Eccoci qua, nei primi sbadigli di un novembre iniziato non esattamente col piede giusto, seduti davanti a un fumante caffè, pronti a iniziare un tour de force clamoroso e incredibilmente figo, chiaramente per quanto riguarda la sfera videoludica. A mandare alle stelle la parte più sensibile del cervello di ogni videogiocatore non è soltanto l’arrivo delle nuove console, ormai dietro l’angolo, ma anche una lunga lista di titoli super eccitanti, in uscita proprio a cavallo tra fine ottobre, novembre e dicembre.
Abbiamo già iniziato col botto nei giorni scorso con Watch Dogs: Legion, il nuovo capitolo della saga Ubisoft che ha saputo dare un forte scossone a un brand, ed è chiaro come la curva degli eventi sia destinata a salire con il prossimo arrivo di pezzi pregiati quali Assassin’s Creed Valhalla, il nuovo Call of Duty, Cyberpunk 2077 (purtroppo ancora rinviato), Hyrule Warriors: Age of Calamity e tante altre chicche.
Tra questi titoloni, però, ce n’è anche un altro, passato forse eccessivamente in sordina ma che, in realtà, meriterebbe un’attenzione decisamente più importante. E in realtà me lo aspettavo, perché al netto di un’espansione sensibile e tutto sommato rapida, il brand Yakuza continua a faticare ad entrare nel cuore e soprattutto nella sfera di accettazione e comprensione di buona parte del popolo videogiocante, soprattutto nel nostro “Bel Paese”.
Yakuza: Like a Dragon (così è stato rinominato in Europa) è arrivato – o meglio arriverà il prossimo 10 novembre – a strapparmi un sorriso in un momento difficile, non soltanto per l’imminente lockdown, ma anche a causa di una grave perdita, che in un modo o nell’altro ha segnato ancor di più un anno difficile da dimenticare, nel bene e sopratutto nel male.
E, lasciatemelo sottolineare, da appassionato della saga, non avrei potuto desiderare niente di meglio da questo nuovo capitolo, un capitolo che segna inevitabilmente un fresh start per tutto il brand e che ha saputo centrare quasi appieno tutti gli obiettivi che si era prefisso. Gioite, amici, il Drago è tornato. Non è Kiryu, ma ha gli attributi giusti per poter reggere il confronto, e io ne sono già innamorato. Vi spiego il perché, mentre il caffè si raffredda e fuori una timida pioggia è pronta a ricordarmi e ricordarci che novembre è finalmente arrivato.
Kamurocho, fine 2000. Il giovane Ichiban Kasuga, umile yakuza fedele al clan Arakawa, inizia a farsi strada all’interno del complicato e famelico mondo della malavita giapponese. Il clan Arakawa è una famiglia minore affiliata al glorioso Clan Tojo, di cui abbiamo già abbondantemente esplorato le origini grazie agli altri capitoli della serie.
I primi capitoli del gioco hanno il compito di fare da direttori d’orchestra, da apripista, per una storia che, invece, è destinata a svolgersi diversi anni nel futuro, ben oltre gli anni “d’oro” di Kiryu e delle sue incredibili gesta. Per poter salvare la propria famiglia dall’estromissione dal clan il patriarca Arakawa, per cui il protagonista Ichiban Kasuga prova un’ammirazione senza limiti e senza confini, è costretto a chiedere al suo giovane pupillo un sacrificio incredibile: sacrificarsi addossandosi la colpa per un omicidio mai commesso e salvare così le sorti della famiglia. Ichiban accetta volentieri, desideroso come non mai di ripagare un debito talmente grande da valere qualsiasi fardello, anche uno così pesante.
Ed è così che, dopo quasi venti anni passati (ingiustamente) dietro le sbarre, lo strampalato e sempre col sorriso sulle labbra protagonista (molto diverso da Kiryu sotto questo aspetto) ritorna ad assaggiare la libertà con un solo pensiero: andare a riabbracciare suo “padre”, forte della promessa fattagli ormai quasi un ventennio prima di ritornare nella famiglia una volta scontata la pena. La realtà che attende Ichi, però, è tutt’altro che idilliaca: il clan Tojo, per come lo conoscevamo, non esiste più e l’intero mondo della Yakuza è costretto ad aggrapparsi ad un filo sempre più sottile e pericolosamente vicino allo spezzarsi.
L’alleanza Omi, uno dei nemici storici della Yakuza, ha ormai preso il sopravvento in tutto il Giappone, tanto da spingere i membri più illustri del Clan Tojo a un bivio: allearsi o sparire. Tra questi figura anche l’indomito Arakawa, diventato ormai soltanto l’ombra di quel che era un tempo. La sua decaduta è il simbolo del crollo generale di tutta la Yakuza, di cui Ichiban è completamente (ovviamente) all’oscuro. Una volta uscito dal carcere, infatti, il nuovo protagonista della serie prende conoscenza di quanto accade intorno a lui e, soprattutto, nell’intera città, ormai soltanto una fotografia di un passato ormai remoto.
Parte lento (come sempre) il nuovo Yakuza, dà il tempo al giocatore di prendere conoscenza con un cambio di setting leggero, doverosamente di “transizione” ma allo stesso tempo efficace, portando su schermo un racconto nuovo ma ancorato saldamente a quelli che sono i dogmi della serie. Siamo di nuovo davanti ad una storia di potere, di tradimento, di onore e di vendetta, una storia vissuta attraverso gli occhi se vogliamo “innocenti” di un protagonista che compie un percorso di crescita che si avverte, si percepisce sulla pelle, grazie proprio all’abilità degli sviluppatori di imbastire un racconto sì maturo e “violento”, ma allo stesso tempo narrato con quell’inconfondibile tono scanzonato e giocoso della serie che grazie ad Ichiban si avverte molto di più.
Uno dei punti più “oscuri” di questo Yakuza: Like a Dragon era sicuramente rappresentato dal cambio di protagonista, uno degli aspetti più delicati di questa “transizione”. Abbandonare Kiryu, ammettiamolo, non è stato facile né per gli sviluppatori né per i fan ma Ichiban, ve lo voglio dire con il cuore in mano, ha saputo non farmi rimpiangere il buon Kazuma-san nemmeno per un secondo.
Divertente, arrogante, scanzonato, ma incredibilmente leale, affettuoso e pronto a sacrificarsi per il prossimo, il nuovo volto della serie Yakuza è un personaggio col quale è impossibile non entrare in sintonia, anche per il modo con cui si approccia agli eventi. Ha un sorriso sempre stampato sul volto, non si lascia abbattere da una sequenza interminabile di eventi spaventosamente negativi, riuscendo a mantenere intatta la sua integrità morale nonostante tutto. Ed è proprio questa la sua forza, è proprio questa la sua arma migliore: cercare di fare sempre la cosa giusta, possibilmente per il bene “superiore”.
E, inevitabilmente, diventa proprio questo il motore che muove le sue azioni, alla ricerca disperata della verità dietro agli inspiegabili eventi che hanno seguito la sua reclusione, eventi che hanno spinto il suo idolo, il suo mentore, il suo genitore acquisito ad abbandonare la via dell’onore ad ogni costo, tipica del credo di uno Yakuza, per appoggiare e, addirittura, prendere il controllo di quello che è il carnefice della stessa Yakuza.
Ichiban vuole a tutti i costi scoprire il perché di tutto ciò, ma per seguire questa strada non lascia indietro nessuno. Come da tradizione della serie, arrivare da un punto “a” ad un punto “b” non sarà immediato, ma seguirà un percorso di crescita tangibile, scandito dall’evoluzione stessa sia di Ichiban sia dei suoi alleati.
Non c’è solo la storia di Ichi ad essere affascinante e a meritare di essere vissuta, tutto il “contorno”, come al solito, merita di essere vissuto fino in fondo, poiché tutti hanno qualcosa da dire, nel bene o nel male, e contribuiscono a creare un comparto narrativo intrigante che si perde in alcuni casi, ma che nel complesso mantiene più che dignitosamente. Ed è merito di lui, del “numero uno”, perché se tutto funziona, è anche merito del suo sorriso e del suo grande fascino, che dal primo all’ultimo minuto non ha smesso mai di accompagnarmi.
E poco importa se magari non è originale o particolarmente elaborato nella sua concezione: Ichi ha tutte le carte in regola per risultare il degno erede del Drago di Dojima, nonostante il suo tatuaggio sia un reminder di quanta strada abbia ancora da fare.
A Napoli si usa un’espressione molto particolare per definire il concetto di “parliamoci chiaro”, un’espressione che non ripeterò qui (come la lingua di Mordor), traducibile in lingua italiana con un “alla faccia”. Ma è esattamente da essa che voglio partire per analizzare quello che, con ogni probabilità, è l’aspetto più interessante e soprattutto più gravoso ai fini della valutazione del progetto stesso: il combat system.
Ammettiamolo, tutti ci siamo guardati in faccia tipo John Travolta nel famoso meme nel momento in cui Sega e il Ryu Ga Gotoku Studio hanno annunciato che il nuovo Yakuza avrebbe avuto un gameplay basato fondamentalmente su un sistema di combattimento a turni, non facciamo gli schizzinosi.
Immaginare un equilibrio in un titolo appartenente ad una saga che ha sempre basato buona parte delle proprie fortune sulla velocità e la frenesia degli scontri caciaroni, a cazzotti, con schivate, parate, contrattacchi, mosse speciali e quant’altro, non era esattamente semplice, me ne rendo conto, ma mi piace sottolineare di essere stato uno dei pochi a mostrarsi subito interessato a questo cambio di rotta, e alla fine posso dire di aver avuto ragione.
Il nuovo gameplay di Yakuza: Like a Dragon non solo risulta più che valido, ma anzi, eleva tutta la saga verso una vetta qualitativa nuova e, fatemelo sottolineare ancora una volta, più che meritata. Mi sono divertito come non mi capitava da mesi, forse da anni, nel prendere confidenza con un’intelaiatura ludica certamente non originale e rivoluzionaria, ma ricca di chicche super affascianti e ben contestualizzate.
Avete presente Persona 5? Bene, esteticamente e ludicamente parlando il nuovo Yakuza ricorda molto l’esperienza offerta dal glorioso JRPG di Atlus. Il giocatore, in combattimento, ha a disposizione le seguenti opzioni: attacco, difesa, oggetti e tecniche (e fuga) che, ovviamente, seguono la routine classica degli scontri a turni, abbracciando una vena strategica e tattica ben più marcata di quanto si potrebbe immaginare. Da buon GDR, infatti, Yakuza: Like a Dragon si preoccupa di tirare in ballo anche attacchi e resistenze di stato varie, che ancora una volta risultano molto valide sia sotto il profilo ludico sia sul piano meramente artistico e dell’ispirazione.
Va da sé che ogni scontro, specialmente quando si superano i primi 4-5 capitoli, diventa ovviamente più arduo e meno immediato, e “costringe” il giocatore ad un approccio ben diverso rispetto al passato. Studiare le debolezze e i comportamenti dei nemici diventa dunque l’ago della bilancia di ogni battaglia, anche perché l’intelligenza artificiale che li muove è più arguta, più sveglia, ha più “cazzimma”, come diciamo dalle nostre parti. Spesso, ad esempio, i nemici tendono a chiamare rinforzi, a ordire trappole, a rubare pezzi di equipaggiamento o a istigare i membri del party per fargli perdere il controllo, esponendoli così ad attacchi impossibili da evitare, soltanto per fare qualche esempio.
Quest’ultima è in realtà una tecnica a disposizione anche di alcuni degli alleati di Ichiban che, come da tradizione di ogni buon gioco di ruolo che si rispetti, vanno a comporre quello che è un vero e proprio party di quattro membri, ognuno con caratteristiche e abilità esclusive.
Proprio il Legame con gli alleati è un aspetto importante per la produzione. Sviluppare un legame più solido può portare allo sblocco di numerose abilità “combinate”, da utilizzare in battaglia, ma anche alla nascita di linee di dialogo esclusive molto interessanti. Ma attenzione: interrompere un amico che vi parla potrebbe non essere una buona mossa (ricordatevelo mentre gironzolate per Yokohama, potrebbe servirvi).
Proprio le abilità rappresentano un altro importante tassello della conversione ruolistica della serie, e mi sento ancora una volta di affermare che l’obiettivo è stato centrato in pieno. Le alterazioni di stato, ad esempio, dipendono fortemente da esse, e abbiamo notato in alcuni casi alcune tipologie di attacchi veramente intriganti, sia dal punto di vista dell’utilità sia dal punto di vista del mero discorso estetico.
Ci siamo imbattuti, ad esempio, in una tecnica particolare che utilizza i piccioni come strumento di morte o un’altra in cui il rutto diventa una bocca da fuoco, letteralmente, soltanto per fare qualche esempio di come, portando avanti la tradizione e allo stesso tempo evolvendola fortemente, gli sviluppatori abbiano saputo tirar su un prodotto per certi versi scanzonato, ma che in realtà nasconde una profondità ben più marcata di quanto dia a vedere anche se si guarda ad alcune chicche molto interessanti. Ad esempio, nonostante il combat turn based, bisogna tenere in mente che nel titolo c’è un sistema di parata “live” che chiede al giocatore, col giusto tempismo, di bloccare o comunque provare a ridurre i danni subiti con la pressione del cerchio.
Inoltre, è presente anche un vero e proprio sistema di danni ambientali, che si attiva però in determinate circostanze. Vi state azzuffando in pieno centro? Bene, magari una macchina in corsa può fare il lavoro sporco per voi, ma attenzione, potrebbe anche prendervi in pieno e farvi un bel po’ di male…
Ma il gameplay di Yakuza: Like a Dragon non risiede soltanto nel sistema di combattimento. Il buon Ichiban e i suoi alleati, così come in passato ma ora in maniera ancor più marcata, hanno diversi slot di equipaggiamenti e accessori da riempire e, fidatevi, la vena ruolistica del gioco è venuta ancor più dannatamente fuori.
A rendere tutto ancor più interessante c’è poi la dinamica legata alla crescita del personaggio, non soltanto a livello fisico ma anche e soprattutto a livello mentale. Oltre ai più classici livelli, che aumentano autonomamente le statistiche del personaggio, troviamo anche due importanti aggiunte, indubbiamente in grado di dare un tocco di brio a tutta la produzione: la Personalità e il Rango lavoro.
Nel primo caso si tratta di tratti peculiari del nostro Ichiban, che possono aumentare o diminuire in base alle nostre azioni e alle nostra scelte, andando ad incidere direttamente sull’avanzamento del gioco. Ardore, Autostima, Bontà, Carisma, Acume e Stile sono i tratti della personalità del nostro eroe e potenziarne uno anziché un altro può portare sia a grandi vantaggi in battaglia (resistenza elementale specifica, ad esempio) sia al di fuori, poiché in base alle scelte e di conseguenza alla personalità sviluppata si potrà accedere a missioni secondarie diverse e ad eventi a tema specifici.
Anche il Rango lavoro è una piacevole aggiunta, seppur in realtà meno appariscente rispetto alla Personalità, che invece influisce anche su quest’ultimo, ma non per questo risulta meno importante. In base ai tratti maxati si possono sbloccare lavori diversi, i quali influiscono pesantemente sulle abilità e sulle tecniche dei personaggi, ma anche sugli stessi parametri fisici.
Insomma, a livello di gameplay posso dirvi, senza mezzi termini, che sono più che soddisfatto del lavoro fatto dal Ryu Ga Gotoku Studio con questo nuovo capitolo della serie. Innovazione, fedeltà e audacia sono i punti forti di un lavoro svolto con tanto amore e cura, che trasuda da ogni poro la volontà del team di sviluppo di ripartire con forza dopo Yakuza 6 e Judgment, fugando ogni possibile dubbio circa la qualità e la solidità di una nuova strada intrapresa che, se il buongiorno si vede dal mattino, sembra essere veramente quella giusta.
Da vedere, in tutta sincerità, Yakuza 7: Like a Dragon mi ha lasciato veramente delle ottime impressioni. La nuova ambientazione, Yokohama, riprodotta in modo molto fedele nelle sue sfaccettature, rappresenta il primo punto a favore di una produzione che anche da questo punto ha saputo centrare in pieno buona parte dei suoi obiettivi. Il cambio d’aria, necessario e quasi doveroso, si sente tutto ed è un dettaglio fondamentale del fresh start voluto fortemente da Sega con quello che, a conti fatti, può ritenersi uno dei capitoli più ambiziosi della serie.
Lo ammetto: da amante della cultura giapponese e dei suoi splendidi costumi e panorami, mi sono perso con piacere tra le strade della nuova location, in una mappa leggermente più vasta di quella a cui eravamo abituati e, come al solito, strabordante di nemici da affrontare, negozi, missioni secondarie e luoghi di interesse in generale. E, inutile ripeterlo, il colpo d’occhio è di tutto rispetto.
Il Dragon Engine, anche su PS4 Pro, si mostra in splendida forma, grazie in particolare all’ottimo lavoro svolto in particolare su alcuni elementi, quali l’illuminazione e la modellazione poligonale sia dei personaggi principali sia anche di buona parte dei comprimari. Pur senza l’ausilio dell’HDR, il nuovo capitolo della saga riesce a portare su schermo un’immagine molto pulita e super dettagliata, grazie appunto ad un utilizzo sapiente di una quantità e una qualità di effetti molto validi.
Specialmente di giorno, infatti, l’illuminazione aiuta ad ammorbidire in maniera evidente le “curve” di ogni dettaglio, restituendo ai giocatori un quadro complessivo di primissimo livello e visivamente molto appagante. A stupirci in modo particolare sono state – così come in Judgment – le animazioni e le espressioni facciali, ancora una volta al top e che sembrano avere tutte le carte in regola per non sfigurare anche in un eventuale confronto con i prodotti di nuova generazione, ormai imminenti.
Mi ha stupito la qualità generale dei volti e della diversificazione, anche dei nemici semplici, e il fatto poi che tutto questo si sposa con una stabilità generale sensazionale rende il tutto ancor più magico. In attesa dei tanto desiderati 60fps, su PS4 Pro Yakuza: Like a Dragon sfoggia un ottimo equilibrio tecnico-visivo, che si basa su una modalità unica con il lock a 30fps con una risoluzione ancorata (purtroppo, ma niente di gravissimo) sui 1080p.
Buono, ma non sensazionale, il doppiaggio originale giapponese. Alcuni attori sembrano poco a fuoco e poco calati nella parte, e se devo ammetterlo anche colui che interpreta lo stesso protagonista non mi ha convinto appieno. Non mi sento, invece, di esprimere un giudizio su quello inglese, di cui ho usufruito in verità molto poco, ma sono costretto a segnalare alcuni problemi legati alla localizzazione italiana.
Molte traduzioni mi hanno lasciato decisamente con l’amaro in bocca, dando quasi l’impressione che in alcuni casi non si avesse veramente coscienza di quello di cui si stava parlando. Nel complesso, comunque, è doveroso “sorvolare” su alcuni di questi aspetti meno riusciti, soprattutto dinnanzi ad un prodotto virtuoso, desideroso come non mai di prendersi una volta per tutte la scena in un contesto più “aperto” ma ancora tutto da scoprire (e riuscire a sedurre).
Ho giocato (amandone quasi ogni sfumatura) a Yakuza: Like a Dragon su PlayStation 4 Pro, grazie a un codice promozionale fornici dal publisher. Mi sono divertito per oltre 30 ore a girare per Yokohama, concentrandomi (ovviamente) sulla campagna principale, senza però disdegnare alcune attività secondarie e, soprattutto, dedicando molto spazio alla libera esplorazione.
DurataYakuza: Like a Dragon mi ha indubbiamente colpito: tralasciando una storia tutto sommato “ordinaria” e in linea con la serie, mi sono ritrovato per mano tutto quello che avrei potuto desiderare da esso: divertimento, profondità ludica e tante tante cose da fare. Vestire i panni del nuovo protagonista Ichiban Kasuga è stato un vero e proprio onore, perché il nuovo protagonista ha saputo reggere alla grande l’urto del passaggio di testimone con un pezzo da novanta come Kazuma Kiryu, presentandosi ai nastri di partenza di questo “nuovo inizio” per la serie con tutti gli attributi giusti al posto giusto. Certo, alcune stereotipi sono più evidenti di altri e alcuni passaggi anche della narrazione stessa sono meno interessanti di altri, ma nel complesso siamo di fronte ad un lavoro più che lodevole.
Il tutto si moltiplica analizzando il gameplay, e qua c’è poco da dire: che goduria! Il nuovo sistema di combattimento a turni mi ha mandato in estasi e il fatto che esso si basi su una componente ruolistica marcata, evidente e importante, non fa altro che ingigantirne l’indice qualitativo. E, al netto della sua natura cross-generazionale, Yakuza: Like a Dragon si difende molto bene anche sotto il profilo tecnico, grazie ad un Dragon Engine ancora una volta in grande spolvero, anche sulle console di attuale generazione (lo abbiamo provato su PlayStation 4 Pro). Peccato per un doppiaggio non meraviglioso e per una localizzazione italiana a volte imprecisa ma, attenzione, lamentarsi di ciò, di questi tempi, è come avanzare dubbi sull’effettivo valore “femminile” di Margot Robbie.
Ma, per concludere, lasciatemi tornare al napoletano che è in me: accattatavill! Se qualcuno non avesse afferrato, beh, è molto semplice: questo nuovo capitolo della saga è un acquisto obbligatorio, sia per i neofiti sia e soprattutto per i veterani. Credetemi!
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Non ho problemi ad ammettere che, colpevole di una conoscenza della lingua inglese davvero criminale, ho sempre evitato titoli che non comprendessero almeno la localizzazione nella mia lingua, a volte soffrendone tantissimo e rimpiangendo quanto cretino fui in gioventù. Sicuramente l'articolo mi ha davvero incuriosito, soprattutto perché è in linea con i miei gusti personali, tuttavia mi suona così atipico non seguire una saga dal suo principio. Non lo so, chissà se la recupererò mai in futuro... 😄🍻
Bella Salvatore, ottima review!
Ottima recensione.
"Il gioco è caratterizzato da un sistema di combattimento a turni (grande novità) e da una nuova vena da GDR molto marcata." direi che mi basta e avanza come PRO :D :D :D
Grazie a tutti! Sì, il gioco mi ha veramente colpito. Lo consiglio caldamente! :)