Siamo ad un traguardo importante per ArtCafé: il decimo episodio, escludendo gli episodi su Dreams e la serie The Legend of Zelda. Sorvolando sull’importanza del numero, questo articolo sarà l’ultimo dedicato agli elementi chiave dell’Art Direction dei videogiochi, dal prossimo passeremo ad una lunga carrellata di tutti gli stili artistici che sono stati percorsi finora nella storia dei videogiochi. Ma proprio per questo, alla fine che cos’è uno “stile artistico“?
Possiamo provare a definire lo stile artistico come l’insieme degli elementi formali che definiscono la cosmesi di un prodotto. Questo ovviamente risente di una moltitudine di fattori che lo vanno ad influenzare. Ad esempio, durante lo fase di scrittura e concettualizzazione di un videogioco, lo stile artistico è raramente tra i primi fattori presi in considerazione. Questo accade perché esso è spesso conseguenza di altre motivazioni, limiti o idee che sopraggiungono successivamente agli obiettivi iniziali del team di sviluppo. La scelta di un determinato stile artistico può essere quindi dettata da ragioni di marketing oppure dall’appartenenza o meno di un prodotto ad una serie già esistente, ed infine anche dalle capacità tecnico-artistiche del team o dai limiti tecnologiche che le piattaforme di sviluppo impongono. Se è vero che quest’ultimo fattore è decisamente passato in secondo piano con l’incremento delle capacità tecniche delle console, molti stili artistici rimangono comunque proibitivi per studi senza il necessario budget o le sufficienti competenze.
Proviamo a dividere l’intero mondo dei videogiochi in tre grandi famiglie:
Questo primo trivio è già in grado di rispondere a molte domande di un team di artisti che nella fase di concept potrebbero chiedersi se doversi basare su qualcosa o se essere liberi di partire da zero. Nel caso di creazioni originali è chiaro quanto la libertà possa essere totale, mentre quando si tratta di seguiti, quasi nessuno reinventa il proprio stile artistico di titolo in titolo, fatte alcune eccezioni come la straordinaria ricchezza del franchise The Legend of Zelda. Quando il prodotto è invece un tie-in o comunque parte integrante di un universo preesistente, generalmente si assiste ad un maggiore libertà nei risultati artistici. Alcuni ripropongono pedissequamente l’estetica del materiale originale, come l’eccezionale Alien: Isolation, altri si prendono più libertà come nel caso della serie Shadow of Mordor. Ciò che conta in ogni caso è il contenitore dal quale gli artisti possono prendere ispirazione, una fase chiave di tutto il processo creativo.
Partire da un foglio bianco è impossibile per chiunque. Osservare, meditare e copiare sono attività chiave di qualsiasi artista alle prese con la creazione di idee, concept e visioni di un possibile prodotto. Nei team di artisti delle software house più blasonate è per questo sempre presente qualche figura dedita alle concept art: quelle bellissime illustrazioni che poi vediamo raccolte nei making-of o nei libroni “The Art of…” che accompagnano il lancio dei titoli. Le concept art non sono solo belle, ma sono soprattutto utili a dare a tutto il team una direzione, un’idea visuale e perfino delle tracce più o meno precise sulla direzione da prendere per il character design, le ambientazioni o qualsiasi altro elemento grafico.
Un altro strumento utilissimo sono le cosiddette moodboard: delle tavole collage di immagini prodotte da altri, collezionate allo scopo di trasmettere un’idea di ciò che si andrà a fare in termini visivi e di ispirazione. Le moodboard meglio realizzate sono quelle in grado di comunicare fin da subito il sapore del titolo con precisione e soprattutto velocità. Può quindi accadere che per spiegare, ad esempio, cos’è “Bioshock” possano essere realizzate tavole con disegni di sottomarini, palombari, scienziati pazzi e strani poteri psichici il tutto con colori ombrosi, sporchi e umidi. Il tutto può essere spesso supportato anche dal classico “elevator pitch”, una frase brevissima che descriva un intento, come ad esempio:”Resident Evil, ma nello spazio”. Chi indovina?
Decisa la direzione generale da intraprendere e le ispirazioni a cui fare riferimento, lo stile artistico è poi il prodotto della pura capacità degli artisti alle prese con i limiti delle piattaforme di sviluppo. L’engine scelto per lo sviluppo è un fattore chiave: alcuni motori di sviluppo, come l’Ubiart Framework di Ubisoft sono creati fin dal principio per un determinato stile artistico, in questo caso il disegno bidimensionale arricchito da elementi tridimensionali. Altri motori sono decisamente più flessibili, come il classico Unreal Engine in grado di dar vita a look cartoon in Dragon Ball Z: Kakarot accanto a rendering fotorealistici in Gears 5 o stili ibiridi come quello di Octopath Traveler. Le possibilità, in termini di illuminazione, trattamento delle texture e dell’effettistica, previste dagli engine sono fattori che giocano in maniera preponderante nell’estetica finale di un titolo. Utilizzare un motore preesistente significa infatti poter sfruttare i suoi asset standard, con una conseguente riduzione del carico del lavoro per artisti e programmatori a spese della peculiarità visiva. Non tutti i team possono permettersi squadroni di technical artist – ossia coloro che studiano ed implementano nuove soluzioni tecnologiche da applicare all’engine per ottenere specifici risultati visivi – e quindi talvolta si lavora con ciò che è già disponibile in maniera standard nel motore.
Come abbiamo visto in ogni episodio di ArtCafé, la quantità di stili grafici ed artistici esistenti nel mondo dei videogiochi è sconfinata. Dal prossimo episodio incominceremo ad osservare i principali, in un percorso più o meno cronologico, partendo dallo stile degli albori: la pixel art.
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