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Doom: tra cinema e videogioco

Partire un articolo con un’ovvietà non è mai una buona cosa, ma nel 1995, alla tenera età di sei anni, mi avvicinavo per la prima volta ad un vecchio computer donatomi da mio zio. Diceva che dentro c’era diversi giochi, da richiamare con relative stringhe che dovevo digitare ogni volta. Tutti i titoli non li ricordo, ma alcuni sì, in special modo tutti quelli a cui ho speso un numero indefinito di ore che hanno portato poi mia madre a bollare tutto come intrattenimento malsano: Wolfenstein 3D, The Secret of Monkey Island e chiaramente Doom e Doom 2.

Velocità, sangue, mostri, azione serrata e tante armi con cui fare una carneficine di demoni, Doom diventò quel gioco ‘proibito’ per la mia età che non vedevo l’ora di giocare, inebriato dal fattore entertainment che poteva regalare ad un utente così giovane. Gli stessi due titoli, assieme a Wolfenstein, sono ancora considerati delle pietre miliari del genere, quelli che hanno impostato le basi per degli FPS, rivoluzionando il modo di giocare, proponendo una nuova prospettiva e trame mai banali.

In qualche modo ci spostiamo facilmente di quasi una decina di anni quando uscì Doom 3 nel 2004. Il modo di intendere il videogioco chiaramente era mutato come la stessa fetta di videogiocatori che, dinanzi la promessa di un altro capitolo che avrebbe rivoluzionato nuovamente il genere, non si è fatta mancare in alcune critiche circa il motore di gioco, il sistema di illuminazione e la mancanza di un numero elevato di nemici da far fuori, ma globalmente l’arrivo di Doom 3 risuonò parecchio, tanto da attirare le attenzioni di Hollywood. Comunque il resto della saga è storia nota, con un annunciato Doom 4 cancellato a metà lavori per essere ripensato da 0 per arrivare oggi a quel Doom del 2016, reboot dall’incredibile ritmo di gioco, un ritorno al passato con tutte le meccaniche di oggi, un “uccidi o sarai ucciso” che ha messo tutti d’accordo con un’impaziente attesa sulla comunicazione di un sequel.

Di quel Doom 4 esistono pochi footage o teaser che mostravano un’ambientazione molto diversa dal Doom arrivato sugli scaffali,  una guerriglia urbana totalmente inedita per la serie e forse troppo lontana dallo spirito originale. Da quel poco che si poteva vedere era facile ipotizzare la volontà di abbandonare gli spazi marziani angusti per portare l’invasione demoniaca direttamente sulla Terra. Chissà se sarebbe stato apprezzato o no questo cambio.

Ma torniamo a poche righe prima, quando nel post lancio di Doom 3 si decise che il franchise era potenzialmente promettente anche sul grande schermo, magari basandosi su uno stile narrativo e produttivo che aveva fatto la ‘fortuna’ del Resident Evil cinematografico del 2002. Così, nel 2005 arrivò al cinema, semplicemente, Doom, con un cast che letto ora potrebbe attirare al cinema migliaia di persone: Dwayne “The Rock” Johnson, Karl Urban e Rosamund Pike. La trama rispecchiava apparentemente le premesse videoludiche, difatti grazie ad un portale stile Stargate, gli umani sono arrivati su Marte, costruendo un sofisticato laboratorio per fare degli esperimenti su quelli che sembrano i resti di un’antica civiltà estinta. Chiaramente quando i contatti con la base su Marte si interrompono, una squadra d’assalto viene mandata a investigare. Ed ecco qui che arrivano i primi problemi.

Ora, via il dente, via il dolore: il film di Doom è stato un totale insuccesso (ahimè, gran parte dei film che andremo a trattare qui saranno per la maggior parte sempre brutti, se non bruttissimi) sia di critica che di boxoffice, generando una perdita di quasi venti milioni di dollari per i produttori. Come già sottolineato più volte, la necessità di rileggere o reinterpretare alcuni eventi base di trama è un atto necessario al fine di applicare il nuovo tessuto narrativo nel medium di fruizione, in questo caso il cinema, ma il film purtroppo ometteva tutta la parte di dimensioni parallele o varchi verso gli inferi per ricondurre tutto all’ennesimo virus, identificato come un enzima, che se a contatto con persone dall’indole malvagia, donava forza sovrumana e aggressività con conseguente trasformazione in demone, invece a contatto con persone buone, tutto si sarebbe potuto tenere sotto controllo aiutato anche da un portentoso fattore di autoguarigione.

Insomma, l’ennesimo pseudo zombie movie dove la risolutezza morale dei protagonisti era stata ridotta alla semplicistica distinzione tra buoni e cattivi. Una soluzione davvero mediocre se non al limite dell’infantile. C’è da dire che comunque le premesse iniziali della pellicola erano anche delle migliori, ma più ci si avvicinava alla fine e più il livello di imbarazzo aumentava a dismisura. La pietra tombale sulla riuscita del film arrivò dalla famosa sequenza dove per circa cinque minuti il film si trasforma in un vero e proprio FPS dove chiaramente l’interazione tra spettatore e film era nulla, venendo a rompere più di qualche parete di logica nel modo in cui molte volte, sbagliando, i giornalisti definiscono un film come un videogioco.

Che sia stata una scelta per ‘omaggiare’ il genere, poco importa. Ad oggi quella scena è davvero inguardabile e oggetto di derisione da più parti. Certo, ci sono alcune piccole chicche per i veri appassionati del genere – la presenza del BFG oppure il personaggio del dottor Carmack, omaggio a uno dei due ideatori della saga, John Carmack – ma sempre troppo poco per salvare un film oggi finito nel dimenticatoio da gran parte degli spettatori e che non è mai inserito nei consigli di visione da amici o conoscenti.

Gabriele Barducci

Tra un tunnel carpale e l'altro. Cinema e altri feticci nerd su The Games Machine, Nocturno e chiaramente Gameplay Cafè. Amo The Rock, Independence Day, Destiny e il DC Extended Universe, tutti buoni motivi per farmi odiare.

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