Editoriale

Che fine ha fatto il Dr. Jones?

I miei primi ricordi legati ai videogiochi provengono quasi tutti da uno specifico titolo della fine degli anni ’90. All’epoca avevo appena sette anni, forse addirittura sei. Il PC era quella cosa che usava mio papà per portare a casa la pagnotta e poco altro, nel frattempo io ero un grandissimo divoratore di VHS. La maggior parte ereditate da mia sorella più grande: un po’ tutto il repertorio Mediaset di quegli anni, Fantaghirò, i classici Disney e un certo archeologo tutto azione e poco libri ammuffiti chiamato Indiana Jones.

 

Credo di aver visto i Predatori dell’Arca Perduta e L’Ultima Crociata qualche centinaio di volte durante le elementari. Il Tempio Maledetto no — mia sorella non lo aveva mai registrato e dovetti recuperarlo un po’ più avanti da Blockbuster (a proposito di reperti del passato). L’ultimo film della trilogia dell’archeologo americano è datato 1989: dovevo ancora nascere, e all’epoca Il Teschio di Cristallo non era ancora stato contemplato dalla perversa mente di Steven Spielberg e George Lucas. Ma non potevo certo accontentarmi di guardare e riguardare tre film —anzi, due—, così il resto lo faceva l’immaginazione. Con i miei amici, anche loro discreti fan dei film, passavo i pomeriggi a giocare ad immaginare nuove avventure. Una sera però succede l’inaspettato: accompagno mio papà al centro commerciale, passiamo anche per il negozio di informatica e nel cestone delle offerte vedo un volto conosciuto. É quello di Indiana Jones, raffigurato in una bellissima illustrazione che non ha nulla da invidiare alle locandine dei film originali. Ma niente Predatori, Tempio maledetto o Sacro Graal. É una avventura completamente nuova, una che non conoscevo, chiamata “Indiana Jones e la macchina infernale”. Il gioco era uscito da un paio di anni all’epoca, così complice il costo contenuto non ci volle molto per convincere mio padre ad acquistarmelo. Un paio di ore dopo ero davanti al computer ad installare il gioco. Il mio primo gioco per PC.

Ricordo benissimo la missione sul Fiume Tien Shan, Indy ha recuperato un gommone dai sovietici e deve attivare il ponte che permette l’accesso ad un antico monastero abbandonato. La chiave necessaria è costituita da quattro candele votive che devono essere recuperate. A bordo del gommone dobbiamo affrontare le rapide, evitando attentamente le rocce aguzze, andando di sito in sito per recuperare individualmente ciascuno dei pezzi. Ne ho tre su quattro, l’ultimo è all’interno di un piccolo tempio di legno sulle sponde del fiume; scendo dal gommone ed ecco che davanti a me mi aspetta l’ultima candela, la raccolgo ma qualcosa di strano cattura la mia attenzione: un enorme e velenosissimo ragno si è calato a pochi centimetri dalla faccia di Indiana Jones. Io faccio un salto di tre metri e grido come una ragazzina, l’archeologo viene morso e muore di lì a pochi minuti —mai rimanere a secco di antidoti, lezione imparata. Il mio primo trauma legato ad un videogioco. E probabilmente la causa di una certa aracnofobia che mi accompagna ancora adesso. (Edit, rigiocando il gioco di recente scopro che ricordavo male: i ragni erano due e non uno. Infarto non evitato nemmeno questa volta) Ma di ricordi ce ne sono tanti altri, i primo combattimenti coi boss, le cutscene con l’iconico Dr. Gennadi Volodnikov e gli enigmi che mettevano a dura prova la mia mente di ragazzino — uno in particolare mi tenne così impegnato che la soluzione finì per venirmi per sogno, una cosa che neanche l’agente Cooper di Twin Peaks.

Indiana Jones e la Macchina Infernale segna il debutto di Indiana Jones nel mondo delle avventure 3D. Il titolo è ambientato nel 1947, e segue le gesta di Indy a distanza di diversi anni dall’Ultima Crociata. Il nazismo era stato finalmente sconfitto, e nel mondo imperversava un altro impero del male, quello sovietico. La prima bozza di idea nasce durante una cena tra George Lucas e Hal Barwood, uno dei principali creativi della LucasArts. In quella occasione Lucas confidò a Barwood di voler produrre un quarto episodio di Indiana Jones, e che avrebbe voluto ambientarlo negli anni ’50. “Fammi indovinare, ci saranno gli alieni, l’incidente di Roosevelt e i sovietici”, rispose sornione l’ex LucasArts. Come sapiamo ci aveva preso, ma George Lucas all’epoca si limitò a glissare. In quegli anni non ci furono i presupposti per girare quello che sarebbe diventato qualche anno dopo “Indiana Jones e il Teschio di cristallo”, così fu Barwood a presentare alla Lucas Film la stessa idea, ma per farci un videogioco. Gli risposero che non poteva assolutamente includere gli alieni, e lui ritornò alla carica presentando una storia affascinante dove l’archeologo americano se la doveva vedere con una misteriosa tecnologia che risalirebbe addirittura ai tempi della Torre di Babele. Aggiudicato, il videogioco si fa. Siamo nel 1999, e nel frattempo un’altra eroina si era fatta strada nell’immaginario collettivo a colpi di pistole akimbo e tombe depredate: Tomb Raider. Così come Lara Croft deve più di qualcosa al Dr. Jones, anche la Macchina Infernale prende in prestito più di qualche meccanica dalla popolare saga videoludica a partire dall’introduzione dei sopracitati enigmi. Alcuni di ingegno, altri, invece largamente basati su meccaniche platform, tra rincorse, salti e un uso smodato della iconica frusta per superare anche i burroni più minacciosi —ma se i primi erano quasi tutti affascinanti e ben congegnati, le parti platform erano celebri per portare il giocatore ad una certa frustrazione. L’unico grande difetto del titolo poggiava tutto nei controlli legnosi anche per l’epoca: niente mouse, come si usava una volta, la visuale si muoveva in automatico spostandosi con le freccette, anche la mira era automatica, ma nessuna delle due cose funzionava sempre egregiamente. Per usare la frusta era necessario posizionarsi esattamente sotto l’appiglio a cui la si voleva legate, finendo per perdere una enormità di tempo a capire dove mettersi, idem per scale e estremità a cui aggrapparsi, entrambe cose che richiedevano una precisione che i comandi del gioco non potevano offrire. Morale?

Il gioco risultava divertente lo stesso, nonché una delle più belle avventure in 3D degli anni ’90. La storia era affascinante, e, soprattutto, coerente con l’Indiana Jones delle pellicole. Non doppiato da Ford nella versione americana (altra cosa notata a più riprese nelle recensioni dell’epoca), mentre quella italiana poteva contare sulla voce storica di Michele Giammino — che aveva doppiato tutti i film della saga.

Una storia che non aveva nulla da invidiare a quella dei film e che vedeva Indy affrontare i russi e forze occulte a caccia di artefatti ed idoli nei ghiacci dell’Asia centrale, all’interno dei vulcani attivi di Palawan e, addirittura tra piramidi e miniere dell’Egitto. Sono proprio le ambientazioni a suscitare il plauso della critica: IGN le descrive come migliori di quelle di Tomb Raider, e GameSpot parlava di un game design esteticamente ben disegnato, grazie ad architetture e decorazioni convincenti. Nota di merito anche per la bellissima colonna sonora di Clint Bajanian, che riprendeva e riarrangiava i temi di quella di John Williams con grande estro.
Indiana Jones e la Macchina Infernale riusciva in un’arte che pochi altri tie-in dell’epoca avevano appreso, ma che LucasArts aveva già dimostrato di padroneggiare: quella di catturare l’anima di una saga cinematografica, espandendone in modo coerente e divertente l’universo narrativo.
Pochi anni dopo sarebbe uscito un ulteriore seguito delle avventure di Indiana Jones chiamato La Tomba dell’Imperatore, ambientato questa volta nel 1935 —facendo dunque da prequel delle vicende viste nel Tempio Maledetto. Tocca poi ad un mediocre terzo capitolo, Il Bastone del Re per PSP, PlayStation 2 e Nintendo Wii. Il gioco esce nel 2009, e da lì ad oggi del Dr. Jones non si è più avuta traccia all’interno del medium video-ludico.

Un figlio illegittimo chiamato Nathan Drake

E mentre la saga videoludica di Indiana Jones deragliava pesantemente dopo il capitolo del 2002 e il dimenticabile Bastone del Re del 2009, un altro iconico predatore di tombe votato all’azione faceva la sua comparsa per la prima volta nel 2007: parliamo di Nathan Drake, protagonista della felice saga di Ucharted. I riferimenti al personaggio inventato da Lucas e Spielberg sono palesi: inizialmente sono gli stessi tratti fisionomici di Harrison Ford ad essere usati per modellare la prima versione di Drake, ma ancora prima che nel look (alla fine si optò chiaramente per un’altra direzione) il protagonista di Uncharted ricorda Indiana Jones nello spirito, grazie ad una verve spigliata e molto autoironica. Un personaggio con la battuta sempre pronta anche nelle situazioni più avverse. Una bella differenza rispetto alle tinte più dark di Tomb Raider. E pure il soggetto dei videogiochi, nella loro complessa semplicità, ricordano proprio gli archetipi di quelle vecchie avventure che avevano a loro volta ispirato la saga di Lucasfilm. C’è azione, avventura, una bella donna, dei nemici avidi ma bloccati su enigmi che solo il protagonista sa risolvere, e una impennata di elementi esoterici e magici una volta trovato il tesoro finale. “Ho assolutamente amato i Predatori dell’Arca perduta”, aveva detto non a caso Josh Scherr di Naughty Dogs, parlando di come sia nato il progetto. “L’ho visto al cinema quando avevo dieci anni. Ho sempre amato quel tipo di avventura romantica”. Il pubblico mostra ancora una volta di avere grande sete per avventure e mistero, e la serie di Ucharted sfornerà quattro capitoli e altrettanti spinoff, tutti con vendite milionarie. In quel periodo Squarenix prende la palla al balzo rilanciando la sua eroina Lara Croft con una trilogia-reboot che, sebbene forse un passo indietro rispetto al successo di Drake, porta a casa anche lei buoni risultati e, soprattutto, offre al pubblico una nuova epopea fatta di cacce al tesoro, reperti, tombe infestate, e poteri sovrannaturali.

Ma in questa nuova era d’oro del genere action adventure —sicuramente ora ibridato con meccaniche più marcatamente shooter—, il Dr. Jones preferisce godersi la pensione. Perché?

Quanto ci manca Indiana Jones

Nel 2012 Disney acquista Lucasfilm, con tutte le sue licenze e i suoi dipartimenti interni. Un anno dopo è tempo di spending review, e la prima vittima è proprio la divisione videogiochi LucasArts. Così si chiude la storia della casa di sviluppo che era entrata nella leggenda, soprattutto grazie alle sue avventure grafiche —che pure non venivano più prodotte dal 2004. Monkey Island, Grim Fandando e tutta la produzione legata a Star Wars, con perle del calibro di Dark Force, X-Wing Alliance e Rogue Squadron. Ma anche i videogiochi con Indiana Jones, non solo le avventure in 3D di fine anni 90 e inizio anni 2000, ma anche delle vere e proprie gemme appartenenti al genere delle avventure grafiche: Indiana Jones e l’Ultima Crociata, ad esempio. Ma soprattutto il bellissimo Fate of Atlantis, entrato nell’olimpo del genere.

Anche in questo caso una storia originale, scritta dalla mente vivace di Hal Barwood che avrebbe poi creato anche la sceneggiatura della Macchina Infernale. Motore grafico SCUMM (lo stesso di Monkey Island), una seconda edizione con dialoghi a voce registrati nel 1993. Si pensò anche ad un sequel, di cui c’era già uno script avanzato scritto sempre da Barwood: Indiana Jones and the Iron Phoenix. Ambientato dopo la Seconda Guerra mondiale, i nemici erano nuovamente i nazisti, fuggiti in Sud America e impegnati a cercare un artefatto con cui resuscitare Adolf Hitler. Il progetto fu cancellato dopo che venne gentilmente spiegato a LucasArts che una trama del genere avrebbe, di fatto, reso invendibile il gioco in Germania, uno dei mercati più importanti per l’azienda. Lo script fu comunque riadattato per una graphic novel pubblicata da Dark Horse. Dopo la chiusura di LucasArts, Star Wars continua a vivere nell’universo fatto di pixel dei videogiochi grazie ad un accordo con EA. Abbiamo qualche notizia di almeno un paio di titoli a tema Star Wars che, nonostante fossero molto interessanti sulla carta, vennero cancellati nel 2012, dopo l’acquisizione da parte di Disney: 1313 con protagonista Boba Fett, e un altro ancora dalle tinte molto dark dedicato a Darth Maul. Se chiudete gli occhi e ascoltate bene potete sentire ancora oggi un lamento scolpito per sempre nello spaziotempo: sono le bestemmie dei fan di Guerre Stellari. Ma questa è un’altra storia.

E Indiana Jones? Il nulla totale, era evidentemente uscito dal radar anche all’interno dell’azienda di George Lucas. Con la rinascita del franchise di Star Wars tutti i riflettori ovviamente sono puntati su Luke Skywalker, Darth Vader e nuovi soci. Ma in futuro chissà.
Il quinto capitolo di Indiana Jones uscirà nelle sale a luglio del 2021, con l’inizio delle riprese fissato da Spielberg per il 2019 e Jonathan Kasdan alla sceneggiatura (quello di L’Impero colpisce ancora, I predoni dell’Arca peduta… devo continuare?). Da una parte il cuore ci porta a sperare in una nuova rinascita della saga anche per quel che riguarda i videogiochi —magari con un titolo sviluppato proprio da Naughty Dogs vista che la licenza di Jones non ha ancora un’esclusiva. D’altra parte un progetto così ambizioso richiede tempo e anni di lavoro, il fatto che nulla si sia mosso fino ad adesso non è incoraggiante.
GOG un paio di settimane fa ha resuscitato la Macchina Infernale da un oblio che durava da 19 anni, grazie ad una release digitale compatibile con i sistemi Windows più recenti. Ho deciso di farmi un tuffo nella nostalgia rigiocandolo per l’ennesima volta. In futuro chi sa, magari Indiana Jones ha ancora qualche avventura da regalarci prima di agganciare la frusta  al chiodo una volta per tutte.

Umberto Stentella

Veneziano di terra ferma e classe 1994. Nella vita prende sul serio poche cose, tra queste Star Wars, le energy drink e i gatti. Moderatamente boxaro, ama qualsiasi gioco dove si faccia pew pew. Si è occupato di cronaca e tecnologia per alcune testate online e cartacee.

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