Recensione

Detroit: Become Human

Il mio rapporto con i titoli di Quantic Dream è stato come un giro sulle montagne russe: alti e bassi, esaltazione e fastidio per il potenziale talvolta inespresso.
Devo fare altresì un mea culpa, quello di essere stato TROPPO generoso con Beyond: Due Anime, perdonando quelle sezioni noiose e il finale a dir poco bizzarro.

Fatte queste doverose premesse, ho sempre apprezzato la grande cura cinematografica posta nella narrazione, fotografia e colonna sonora; aspetti importanti al pari del gameplay soprattutto nelle produzioni che fanno leva su questi aspetti.
A tal proposito, se non conoscete appieno il pedigree dello sviluppatore francese, vi invito a leggere la prima e seconda parte della nostra monografia dedicata.

Produzioni quali The Last of Us, in realtà, mi(ci) hanno fatto capire che si può creare un grande impianto narrativo senza sacrificare particolarmente il gameplay.
La strada tracciata da Quantic Dream prende binari differenti, quelli di dare al giocatore la possibilità di plasmare la propria storia all’interno di confini ben delineati. Un obiettivo nobile, ma frutto di compromessi più o meno eleganti che possono comunque produrre un risultato efficace: proprio in questa categoria ricade Detroit: Become Human.

Con l’ultimo titolo di David Cage, infatti, si è raggiunta probabilmente la sublimazione di questa “scuola di pensiero”, soprattutto per quanto riguarda le idee applicate a sceneggiatura e gameplay, ben radicate nella mente dello sviluppatore.

Sublimazione che ne rappresenta anche un limite, però, come avrò modo di raccontarvi nel corso della recensione.

Di libri, film e altri medium dedicati all’immaginario androide ne esistono quanti ve ne pare; nel corso della nostra intervista David Cage ha affermato di aver apprezzato particolarmente “Singularity is near” di Raymond Kurzweil, un saggio che fotografa il momento nel quale le macchine divengono più intelligenti della stessa umanità.
Ma l’iconico sviluppatore francese ha pure specificato di aver costruito una visione personale di tali accadimenti, che fanno da sfondo alle possibilità messe nella mani del giocatore.

La città teatro ideale non poteva che essere Detroit, in un futuro alternativo rispetto a quello che si prospetta per davvero, datato 2038.
Piccola digressione personale, tra le tante previsioni sul futuro del mondo, quella che prevede la presenza di androidi mi sembra abbastanza plausibile, ma non così vicina nel tempo: probabilmente la nostra generazione passerà a miglior vita molto prima, quindi #checenefotte.

Nella metropoli del Michigan, ad ogni modo, vi è la più grossa produzione di macchine senzienti umanoidi, adibite a scopi diversi e in grado di elaborare una quantità di dati impensabili per la nostra mente.
Ma come ogni software che si rispetti, non mancano bug oppure “backdoor” – piani B – instillati dai creatori per ogni evenienza e scopo, sia esso nobile o meno.
Le instabilità di sistema hanno portato alla formazione dei cosiddetti devianti, androidi che hanno maturato una propria coscienza o presunta tale, al punto da manifestare sentimenti quali ambizione, disaccordo, paura, volontà di essere semplicemente liberi.

No, non mi è capitato di vedere nessuno schermo blu della morte.

La lotta per l’emancipazione viene vissuta attraverso tre punti di vista ben delineati, affiancati da molteplici sfumature che si riflettono sull’estetica della città americana e sui rapporti con gli altri personaggi.

Innanzitutto Markus, il quale si trova ad avere un ruolo da leader nel veicolare questo sentimento di emancipazione; Connor, agente investigativo androide che indaga proprio sullo stato di devianza; Kara, che manifesta chiari segni di empatia verso la bambina alla quale è assegnata, al punto da voler vivere una vita libera e indipendente.
Proprio quest’ultima, protagonista del corto datato 2013 e mostrato durante la GDC di San Francisco – io c’ero! – rappresenta uno dei primi modelli prodotti dalla Cyberlife, l’azienda leader nella produzione di androidi.

In Detroit: Become Human si parte con un capitolo dedicato a ciascuno dei tre protagonisti, che non mancheranno di incrociare le proprie strade anche in base alle scelte operate dal giocatore.

La struttura di gioco non è molto dissimile da quella di Heavy Rain, solo che adesso la narrazione si dirige verso una scala maggiore; c’è inoltre migliore fluidità durante le sequenze interattive di tipo quick time, anche perché sono state eliminate gran parte di quelle operazioni superflue tipiche che abbiamo visto in Heavy Rain. Per capirci, la scena nella quale Kara serve da mangiare ad Alice e suo padre, dovendo pulire i piatti etc, ha lo scopo di introdurre gli eventi che governano la devianza dell’androide modello AX 400.

Le sequenze di azione, infine, sono perfette per un gameplay di tipo “statico”, godendo di una pressione dei tasti più coerente con quello che succede su schermo e in generale essendo più coinvolgenti.

Le decisioni importanti vanno prese in un lasso di tempo limitato, possono incidere sul destino dei protagonisti e del loro rapporto con figure chiave della storia. Tale rapporto può migliorare o deteriorarsi, sbloccando percorsi aggiuntivi o situazioni nelle quali un aiuto aggiuntivo può risultare fondamentale: banalmente se avete salvato un personaggio oppure ne siete diventati amici, questi potrebbe intervenire aiutandovi oppure sacrificandosi al posto vostro, in occasione di scelte “sbagliate” o di fallimento delle sequenze di azione.
Fino a giungere alle macro decisioni legate ai finali multipli: tutti gli interrogativi verranno risolti tranne uno, riguardo il quale dovrete lavorare di fantasia, lasciando inoltre uno scenario per un eventuale – assolutamente non confermato! – seguito.

Mi faccio ambasciatore di un’eventuale domanda: si può arrivare ad una durata dell’avventura anche dimezzata nel caso in cui si dovesse giocare “male”, saltando passaggi o sacrificando i protagonisti?

La risposta – come prevedibile – è “ni”, poiché arrivano in soccorso alcuni espedienti narrativi talvolta troppo didascalici. Chiaramente si possono saltare interi capitoli e altri ancora sono mutualmente esclusivi tra loro in relazione alle scelte effettuate, ma come dicevo ad inizio post ci sono dei confini ben delineati entro i quali muoversi liberamente.

A tal proposito l’interfaccia proposta da Quantic Dream è eccellente: alla conclusione di ogni capitolo viene mostrato il personaggio che lo ha affrontato e un diagramma con il percorso intrapreso – in modo dettagliato – assieme alle altre diramazioni ed “extra”. È quindi permesso ricominciare il capitolo da vari checkpoint allo scopo di provare strade differenti, con la possibilità di scegliere se salvare i progressi, e quindi modificare il proseguo, oppure semplicemente esplorare accadimenti differenti.

Una volta plasmata la propria storia, quindi, è molto semplice divincolarsi tra i capitoli per sperimentare strade alternative.

La mia prima “run” col gioco è durata circa undici ore, in seguito mi sono dilettato nel riaffrontare alcuni passaggi per sciogliere dubbi ulteriori sulla trama, fino a sperimentare destini differenti per ciascuno dei tre protagonisti.

Riallacciandomi alla sublimazione enunciata ad inizio articolo, Detroit: Become Human è un bel gioco, soprattutto quando racconta le storie dei suoi personaggi in una maniera intima, personale, in grado di coinvolgere e appassionare all’interno di capitoli che eccellono per sceneggiatura e narrazione. Nel momento in cui la trama prende respiro e si estende a tutta la città di Detroit, si capisce più facilmente cosa succede in base alle scelte, fino ad accadimenti prevedibili e per questo banali.

Insomma, David Cage ha osato poco dal punto di vista della scrittura, sull’altare di voler rendere coerente ogni diramazione della storia e col risultato di vanificare, in parte, una sceneggiatura così ben costruita nelle fondamenta.

Non siamo ai livelli di “follia” propri di Farenheit  né abbiamo particolari buchi di sceneggiatura come in quel momento specifico di Heavy Rain; Detroit trasuda qualità per larghi tratti, senza però toccare punte di eccellenza nel momento in cui dovrebbe diventare grandioso e “scalare” assieme alla natura della stessa trama.

Mi rendo conto che è difficile farvi capire cosa intendo senza fare esempi specifici e quindi spoiler, non è però mia intenzione rovinare l’esperienza a chi vuole giocare il titolo, avremo modo di parlarne in seconda battuta mediante dirette e Late Show dei Povery.

Poco da dire, invece, riguardo l’impianto tecnologico, per certi versi davvero impressionante.

La recitazione degli attori mediante motion capture è spesso eccezionale, in aggiunta al rendering della pelle e dei tessuti. E poi la fotografia, la profondità di camera e la telecamera offrono degli scorci con un realismo davvero impressionante, in una Detroit magistralmente riprodotta secondo la visione degli sviluppatori, senza troppi voli pindarici al di là di quelli sugli androidi stessi.
La ciliegina sulla torta, come oramai consuetudine, l’utilizzo dell’HDR ad esaltare il sistema di illuminazione.

Anche le animazioni e le transizioni sono meglio amalgamate tra loro, al netto di quando volutamente si gioca “fuori tempo”; ho apprezzato quel mix frutto di lavoro tecnico ed artistico in grado di aumentare l’empatia verso i protagonisti e le loro espressioni facciali: i loro occhi sono vivi, espressivi, molto di più che nelle precedenti produzioni di Quantic Dream.

La colonna sonora rappresenta un altro punto di forza, tra l’altro tarata in maniera differente per Markus, Connor e Kara: brani di qualità sopraffina si adattano a quanto mostrato su schermo, esaltando i momenti topici e mettendosi in disparte per quelli emotivi; d’altronde fin da Heavy Rain ho ravvisato una colonna sonora di grande pregio.

Il doppiaggio italiano, infine, gode di alti e bassi. La recitazione è ok, compreso il tono; non sempre, però, i dialoghi legano adeguatamente tra loro in seguito ad una scelta, segnando la differenza più marcata rispetto ad un doppiaggio originale grandioso anche perché ad appannaggio dagli stessi attori che hanno dato le sembianze ai personaggi. Per godere appieno di questa parte sarebbe consigliabile giocarlo in inglese e al massimo con i sottotitoli in italiano, ma non mi offendo se vorrete giocarlo interamente nella lingua del Bel Paese.

INFO UTILI

Ho giocato Detroit: Become Human su PlayStation 4 Pro, terminando ovviamente il gioco e poi dilettandomi in scelte e finali alternativi, oltre alla consultazione del materiale extra. In aggiunta ho mangiato 4 pizze e bevuto in media 3 caffè al giorno.

Durata
  • Ho finito il gioco in circa 11 ore, come detto poi esistono un certo numero di macro finali e tutti i capitolo sono estremamente rigiocabili.
Struttura
  • Gameplay e sistema di gioco sono simili ad Heavy Rain.
  • Il livello di difficoltà standard si chiama Esperto, ve ne è uno chiamato Principiante nel quale c'è maggiore tempo per le scelte e ci sono minori possibilità che un personaggio venga ucciso.
  • È possibile rigiocare ciascun capitolo per provare altre strade, scegliendo se salvare i progressi o meno.
  • Supporto HDR, 4K checkerboard su PlayStation 4 Pro.
  • Possibilità di selezionare i sottotitoli secondo tre diverse grandezze
Collezionabili e Extra
  • Non ci sono collezionabili durante il gioco nel senso classico, al di là di alcune riviste digitali da leggere, che completano la narrazione attorno alla Detroit del 2018. Chiaramente le azioni e le scelte possono sbloccare scenari e percorsi differenti
  • Ad ogni capitolo si ottengono dei punti che possono essere spesi per sbloccare bozzetti, dettaglio anche visivo di ciascun personaggio, musiche da ascoltare, corti dedicati ad alcuni dei personaggi
Scheda Gioco
  • Nome gioco: Detroit: Become Human
  • Data d uscita: 25 Maggio 2018
  • Piattaforme: PlayStation 4
  • Lingua doppiaggio: Italiano
  • Lingua testi: Italiano

Detroit: Become Human manca un po’ di quell’anima costantemente ricercata dai suoi protagonisti, rimanendo ad ogni modo una bella esperienza, grandiosa tecnicamente, che non presenta particolari sbavature o cali qualitativi come successo con altri titoli dello sviluppatore francese. Difetta soprattutto in scrittura, osa poco nelle battute finali, ma rimane forse la miglior rappresentazione di questo modo di intendere i videogiochi.

Tanzen

Patron di Gameplay Café, Senior Editor Dissapore.com, ex Multiplayer.it. Direttore culturale videogiochi Napoli COMICON / Sommelier 🍷/ dispensatore di capate in bocca!

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