Hardware

La storia dell’Amiga

La storia di Amiga è probabilmente la più affascinante tra tutti gli home computer. Una macchina che ha lasciato un segno indelebile nell’immaginario di molti appassionati di informatica e videogiochi, grazie ad un’architettura all’avanguardia che garantiva una potenza di calcolo e caratteristiche multimediali di gran lunga superiori ai sistemi Apple e IBM dell’epoca ad un prezzo sensibilmente inferiore. Era l’oggetto dei desideri di molti ragazzi degli anni ’80 che la chiedevano ai genitori per motivi di studio o perché “era importante imparare ad usare il computer”, uno dei mantra più abusati di quel decennio. Ma la maggior parte usava Amiga per le straordinarie capacità di macchina da gioco. Un gioiello tecnologico che ebbe purtroppo vita breve a causa delle pessime strategie di marketing da parte della casa produttrice.

Dalla console codename Lorraine al primo home computer multitasking
Nel 1977 la società americana Atari Corporation portò i videogiochi in ambiente domestico grazie al modello Atari 2600, la prima console a cartucce della storia. Il successo fu immediato e l’avanzata della major sembrava inarrestabile fino al 1980 quando Mattel entrò in competizione con il più avanzato Intellevision, mentre già si vociferava dell’imminente arrivo di una console di seconda generazione, la ColecoVision. In quell’anno, ai piani alti di Atari un giovane ingegnere cercava di convincere gli esecutivi ad adottare il neonato microprocessore Motorola 68000, già utilizzato come CPU nei computer Apple. Il suo nome era Jay Miner ed aveva già contribuito alla progettazione del chipset di Atari 2600 e degli home computer Atari 400/800. Ma la dirigenza, intenzionata a spremere fino all’osso il sistema 8 bit in commercio, si dimostrò piuttosto riluttante ad investire ingenti somme di denaro nell’hardware di terze parti. Un approccio conservatore di cui ben presto si sarebbe pentita.

 

Un rifiuto che portò Miner ad uscire dalla società per cercare altrove la possibilità di realizzare il suo progetto. Alcuni anni dopo, nel 1982, Miner venne contattato da Larry Kaplan, che aveva lasciato Atari da qualche anno per fondare la software house Activision. Non contento dell’andamento della nuova società Kaplan accolse con entusiasmo l’idea dell’ex-collega e riuscì a procurarsi gli investimenti necessari per fondare una game company, denominata Hi-Toro, assegnando a Miner la divisione hardware. Nasce così il progetto Lorraine (dal nome della moglie di Dave Morse, CEO di Hi-Toro), un primo prototipo di game console dotato di architettura custom che Miner aveva già sperimentato ai tempi di Atari 2600: un sistema di co-processori che gestivano singolarmente task specifici (I/O, sonoro e grafica) bypassando la CPU, basata sul già citato Motorola 68000. La potenza di Lorraine si basava proprio su questo sistema di interdipendenza delle unità integrate a fronte di costi sensibilmente più contenuti rispetto alle architetture dell’epoca. Il chipset grafico garantiva prestazioni avveniristiche grazie ad una tavolozza di 32 e 16 colori spalmati in una palette da 4096 rispettivamente in bassa ed alta risoluzione. Tutto questo mentre Apple proponeva ancora il display monocromatico, IBM 4 colori in CGA ed il futuro concorrente, Atari ST, garantiva una palette da 512. Non era da meno il chipset sonoro che forniva audio su 4 canali sfruttando la tecnologia PCM in modalità stereo.

 

 

Ma le ambizioni di Jay Miner non si fermarono qui ed, anzi, decise di alzare ulteriormente l’asticella: dal prototipo Lorraine non sarebbe uscita una console da gaming, bensì un home computer. Per l’esattezza, il primo home computer multitasking della storia.
E’ forse questa la scelta che ha permesso al progetto di restare in piedi durante la celeberrima crisi dei videogiochi del 1983, che mise in ginocchio diverse società del settore. Una vicenda che provocò uno stallo sino all’arrivo sul mercato delle prime console giapponesi.

Cronaca di un fallimento annunciato e la riscossa di Amiga 500
Come sopra accennato, passata la crisi Hi-Toro era ancora operativa, ma la situazione era tutt’altro che incoraggiante: i lavori procedevano a rilento, una delle ragioni che portarono l’impaziente Larry Kaplan a far nuovamente le valigie per tornare ad Atari Corp. Gli investitori chiedevano inoltre a gran voce un cambio del nome della società. Hi-Toro infatti era troppo simile a Toro, società giapponese produttrice di attrezzature per giardinaggio. E poi serviva un nome più accattivante, che catturasse maggiormente l’attenzione e che fosse allo stesso tempo familiare, anzi, amichevole. La parola spagnola “Amiga” fu la scelta definitiva e avrebbe dato il nome sia alla compagnia sia alla linea di computer pronti ad essere lanciati sul mercato. Infine servivano ulteriori liquidità, per accelerare lo sviluppo hardware e per assumere ingegneri del software per completare il sistema operativo. Tra questi entrarono nel team autentici guru dell’industria del videogioco: Dale Luck, responsabile della divisione software ed ideatore della famosa bouncing ball a scacchi e Robert J.Mical, il principale sviluppatore dell’interfaccia grafica di Amiga e, insieme a David Needle, futuro padre della prima console portatile, l’Atari Lynx.

Il 1984 fu un anno cruciale per Amiga: Jay Miner, in cerca di nuovi investitori, decise di mostrare il prototipo al Consumer Electronic Shows, la famosa fiera hi-tech che due anni prima aveva ospitato la presentazione del Commodore 64. Fu proprio la Commodore ad aggiudicarsi il progetto dopo una breve corsa a due con Atari, protagonista di un clamoroso dietrofront dopo essere uscita con le ossa rotte dalla crisi del 1983. Dopo varie trattative ed una disputa giudiziaria con la concorrente, Commodore annunciò l’acquisizione di Amiga Corp. nell’agosto del 1984. Atari decise di passare al contrattacco sviluppando a tempo record il suo home computer a 16 bit, l’Atari ST.
Al CES dell’anno successivo venne presentato il primo computer nato dal progetto Lorraine e pronto ad essere messo sul mercato: l’Amiga 1000. Ma il sogno che divenne realtà si trasformò in breve tempo in un incubo a causa delle sciagurate strategie di mercato di Commodore. Il modello 1000 venne infatti lanciato ad un prezzo pari a 1500 dollari, collocandolo come diretto concorrente dei costosi sistemi PC IBM ed Apple Macintosh, peraltro già affermati e corredati di numerosi software applicativi professionali.
Come poteva un prototipo di console da gioco riprogettato come computer domestico essere messo in commercio come sistema high-end dedicato al graphic design professionale ed alle produzioni audiovisive? Commodore aveva completamente sbagliato target ed i risultati catastrofici non tardarono ad arrivare. L’accoglienza fu tiepida e l’Atari ST, venduto a meno della metà rischiava di cannibalizzare il mercato a cui Amiga era inizialmente destinato.

Commodore decise quindi di correre ai ripari ed avviò la produzione di un modello di fascia bassa, ma con la stessa architettura di Amiga 1000. A differenza del fratello minore il nuovo computer si presentava come un case unico con tastiera e floppy drive integrati. Non potevano naturalmente mancare mouse a due tasti ed alimentatore esterno. Con quest’aspetto sembrava davvero di trovarsi di fronte al successore spirituale del Commodore 64. Il sistema operativo in dotazione era la versione 1.2/1.3 dell’AmigaOS che, a differenza dell’Amiga 1000 e di tutti i computer Windows-based fino ad oggi, aveva il kickstart residente in memoria ROM.
Amiga 500 arrivò sul mercato nel 1987 ad un prezzo addirittura inferiore dell’Atari ST ed in breve tempo risollevò le sorti di un sogno quasi infranto. Nel primo anno fiscale Commodore dischiarò un profitto pari a 28 milioni di dollari, riportandola ai fasti dell’era C64. Atari ST perse nel giro di un anno la leadrship sia in Nord America che in Europa.
La comunità degli amighisti si stava espandendo a macchia d’olio e comprendeva numerosi sottogruppi: demo coder, hacker, designer, musicisti, produttori video e gamer. In Italia Amiga venne adottato dai network televisivi Rai e Finivest per dare supporto grafico digitale ai telequiz pomeridiani.

Il futuro dei videogiochi passa da Amiga
In termini di puro gaming, fin dai primi titoli, come Defender of The Crown, Barbarian e Hybris, Amiga 500 mise subito in evidenza le sue qualità grafiche e sonore. Il suo arrivo fu un vero e proprio asteroide in grado di estinguere i dinosauri a 8 bit.
Ricordo bene come le esclusive arcade di Amiga riuscissero a placare la mia insostenibile voglia di correre al bar o in sala giochi. Dopo l’esperienza lisergica con le schermate in parallasse di Shadow of The Beast, difficilmente potevo chiedere di più ad un videogioco. Il catalogo di giochi arcade Amiga comprendeva numerosi classici: Alien Breed, Turrican, Superfrog, Worms, Sensible Soccer, R-type, The Chaos Engine e lo stesso Shadow of The Beast. Sparatutto, platform, hack’n’slash e arcade sportivi, ce n’era davvero per tutti i gusti, o quasi: i picchiaduro, no. Non ho mai capito perchè le riviste specializzate osannassero così tanto la serie esclusiva di Body Blows, targata Team 17.
Il genere dei beat’em’up riacquistò dignità su Amiga solo verso la fine del suo ciclo vitale grazie alla discreta trasposizione di Mortal Kombat e l’italianissimo Fightin’Spirit nel 1996. Ma la più grande lacuna rimanevano le conversioni da coin-op, per le quali era preferibile optare per le console Sega Megadrive e SNES, arrivate sul mercato qualche anno più tardi.

Dopo aver apprezzato Bubble Bobble ed il coloratissimo Rainbow Island, ricordo ancora la cocente delusione dinanzi ai porting di Double Dragon, Strider e Golden Axe.
La discussione a riguardo è ancora accesa nei forum di retrogaming. Molti sostengono la tesi dell’inadeguatezza dell’hardware Amiga, sparando dati tecnici un pò a casaccio, a mio avviso. Altri parlano di un’architettura poco familiare agli sviluppatori giapponesi di Capcom, Taito, Konami. Niente di più sbagliato. E’ bene precisare che le licenze dei coin-op giapponesi venivano quasi tutte acquisite dalla società inglese US Gold, che delegava porting dalle versioni Sega Megadrive ad una società esterna, la Tiertex. Curiosamente, tutti i titoli rispettavano le deadline, sempre collocate a ridosso dei periodi commercialmente più fertili. In sostanza, si trattava semplicemente di prodotti realizzati in fretta e furia per mere questioni di marketing. Un pò come accade, oggi come allora, con gran parte delle licenze dei titoli cinematografici.
Ma l’esperienza videoludica dell’Amiga andava ben oltre la modalità arcade. Il mondo della bouncing ball ha cambiato definitivamente il panorama dei videogiochi grazie all’enorme quantità di simulazioni, strategici, puzzles, manageriali e le leggendarie avventure grafiche. Tutte tipologie che non sono necessariamente arrivate con la generazione a 16-bit. Già ai tempi del C64 e ZX Spectrum videogiocare non era sempre associato alla prontezza di riflessi. Semplicemente l’Amiga, grazie anche all’ausilio del mouse, era la macchina ideale per un modus operandi più riflessivo, per meccaniche che richiedevano scelte ponderate. Un approccio che dava spazio a viaggi mentali ed all’immedesimazione, avvicinando il gaming ad altre realtà legate all’intrattenimento.

Durante i caldi e soleggiati pomeriggi estivi bastava mettere in penombra la propria cameretta ed avviare The Secret of Monkey Island per immergersi nelle atmosfere delle notti caraibiche. Anche in questo caso i capolavori immortali si sprecano: Civilization, Populous, Simcity, Elite II:Frontier, Syndicate, Lemmings. Il mio pensiero va anche alla leggendaria software house Cinemaware, un nome che è tutto un programma. Il suo catalogo raccoglieva infatti titoli che flirtavano con il genere cinematografico. Tra i suoi giochi spiccavano la serie It Came From The Desert e Wings.
Un fattore assolutamente non trascurabile che ha fortemente contribuito all’enorme base installata di computer Amiga è stato la pirateria. Evitando superflue disquisizioni morali, bisogna pensare che la community videoludica dell’epoca era profondamente diversa rispetto a quella di oggi. Di videogiocatori ultra trentenni non vi era traccia e già i ventenni rappresentavano una minoranza esigua. Il gaming era ancora considerata “roba da bambini” o da “sfigati” tra gli adolescenti. Avete presente la vicenda che ha traumatizzato irreparabilmente il Tanzen? Ma sì, dai, quando ha saltato un giorno di scuola per giocare ad un videogame ed è diventato lo zimbello della classe quando è stato scoperto!
La stragrande maggioranza dei giocatori era quindi composta da ragazzini o adolescenti, senza un soldo in tasca, men che meno una certa sensibilità riguardo al fenomeno delle copie illegali e relative conseguenze.
Ogni città aveva il suo discreto numero di negozi di informatica e videogiochi con il famoso retrobottega, dove, secondo leggenda o tradizione, un giovane smanettone trascorreva le giornate a copiare giochi crackati con l’X-Copy Pro (sì, quello con le lampadine), magari anch’esso crackato. Il floppy disk, come tutti i supporti magnetici, era un’unità poco costosa ed i suoi dati facilmente copiabili. Con poche migliaia di lire ti portavi a casa anche giochi che richiedevano tre, quattro o più dischetti.

E la schiera di cracker nel mondo Amiga era ben nutrita. Tra l’altro, molti di questi sono diventati sviluppatori o addirittura fondatori di software house di videogiochi.
Nella mia esperienza, non ho mai conosciuto amighista che non avesse in cameretta la fantomatica scatola da scarpe (forse due, forse tre) stracolma di dischetti blu.

Fine di un’era breve ma intensa
Apparentemente la storia di Amiga si conclude nel modo più tradizionale, in linea con tutti prodotti tecnologici arrivati a fine ciclo vitale e soppiantati da sistemi più moderni.
In realtà il suo destino era segnato fin dall’inizio. Perchè Amiga aveva in Jay Miner il suo Steve Wozniak, ma non aveva il suo Steve Jobs.
Nei primi anni ’90 i costi dei sistemi basati su Windows diminuirono sensibilmente, seppur equipaggiati con feature multimediali che qualche anno prima erano considerati d’elite. Con l’avvento della grafica in VGA e le schede SoundBlaster, Amiga aveva ben poco da offrire. Un corso degli eventi che Commodore inizialmente sottovalutò, tentando una tardiva riscossa con validissimi prodotti high/low-end (Amiga 600/1200, CD32, Amiga 3000). Il risultato fu disastroso e le ulteriori cause non si discostavano troppo da quelle legate al fallimento di Amiga 1000: l’errato posizionamento di mercato.

Anche dal punto di vista videoludico i PC cominciavano a mostrare i muscoli. Iniziai a guardare il mio Amiga con occhi diversi dopo aver visto girare Doom e Ultima VII:The Serpent Isle da un amico. X-Wing fu il colpo di grazia decisivo.
Nel 1994 Commodore dichiarò bancarotta e la magica pallina a scacchi bianca e rossa smise lentamente di rimbalzare. Nello stesso anno se ne andò anche Jay Miner, stroncato da una patologia renale con la quale aveva combattuto per gran parte della sua vita. Il brand passò di società in società senza mai tornare alla ribalta, eccezion fatta per qualche dimenticabile operazione nostalgica.
Ma oggi il termine Amiga non deve riportare alla mente solo il nome di una macchina tecnologicamente prodigiosa o un’esaltante stagione videoludica. La scena indie di oggi è figlia di quel periodo e molti sviluppatori o gaming house dell’epoca sono ancora qui a ricordarci che il sogno di Jay Miner è vivo più che mai.

SCHEDA TECNICA

Nome: Amiga 500
Casa Produttrice: Commodore
Tipo: Home Computer
Origine: Stati Uniti
Nascita: Aprile 1987
Fine Produzione: 1991
Tastiera: Built-in keyboard, 95 tasti
CPU: Motorola MC68000
Velocità’: 7.09379 MHz (PAL) – 7.15909 MHz (NTSC)
CO-Processore: OCS based chipset: 8370/8372 Fat Agnus (memory controller e blitter), 8362R5/8362R6/8362R8 Denise (video control chip), 8364 Paula (sonoro e I/O), 5719R2 Gary (I/O)
RAM: 512 KB Chip RAM (espandibile a 9MB : 512 KB Chip RAM + 512 KB Slow RAM + 8 MB Fast RAM)
ROM: Kickstart 1.2: 256 KB (primi modelli) – Kickstart 1.3: 256 KB (modelli successivi)
Risoluzione: 320×256, 320×512, 640×256, 640×512
Colori:  Palette 4096
On screen: 16 in 640 modes, 32 in 320 modes, 64 in EHB, 4096 in HAM
Sonoro: 4 canali 8 bit PCM, stereo output
Porte I/O: seriale RS-232, Centronics parallela, interfaccia per disco esterno, 2x RCA audio, interfaccia per cartuccia, interfaccia per espansione, 2 porte Joystick, 2 porte mouse
Periferiche di Serie 3.5” floppy disk drive
Sistema Operativo Workbench 1.2 (primi modelli) – Workbench 1.3 (modelli successivi)
Alimentazione: PSU esterna

Iacopo Risi

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