la medesima coppia di sviluppatori sarebbe successivamente stata al timone di TLoU e Uncharted 4.
L’alto valore cinematografico e la devozione al realismo, inteso come assenza di momenti soprannaturali (ma non esoterici!), ha sempre contraddistinto la serie Uncharted.
Tuttavia, è nel secondo capitolo che viene sublimata quella fusione, apparentemente naturale, fra gameplay e narrazione che avrebbe fatto la fortuna di tutti i successivi giochi Naughty Dog. Nel Covo dei Ladri vi è infatti una struttura rigorosa che alterna lunghi filmati a sezioni di gioco: i primi servono allo scopo di portare avanti la narrazione, creando picchi di interesse nel giocatore, mentre gli ultimi hanno il compito di tenere alta la concentrazione del giocatore in modo da non disperdere la propulsione narrativa del filmato antecedente.
Molto lavoro viene dedicato al calibrare la cadenza dei filmati, in modo da non averne di troppo ravvicinati, che spezzetterebbero il gameplay, o troppo distanti, che farebbero scemare l’attenzione del giocatore.
Infatti, Druckmann spiega come il “pacing”, ossia il ritmo, sia stato curato in maniera molto profonda, in modo da ottenere un’esperienza talmente coinvolgente da invogliare chi gioca a non posare mai il joypad. Pertanto, le fasi di gameplay sono state concepite per essere il più variegate possibile (una missione stealth, una sparatoria, una fase su treno in corsa, un particolare combattimento, eccetera), ma sono anche state infuse di pillole di narrazione, in modo da non affidare interamente tale compito ai filmati.
Uncharted 2 ha anche avuto il merito di formalizzare la tecnica del “gap”: quando al giocatore viene affidato un compito, per esempio raggiungere un certo luogo e compiere una certa azione, appare un tragitto da seguire fino all’obiettivo. Tuttavia, nel mezzo di questo percorso, avviene un imprevisto (detto appunto gap) che costringe Drake a fare una deviazione verso un tragitto alternativo. Questo espediente serve a tenere alta la tensione.
Ovviamente, possiamo riconoscere moltissimi gap nei successivi capitoli della saga, fino all’Eredità Perduta. Tuttavia, all’epoca del Covo dei Ladri si trattava di un elemento fresco che ravvivava il gameplay.
Uncharted 2 ha introdotto anche l’uso sistematico di filmati interattivi durante le fasi di gioco più lunghe. Straley elabora sul lavoro finalizzato al far sembrare le transizioni da gameplay a filmato interattivo il più naturali possibili: innanzitutto, la coerenza fisica e logica dell’azione viene sempre preservata. Ossia la posizione del personaggio, nell’ultimo istante di gioco, deve essere rigorosamente conservata all’inizio della sequenza. Inoltre, per dare l’illusione al giocatore di essere in controllo del personaggio per il maggiore tempo possibile, i filmati sono innescati da una sua azione: per esempio, compiere un salto o aprire una porta, piuttosto che semplicemente camminare in una particolare area. In alternativa, i filmati possono essere indotti da un fattore esterno, quale un terremoto o un’esplosione o il crollo di un edificio.
Approccio all’open world in L’Eredità Perduta
Uncharted: L’Eredità Perduta non può essere definito un open world (io stessa l’ho sottolineato nella recensione), tuttavia è innegabile che il gioco dia al giocatore la possibilità di compiere azioni in un ordine di suo piacimento. Questo dettaglio, apparentemente minore, impone una revisione corposa dell’impianto narrativo: essendo la storia l’elemento principe (come in tutti i giochi Naughty Dog), è necessario assicurarsi che ogni dialogo venga pronunciato al momento opportuno. Ciò viene naturale quando la progressione della storia è lineare, ma quando si introduce un open world, ossia si lascia il ritmo della narrazione nelle mani del giocatore, la situazione cambia.
Alla GDC del 2017, lo sceneggiatore Naughty Dog, Josh Scherr, parla delle difficoltà della narrazione non lineare in un contesto open world e, in particolare, di come sia stato possibile sviluppare in maniera coerente il rapporto fra Chloe e Nadine. La mole di scrittura e filmati alternativi aumenta esponenzialmente con il numero di azioni “libere” che il giocatore può compiere. Non sorprende, aggiungo io, che gli open world siano esattamente quel tipo di gioco che solamente le software house maggiori possono permettersi.
Conclusione: una nuova prospettiva
L’analisi dei retroscena regala un punto di vista inaccessibile a chi conosce unicamente il gioco nella sua versione finale, immessa sul mercato. Ciò che vediamo realizzato è l’implementazione pratica di un’idea teorica: le due cose, spesso, sono molto diverse fra loro.
In quanto prodotti tecnologici, i videogiochi non hanno la medesima libertà realizzativa, per esempio, dei libri: possiamo scrivere di aver visto cento astronavi, oppure cinquanta, oppure una sola, senza che nulla cambi; tuttavia disegnare, implementare ed animare cento astronavi, oppure cinquanta, oppure una sola sono cose assai diverse!
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