Monkey Island non è stato solo un grande esponente di un genere, bensì un titolo trasversale, giocato da larghe fasce di pubblico, dagli appassionati sino a coloro che non si consideravano giocatori prima di incontrare l’opera di Ron Gilbert, Tim Schaefer e Dave Grossman. Ed è proprio il primo di questi a tornare oggi sul mercato con un’avventura grafica realizzata allo stesso modo di quelle che hanno spopolato tra anni ’80 e ’90.
L’epoca d’oro dei cosiddetti “punta e clicca” ha avuto come protagonista Monkey Island, ma anche molti altri progetti fioriti attorno al motore grafico SCUMM, inaugurato con Maniac Mansion. Lo stile LucasArts è diventato così un classico, con l’elenco di verbi e gli oggetti dell’inventario, la cui scelta combinata tramite il puntatore consentiva azioni e interazioni più o meno complesse tra il protagonista e l’ambiente circostante, per risolvere enigmi e proseguire nella storia.
Thimbleweed Park vuole far finta che lo SCUMM non sia andato in pensione a metà anni ’90 e in questo ci riesce benissimo, presentando ai fan un “punta e clicca” con tutti gli ingredienti che hanno reso Monkey Island oggetto di culto: ecco quindi l’interfaccia di verbi e oggetti, la grafica pixel retrò, l’umorismo con situazioni e personaggi surreali conformi a quel tipico non-sense angloamericano, ma anche un’abbondante quantità di citazioni e autoreferenzialismi che rompono continuamente la quarta parete per ammiccare all’utente, ricordandogli i classici del passato.
Alcune di queste trovate sono molto simpatiche e funzionano bene anche se proposte ad un pubblico odierno (come gli agenti che valutano il deterioramento di un cadavere basandosi sullo stato dei suoi pixel), altre invece sono ad uso e consumo di chi ha vissuto da appassionato l’epoca delle avventure grafiche (come Delores che si rallegra di non essere dentro un gioco della Sierra, casa concorrente della LucasArts, affermando che lì la longevità veniva allungata tramite l’espediente delle pretestuose morti dei personaggi e conseguente Game Over e ripartenza dal salvataggio precedente).
In mezzo a questo tono ilare e ai personaggi tratteggiati in modo pittoresco tuttavia permane un mistero da risolvere: un omicidio consumato proprio in quel di Thimbleweed Park. La narrazione viene divisa gestendo cinque protagonisti: due agenti dell’FBI chiamati ad indagare (i quali ricordano dei loro omologhi televisivi molto famosi negli anni ’90…), uno sboccatissimo clown, un fantasma e una ragazza il cui sogno è lavorare come programmatrice di videogiochi. Sta poi al giocatore seguirne le divertenti vicende sino a trovare il collegamento, mostrando come la trama sia stata curata e regali uno sviluppo non lineare, ma intrigante e scorrevole, compiendo grandi balzi in avanti ,quasi senza accorgersene, mentre si è occupati a risolvere enigmi e sorridere per l’ennesima trovata bislacca.
Sul piano della giocabilità sono stati smussati alcuni aspetti per rendere tutto più accessibile: è possibile velocizzare gli spostamenti dei personaggi per diminuire i tempi morti e la costruzione dell’azione è piuttosto snella. Si passa dal selezionare un verbo, un oggetto dell’inventario o qualcosa/qualcuno con cui interagire, secondo lo schema tipico dello SCUMM, con un procedimento in apparenza macchinoso, ma in realtà più facile di quanto non sembri e applicabile in velocissimi passaggi.
Sono state inserite due modalità: la prima, Casual, contiene delle semplificazioni agli enigmi ed è stata pensata per i neofiti che non hanno mai giocato un titolo di questo tipo prima d’ora, segno che Gilbert non ha trascurato il pubblico contemporaneo.
La seconda, Difficile, invece si rivolge ai veterani, quelli abituati a spremersi le meningi per ore e provare ogni possibile combinazione pur di andare avanti e trovare la giusta soluzione all’enigma di turno.
Proprio i rompicapo sono il marchio di fabbrica di questa scuola videoludica, pane per i denti dei consumatori di enigmistica, talvolta facili, talvolta complicati, ma efficacemente inseriti all’interno della narrazione, spesso diventando un espediente per giustificare scenette comiche molto riuscite, gratificando chi li risolve.
Nonostante una semplificazione (dovuta) rispetto alla logica astrusa spesso adoperata in passato, il ragionamento e la risoluzione dei puzzle resta una componente centrale e la loro sola presenza non fa che sottolineare una differenza importantissima con il genere che ha soppiantato i punta e clicca: ovvero le avventure cinematiche in stile TellTale. In queste ultime la giocabilità è stata soppressa totalmente in favore di una narrazione completamente guidata e cinematografica, dove l’utente si ritrova ad essere spettatore anziché giocatore, perché privato di quelle opzioni che rendevano consistente il suo contributo. Le uniche possibilità concesse diventano banalissime interazioni con fondali e oggetti o la scelta di poche frasi, in una sequenzialità talmente lineare da far sì che il gioco si finisca praticamente da solo.
Thimbleweed Park è disponibile in formato digitale per PC tramite Steam e GoG.Com. Su console per Playstation 4, Switch e Xbox One.
DurataThimbleweed Park invece riporta in auge un fattore trascurato ma importantissimo, ovvero l’operato del giocatore, quel ruolo di timoniere e risolutore che giustifica una componente ludica degna di questo nome e che allontana qualsiasi sospetto di trovarsi di fronte ad un telefilm anziché un vero e proprio videogioco. Giocare all’ultima opera di Ron Gilbert è un’esperienza prevalentemente attiva, volta ad intrattenere l’utente ma anche renderlo partecipe e determinante al suo completamento. Il confronto con le avventure cinematiche è impietoso, mostrando come una manciata di pixel e un menù con parole e icone riesca ad essere più “videogioco” di molti titoli con fondi milionari, sceneggiatori e animazioni realistiche alle loro spalle. Thimbleweed Park rappresenta una tipologia di giochi che dimostra di avere ancora molto da dire in un panorama che si è semplificato al punto da perdere sostanza.
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