Negli anni le trasposizioni videoludiche dei giochi di ruolo “carta e penna” si sono materializzate nelle forme più disparate: dai giochi in visuale isometrica alle avventure in prima persona, dai vasti open-world ai Souls, è pressoché impossibile definire un canone di stile né di combattimento che esemplifichi l’intero genere. Infatti, gli ingredienti più caratteristici sono piuttosto rappresentati in primo luogo dalla forte personalizzazione del personaggio e del suo progresso in termini di abilità, profilo sociale e caratterizzazione comportamentale, ed in secondo luogo dalla mutevolezza del mondo di gioco il quale reagisce alle azioni del protagonista modellandosi di conseguenza. Questi due elementi sono infatti riscontrabili fin dagli albori della tradizione di giochi quali Dungeons & Dragons, nei quali un “custode” della partita è responsabile della narrazione, di regolare lo sviluppo dei personaggi secondo regole prestabilite e di determinare la ripercussione delle azioni di gioco sulla realtà immaginaria. La funzione svolta da questo custode è intellettualmente complessa e pertanto non sorprende che la sua implementazione in un videogioco sia particolarmente difficile ed onerosa. Per mantenere l’equilibrio tra coerenza narrativa e libero arbitrio, gli sviluppatori devono concepire delle intricate ramificazioni di eventi e di dialoghi, in maniera tale da offrire al giocatore una quantità notevole di scelte e da assicurarsi che il prosieguo del gioco ne tenga sempre conto
A seconda delle interpretazioni, un videogioco GDR può focalizzarsi maggiormente su uno solo dei due ingredienti elencati poc’anzi. Ad esempio, nei Souls la complicatezza dell’intreccio narrativo viene moderata in favore di una maggiore attenzione verso lo sviluppo del personaggio: la personalizzazione del protagonista assume un ruolo assolutamente centrale ed è intrinsecamente legata al sistema di combattimento, mentre altri elementi, quali ad esempio l’appartenenza a fazioni, sono legati addirittura al multiplayer, peraltro in maniera molto innovativa.
Nel parere di chi vi scrive, a riuscire nel complicatissimo compito di coniugare entrambe le colonne portanti del gioco di ruolo con un gameplay quanto più possibile dinamico e moderno è stata unicamente la saga di The Elder Scrolls, sviluppata da Bethesda. Nella sua massima espressione, essa è ampiamente riconosciuta come una pietra miliare videoludica ed un termine di paragone ineludibile per tutti gli altri GDR che l’hanno seguita. È pertanto di grande interesse andare a sviscerarne i tratti più distintivi che sono alla base della sua reputazione ed influenza. Prima di scendere nei dettagli, è doveroso sottolineare che in questo approfondimento non verranno trattati Arena (1994) e Daggerfall (1996), i primi due capitoli della serie, ma piuttosto si parlerà profusamente di Morrowind (2002), Oblivion (2006) e Skyrim (2011). Procedendo con ordine, la nostra esplorazione di Tamriel non può che iniziare dalla regione di Morrowind.
The Elder Scrolls III, Morrowind: sperduti e felici
Nei videogiochi, come in tante altre cose, il tempismo è essenziale: The Elder Scrolls III: Morrowind fu rilasciato in un periodo davvero particolare. Erede di una gloriosa tradizione di GDR da PC, esso approdò per la prima volta su Xbox e Xbox 360: fin dal concepimento, il gioco fu progettato con lo scopo di inglobare uno stile da action/adventure in prima persona, familiare ai giocatori di console, nelle meccaniche di un gioco di ruolo senza compromessi in grado di soddisfare gli appassionati della saga. Sebbene all’inizio degli anni Duemila il pubblico di videogiocatori fosse rigidamente suddiviso fra PC e console, Morrowind puntava a proporsi come prodotto universale. Con il passare del tempo, la dicotomia delle piattaforme è andata pian piano affievolendosi e numerosi sviluppatori hanno messo a punto giochi dalla fruizione universale. Un esempio interessante in questo senso è rappresentato dalla prima trilogia di Mass Effect di Bioware, dove le meccaniche GDR si fondono pregevolmente con un’interfaccia da sparatutto in terza persona arricchita dalla presenza della pausa tattica.
Il tratto distintivo di Morrowind e, più in generale, di The Elder Scrolls, è la straordinaria complessità dell’universo di gioco attraverso il quale il giocatore è chiamato a farsi largo. Appena sbarcato nel piccolo porto di Seyda Neen, nella grande Isola di Vvardenfell a sua volta parte del continente di Tamriel, il protagonista, completamente personalizzabile, viene letteralmente abbandonato a sé stesso. Contrariamente alla stragrande maggioranza degli altri GDR, Morrowind non segna le quest sulla mappa a disposizione del giocatore. Questo apparente dettaglio, in realtà, stravolge l’esperienza di gioco: gli spostamenti sono guidati esclusivamente dalle indicazioni ottenute dagli innumerevoli personaggi non giocanti, tutti dotati di linee di dialogo (seppure ricorrenti). Si deve perciò osservare con attenzione il paesaggio circostante alla ricerca dei punti di riferimento che ci vengono indicati a parole. Alternativamente, si può scegliere di procedere alla cieca sperando di arrivare sani e salvi nella città più vicina. Tuttavia vagare per l’isola di Vvanderfell è un’attività pericolosissima perché in ogni momento si rischia di incappare in nemici completamente al di fuori della propria portata, i quali non livellano assieme al giocatore.
In altre parole, Morrowind è avventura allo stato puro.
Un ulteriore aspetto dell’impressionante complessità del gioco è il numero di fazioni a cui ci si può affiliare: completando incarichi secondari si possono scalare i ranghi della gilda dei Ladri, dei Maghi, degli Assassini e di un’ulteriore decina di organizzazioni disseminate nel mondo. Spesso gli incarichi ricevuti alterano lo status del personaggio in più gilde allo stesso tempo: ad esempio, se il nostro superiore nella gilda dei ladri ci ordina di rubare una pozione ad un potente mago, la nostra reputazione nella gilda dei maghi non ne uscirà certamente rafforzata! Ulteriore chicca riguarda la possibilità di contrarre l’emofilia porfirica, ovvero il vampirismo: tale condizione, se non debellata per tempo, è irreversibile e comporta benefici nel combattimento ma preclude l’accesso a determinate associazioni.
La storia principale, come nella tradizione dei GDR carta e penna, è di per sé vaga: il protagonista è chiamato ad adempiere un’antica profezia sconfiggendo un antagonista corrotto da un dio malvagio. Tuttavia la narrazione assume spessore quando contestualizzata in un mondo di gioco pulsante, intricato ed estremamente reattivo alle scelte del protagonista.
Il sistema di gioco è tanto rigoroso nei meccanismi di avanzamento del personaggio quanto flessibile nel donare al giocatore la più ampia libertà di esplorazione possibile. Ad esempio la magia di levitazione contribuisce alla tridimensionalità delle azioni, consentendo al personaggio di librarsi in aria per un tempo proporzionale alle proprie abilità nelle arti magiche. Operando un volo pindarico, questo aspetto può far pensare al recente Zelda: Breath of the Wild, la cui libertà di gioco è stata universalmente acclamata. In un articolo apparso lo scorso anno su Glixel, si opera l’accostamento tra il titolo Switch e The Elder Scrolls V: Skyrim: se non fosse per l’eccessiva distanza temporale (Zelda è uscito nel 2017) ed il conseguente gap tecnico abissale, mi permetterei di dissentire ribadendo che il paragone con Morrowind sarebbe più corretto. Questo, sia chiaro, non vuol dire che Skyrim non offra ampia libertà d’azione: esso custodisce nel proprio DNA le caratteristiche principali dell’illustre predecessore (oltre che di The Elder Scrolls IV: Oblivion, di cui si parlerà tra qualche paragrafo). Tuttavia, come tutte le saghe che si estendono per decenni, anche The Elder Scrolls si è evoluto nel tempo. Vediamo come.
The Elder Scrolls V, Skyrim: una provincia più moderna?
In un’intervista datata 2013 e successivamente riportata da numerosi siti di informazione, Konrad Tomaskiewicz, game director di The Witcher 3 (il quale era ancora in lavorazione al tempo), affermò che Skyrim era un gioco generico in termini di storia e quest. Tralasciando gli aspetti più provocatori di questa affermazione, è interessante approfondire l’argomento perché questi due giochi (entrambi eccelsi, peraltro) esibiscono due idee diametralmente opposte su cosa sia importante in un gioco di ruolo open-world.
A rigore, valutando i due pilastri GDR citati in fase introduttiva, ovvero sviluppo del personaggio e reattività del mondo di gioco, si potrebbe cautelarmente affermare che sia The Witcher 3 ad essere in difetto. Infatti, il libero arbitrio del nostro Geralt è abbastanza limitato: il fatto stesso che si tratti di un protagonista predefinito è una forte limitazione alla componente GDR del gioco. Tuttavia ciò è perfettamente coerente con la scelta di CD Projekt Red di mettere in risalto aspetti quali la trama principale e l’emotività: The Witcher 3 è la storia di un padre che cerca sua figlia. L’elemento sorpresa nelle terre di Velen, Novigrad e Skellige è leggermente attenuato dalla precisa localizzazione dei punti di interesse.
Skyrim, d’altra parte, è più fedele alla tradizione classica dei GDR e, come tale, armonizza una trama principale lineare con un universo, quello della provincia di Tamriel chiamata per l’appunto Skyrim, imprevedibile, vibrante, vario e che riprende gran parte delle caratteristiche già viste in The Elder Scrolls III. In estrema sintesi (e mi si perdonino gli inglesismi): The Witcher 3 è un GDR story-driven, Skyrim è un GDR exploration-driven. Due cose diverse.
Morrowind ovviamente costituisce un altro termine di paragone al quale Skyrim non può sottrarsi: è pertanto interessante snocciolare i punti salienti anche di questo confronto. In primo luogo il sistema di associazioni e fazioni di Skyrim risulta parzialmente semplificato: le gilde a cui affiliarsi sono presenti in minor numero e le casate di Morrowind sono sostituite dalla scelta binaria fra Imperiali e Manto della Tempesta. A livello di meccaniche open-world, Skyrim introduce lo spostamento rapido da una qualunque posizione verso una destinazione nota e, soprattutto, permette l’utilizzo della mappa di gioco per gestire le missioni con indicatori sia automatici che personalizzati. Tali cambiamenti avvicinano Skyrim ai GDR contemporanei, ma certamente lo allontanano da Morrowind: quello straordinario spirito di avventura che nasceva dallo spaesamento viene parzialmente perduto.
Anche l’estetica del mondo cambia notevolmente: le ambientazioni fiabesche e gioiosamente assurde di Morrowind, come ad esempio le incredibili architetture della casata Telvanni, vengono sostituite da paesaggi realistici, dipinti con toni cupi ed epici.
Curioso sottolineare come questi cambiamenti di stile siano magistralmente evidenti anche nelle rispettive colonne sonore, curate entrambe dal compositore Jeremy Soule: eteree ed orecchiabili le melodie di Morrowind, solenni ed epiche quelle di Skyrim.
Dal punto di vista grafico e della giocabilità, specie in combattimento, la saga di The Elder Scrolls è migliorata molto in Skyrim: degna di menzione è l’introduzione del sistema degli Urli, grazie al quale il nostro protagonista Sangue di Drago ha un attacco alternativo rispetto alle armi e alle magie classiche.
Tuttavia, come detto, sulla via da Vvanderfell a Skyrim qualcosa è stato sacrificato all’altare della cosiddetta modernità. Un’idea discutibile, quest’ultima, e che ha attratto non poche critiche da parte degli appassionati della serie, specialmente quelli di lungo corso. Laddove Morrowind ha ignorato i paragoni con i GDR contemporanei, ed anche per questo è risultato essere una rottura netta con il passato, Skyrim è più rispettoso dei canoni videoludici prestabiliti. Seppur rientrando agevolmente nella categoria dei capolavori, il quinto capitolo della serie The Elder Scrolls non possiede l’irruenta componente innovativa del terzo.
Ci stiamo scordando qualcosa?
The Elder Scrolls IV, Oblivion: un ponte meraviglioso tra passato e presente
Il quarto capitolo della saga The Elder Scrolls, Oblivion, viene rilasciato nel 2006 per tutte le principali piattaforme. Ambientato nella regione della capitale di Tamriel, Cyrodiil, questo capitolo segna la massima espressione della serie per quanto concerne l’equilibrio fra storia principale, trame secondarie e varietà del mondo. Il gioco, infatti, esibisce una main quest che coinvolge il giocatore fin dalle primissime fasi, per poi gradualmente lasciarlo libero di decidere in piena autonomia come e dove procedere. La qualità di talune storyline legate alle gilde, in particolare quella dei maghi e della Confraternita degli Assassini, è assoluta e, più in generale, Oblivion dà costantemente l’impressione di essere pieno di sorprese. Il semplice gesto di acquistare una casa nella città di Anvil innesca una serie di peripezie originali e curate nei minimi dettagli che contribuiscono a tenere alta l’attenzione del giocatore. Si potrebbe argomentare che la varietà delle quest di Oblivion rappresenti anch’essa un picco per la serie.
Rispetto a Morrowind vengono implementate praticamente tutte le novità che saranno poi mantenute in Skyrim: come già ribadito in precedenza, gli indicatori di missione sulla mappa e lo spostamento rapido verso le destinazioni già scoperte rendono l’esperienza di gioco più user-friendly ed accessibile.
Al fine di riuscire nell’impresa di porre fine all’invasione dei Daedra, il protagonista deve sigillare i cancelli dell’Oblivion che spuntano per tutta Cyrodiil e dintorni: questo atto verrà ricordato nella storia di Tamriel come la fine della crisi dell’Oblivion. Ogni cancello è un mini-dungeon molto diversi dalle solite rovine o caverne e che pertanto conferiscono all’atmosfera medievaleggiante del gioco un’ulteriore fonte di varietà estetica.
Cancello dell’Oblivion.
Naturalmente Oblivion non può rivaleggiare Skyrim per quanto concerne giocabilità ed impatto grafico, anzi talvolta il sistema di combattimento risulta abbastanza macchinoso ed i bug grafici sono presenti in quantità non trascurabili. Tuttavia The Elder Scrolls IV rappresenta una tappa fondamentale nell’evoluzione della serie e, oltre a porre le basi per il suddetto Skyrim, esso brilla di luce propria.
Conclusione: uno sguardo al futuro
The Elder Scrolls è l’apice del genere videoludico noto come GDR: nessun’altra saga è in grado di offrire ai propri appassionati un’esperienza così totalizzante ed al contempo fedele all’essenza dei giochi di ruolo carta e penna. Sebbene abbia subito un’evoluzione nel tempo, la complessità del mondo di gioco è rimasta impressionante per vastità ma soprattutto per libertà d’azione e di scelta lasciata al giocatore.
Da tempo si vocifera di un sesto capitolo, ma Bethesda è sempre rimasta silenziosa sull’argomento: la cautela è comprensibile considerando quanto iconica sia diventata questa proprietà intellettuale. Come appassionati di The Elder Scrolls, c’è da augurarsi che gli sviluppatori proteggano lo spirito della serie, ossia l’avventura, dalle attuali tendenze dell’industria videoludica a confezionare prodotti sempre più accessibili e semplificati. L’avventura non è per tutti.
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