Great games don’t have to be big. Questa la frase in evidenza sul sito ufficiale di Mi’pu’mi Games, un piccolo team indie viennese nato nel 2009 con l’obiettivo di offrire a veterani dell’industry una prospettiva di lavoro più umana e meno pressante. Sebbene il team abbia contribuito allo sviluppo dell’engine del nuovo Hitman e abbia già affrontato una serie di commissioni in outsourcing, The Lion’s Song è stata la prima esperienza originale portata avanti dal gruppo, ora a lavoro su ben sei nuovi progetti.
Il titolo di esordio di Mi’pu’mi Games rispetta in pieno la tagline con cui si apre il testo di questa recensione, presentandosi difatti sotto le vesti di un videogioco intimista, story driven e statico volto a rappresentare – attraverso quattro capitoli interconnessi – la Belle Epoque austriaca di inizio ‘900, fino ad arrivare all’inevitabile epilogo della prima guerra mondiale, il tutto con una qualità di scrittura davvero degna di nota.
A circa un anno dall’uscita dell’ultimo episodio, The Lion’s Song arriva anche su Nintendo Switch, dopo essere stato portato persino su iOS ed Android. Se volete saperne di più non vi resta che leggere la nostra recensione!
A metà tra una visual novel e un’avventura punta e clicca, The Lion’s Song è uno di quei videogiochi che di ludico hanno ben poco, avvicinandosi a quella formula che ha reso celebre Kan Gao e il suo To the Moon. La narrativa risulta per l’appunto la grande ed unica protagonista della complessa parabola che vi troverete a percorrere nei panni dei quattro personaggi protagonisti (non considerando alcuni flashback dell’ultimo episodio), ovvero Wilma, Franz, Emma ed Albert.
Wilma è una talentuosa compositrice che si trova, per un colpo di fortuna, a essere notata da Arthur, rettore di una cattedra nella prestigiosa città di Vienna, il quale la aiuterà a trovare la sua ispirazione nel momento di maggiore difficoltà, senza preoccuparsi della pressione imposta sulla ragazza. Franz, invece, è un astro nascente dell’alta società viennese, simbolo di quella figura di autore riflessivo e decadente che non poteva mancare in una rappresentazione efficace delle correnti artistiche di inizio XX secolo. I ritratti pittorici di Franz pongono le loro fondamenta sugli strati psicologici di ogni persona, strati che il ragazzo riesce a vedere ad occhio nudo, quasi per istinto mosso da un analisi che non coinvolge tuttavia sé stesso.
Se Wilma e Franz costituivano le basi umanistiche della tarda Belle Epoque, Emma risulta senza dubbio l’avvisaglia di quelle scientifiche, ormai lontane da quelle contaminazioni di misticismo che avevano caratterizzato le ricerche dei secoli precedenti. Nonostante sia una geniale matematica, Emma si trova costretta in una società dove la scienza si muove a trazione maschile, precludendo alla donne l’accesso a materie di osservazione teorica od empirica della realtà. Nel tentativo di sgomitare nei circoli misogini, la donna cambia nome in Emil, appropriandosi di vesti maschili e dando vita a una serie di consapevolezze che vi lasceranno di sicuro stupiti, specie per le soluzioni – grafiche e metaforiche – attraverso le quali queste vengono raccontate.
Per ultimo, infine vicini alla fatidica morte dell’arciduca Ferdinando (casus belli della prima guerra mondiale), Albert è un aspirante giornalista che si trova ad avere l’onere di fare la chiusa delle storie sopra accennate, costituendo, assieme ai suoi tre compagni di viaggio, il fil rouge in grado di collegarle tutte, garantendo un senso di chiusura e compiutezza che non potrà lasciarvi indifferenti nella sua maturità.
Insomma, non l’aveste già capito dai toni celebrativi con cui è stata descritta la sceneggiatura, al netto di qualche difficoltà nel ritmo, l’intreccio di The Lion’s Song è riuscito nell’impresa di commuovermi e rapirmi senza ricorrere a stereotipi scontati, anzi facendo ricorso a tecniche di storytelling spesso innovative. Le quattro linee narrative non solo seguono un leitmotiv comune, pur avendo ognuna un nucleo tematico proprio, ma vantano diversi punti di contatto (più o meno diretti, fino ad arrivare a dei veri e propri twist), fili quasi invisibili guidati dall’amore, dall’amicizia e dal dramma, molte volte nascosti negli oggetti disseminati negli ambienti o nei vari dialoghi opzionali.
Ho giocato a The Lion's Song principalmente in modalità portatile, durante un weekend al mare. Mi ha tenuto compagnia nei caldi pomeriggi di luglio.
DurataCome ogni avventura story driven che si rispetti, viene data inoltre la possibilità di compiere alcune scelte per plasmare le sorti dei personaggi come meglio si crede; sebbene ci siano in effetti delle diramazioni a seconda delle opzioni selezionate, il grosso della progressione rimane tuttavia incolume, seguendo il canavaccio principale definito – entro stretti limiti – dagli sviluppatori.
Dopo aver affrontato estensivamente la sceneggiatura di The Lion’s Song, è il momento di discutere dei due pilastri che la sorreggono, ovvero il reparto grafico/artistico e la colonna sonora, entrambi, vi anticipo, di notevole caratura, in grado di innalzare ancora maggiormente questa piccola perla indie.
Gli ambienti statici – talvolta riciclati ma ricchi nel dettaglio e nella riproduzione storica – vengono portati su schermo tramite una tricromia che ricorda molto le limitazioni dello schermo LCD monocromatico del mai troppo compianto Game Boy: ecco dunque gradazioni di nero sul bianco che abbracciano un nostalgico effetto retrò, misto ad animazioni abbastanza moderne e fluide da dare vita ai modelli facciali stilizzati di protagonisti e comprimari.
La navigazione nello spazio e l’interazione con oggetti e personaggi, seppur limitata, come già accennato prima, avviene esattamente come in un punta e clicca, meccanica in diversi casi messa da parte a favore di testi e finestre di dialogo completamente localizzati in italiano con un risultato buono, ma non eccellente rispetto alla versione originale. Appare abbastanza insensato a proposito l’assenza del supporto su Nintendo Switch al touchscreen e alle frecce direzionali, forse imprecisi sì, ma sempre apprezzati come alternative allo scomodo analogico del Joy – Con sinistro.
Merita poi un plauso finale l’intero comparto sonoro del gioco, dove all’ispirata colonna sonora – mossa in primis da una nutrita orchestra di archi – si somma un ottimo campionamento di suoni ambientali. L’accento qualitativo dell’intera direzione si esplicita proprio nella Canzone del Leone, il commovente brano composto da Wilma che dà il nome all’opera di Mi’pu’mi Games e che accompagna il giocatore durante le cinque ore necessarie al completamento dei quattro episodi.
In definitiva, non vi pentirete di avere investito dieci euro in un prodotto così completo e rifinito, coraggioso nell’affrontare tematiche non convenzionali e complesse e sfaccettato nella loro presentazione. Mi auguro, qualora decidiate di acquistarlo, che ne usciate arricchiti come ne sono uscito io.
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