Il mondo videoludico, negli ultimi anni, è profondamente cambiato. E no, non lo avvertiamo nell’aria né lo sentiamo nell’acqua o nella terra, tanto per citare una famosa saga letteraria, ma ce lo dicono chiaramente i fatti e, soprattutto, i numeri. Nell’epoca in cui la struttura open world viene adottata da un po’ tutte le software house per dare una svolta alla propria creatura dalle fortune sempre più risicate o dall’avanzata sempre più inesorabile di fenomeni come i Battle Royal, senza parlare dell’affermazione sempre più marcata degli e-Sports, esistono ormai ben poche costanti in un contesto in continua mutazione, plasmato più dall’appetito del pubblico che dalle menti dietro ad ogni produzione. Se c’è un aspetto che, però, ha sempre accompagnato la sfera videoludica, seppur in proporzioni e situazioni diverse, è quello legato al binomio sempreverde tra i videogiochi e il simbolismo, una realtà sempre più apprezzata e affascinante.
Perché, diciamocela tutta, al di là del loro significato – spesso sconosciuto ai più – i simboli, in generale, hanno un fascino estetico quasi irresistibile, inspiegabile, che permea ogni cosa, a prescindere dalla sua origine e cultura di provenienza. La storia videoludica, sia quella recente, sia quella passata, ma anche quella futura, ha dimostrato in più occasioni quanto l’utilizzo del simbolismo possa rappresentare una spinta fortissima sotto il profilo tematico e narrativo, ampliando enormemente il livello di appeal della stessa opera. E, col passare degli anni e con l’arrivo di nuove opere videoludiche, il tutto sembra destinato a rivestire un ruolo ancora predominante. Elden Ring, il secondo capitolo di Hellblade, il nuovo God of War e tanti altri ancora, sono soltanto alcuni degli esempi di titoli in dirittura d’arrivo che, siamo sicuri, baseranno buona parte del loro fascino proprio sul simbolismo sui cui si sorreggono e noi non vediamo l’ora di scoprire come e in che modo tutto questo prenderà forma. Ma ve l’abbiamo detto già: da che mondo è mondo, videogiochi e simbolismo sono sempre (o quasi) andati a braccetto.
Nato come corrente letteraria in Francia alla fine del XIX secolo, il simbolismo ha da sempre unito l’arte figurativa a quella lessicale, con l’obiettivo di “parlare” al popolo attraverso le immagini, le figure. Questo concetto, semplice e complesso allo stesso tempo, si è riversato col tempo in diversi altri campi, estendendo sempre di più e sempre più velocemente la propria sfera d’interesse verso orizzonti sostanzialmente sconosciuti. E se l’arte è la via principale, il simbolismo ha saputo affermarsi – lentamente – anche in campi quali lo spettacolo, come il teatro prima e il cinema poi, fino al raggiungimento di un universo sulla carta distante e improbabile come la musica. Il fascino del mistero e della natura sempre variegata che la simbologia in generale porta con sé ha finito col diramarsi inesorabilmente nella quotidianità, assumendo poi forme, iterazioni e se vogliamo anche obiettivi sempre diversi, per adeguarsi alla tipologia di osservatore e per soddisfare, in qualche modo, ogni palato.
Il simbolismo concentra buona parte delle sue fortune sulla verità estetica delle cose
Accomunabili al simbolismo sono ad esempio i tarocchi, il cui fascino non ha mai smesso di crescere, al netto di un utilizzo non esattamente condivisibile, o il concetto di runa, caratteri grafici di diffusione fondamentalmente radicata nei paesi scandinavi tra il V e il XII secolo. Che siano rune o semplici simboli dalla provenienza astratta, è innegabile quanto, anche soltanto sul piano estetico, essi riescono a rendere un’esperienza ancor più segnante e intrigante, poiché proprio nel mistero la maggior parte delle persone trova la propria sublimazione sensoriale. E, inesorabilmente, il tutto ha iniziato ad estendersi anche a realtà più “moderne” come, appunto, i videogiochi, uno dei luoghi più fervidi e in cui la fantasia e la creatività si sposano a meraviglia. Sin dall’alba dei tempi, infatti, molti videogiochi hanno basato buona parte delle proprie fortune sulla componente del mistero, rappresentata, nella maggior parte dei casi, da un immaginario che richiama fortemente il concetto del simbolismo. Che siano di stampo religioso, scientifico o dalle connotazioni tipicamente archeologiche, i simboli hanno invaso la sfera videoludica senza freni e con una frequenza sempre più elevata, fino alla realizzazione di un grandissimo quantitativo di titoli che hanno dato alla sfera del simbolismo un ruolo predominante nell’economia generale del proprio prodotto. E noi, da bravi archeologi in erba, vogliamo esplorare insieme a voi quelli più importanti o, comunque, quelli che hanno lasciato in qualche modo un ricordo speciale nelle nostre menti.
Da videogiocatori di vecchio corso, non potevamo non partire da quei grandi capolavori (non tutti, sia chiaro) della serie Resident Evil, da sempre una delle più legate all’utilizzo della simbologia, seppur con un’ideologia molto particolare. Sin dal primissimo capitolo di una saga ormai ultra ventennale, infatti, all’interno degli universi creati da Capcom, i simboli hanno rivestito un’importanza capitale, di grande rilevanza, senza però per forza di cose risultare collegati ad una precisa contestualizzazione. Quante volte vagando per le strade di Raccon City e delle sue fatiscenti e decadenti strutture ci siamo imbattuti in una porta che, per misteriose ragioni, si sarebbe sbloccata solamente utilizzando la misteriosa chiave di quadri? O quante volte l’unico modo per proseguire è stato quello di entrare in possesso dell’arcano emblema col simbolo del leone?
Ebbene, al netto di una coerenza narrativa quasi mai ricercata – di cui, ammettiamolo, a nessuno interessa davvero – non si può negare quanto questo utilizzo di una simbologia tanto affascinante quanto fondamentalmente semplice abbia saputo rendere ognuno di quei passaggi ancor più memorabili di quanto non sarebbero stati in condizioni “normali”. Il fascino dell’ignoto celato dietro all’impiego di figure, in molti casi senza una precisa ragione di provenienza, ha fatto sì che la serie portasse con sè una sorta di marchio di fabbrica, che si è palesato con gli anni con un’evoluzione non per forza funzionale ma consequenziale, dal successo relativo. Se ci sia un nesso o una motivazione dietro all’utilizzo di questa particolare forma di simbolismo, comunque, non possiamo saperlo veramente. Ma, chiaramente, possiamo apprezzarlo. Eccome.
Quando si parla di un gioco come God of War, che fa dalla mitologia greca prima e nordica poi il suo pozzo senza fondo di idee e ispirazioni, di certo non sorprende ritrovarlo in questa particolare classifica. Simboli appartenenti ad un’iconografia legata ad una specifica divinità o ad un preciso culto hanno accompagnato la produzione sin dal suo capostipite, quella perla grezza che poi, da lì a poco, avrebbe rivoluzionato per sempre il concetto degli action inesorabilmente. Il passo avanti decisivo nei confronti di un simbolismo sempre più marcato e predominante nell’economia di un racconto ancor più variopinto e coraggioso è arrivato però con l’ultimo capitolo della saga, quello che ha sancito anche l’abbandono della mitologia greca in favore del credo dei “figli di Asgard”. Complice il passaggio nelle braccia di una cultura che, in buona sostanza, è un po’ la patria stessa del concetto di “runa”, l’ultimo God of War targato Cory Barlog è un vero trionfo estetico, e non soltanto per quanto concerne il comparto tecnico e grafico – decisamente sugli scudi – ma anche e soprattutto sul piano dei contenuti inerenti la sfera del simbolismo e della simbologia in generale.
Ad ogni angolo, in ogni anfratto, nell’immaginario imbastito da Santa Monica Studios ci si accorge rapidamente di essere circondati da un mondo ricco di informazioni, basate in modo più o meno veritiero su una cultura antica e infinita. Le stesse armi e armature che indossa il protagonista Kratos e il giovane Atreus sono pregne di una simbologia precisa e minuziosa, che in qualche modo vuole definire lo stesso concetto che si nasconde dietro a quello che, a primo acchito, potrebbe sembrare una mera scelta estetica. E, a suggellare il tutto, ci ha pensato poi una simpatica iniziativa legata alla versione steelbook del gioco la quale, sulla parte posteriore, è caratterizzata da una lunga sequenza di rune che, come scoperto poco dopo, nascondono un messaggio ben preciso. Esse, infatti, narrano la leggenda de “il lupo e dell’orso”, destinati a compiere un viaggio alla ricerca di una verità sconosciuta. Il messaggio tradotto in italiano contiene il seguente significato: “Questa è la storia dell’orso e del lupo, che vagano per i 9 Reami per mantenere una promessa. Camminano sul sentiero del crepuscolo, destinati a rivelare la verità non ancora scoperta”.
Qui, chiaramente, rischiamo di finire nell’ovvio, ma non ce ne importa più di tanto. Del resto, se parliamo di simboli e simbologia in generale, non si può non citare un gioco simile, che ha poi dato spunto per una serie di pellicole cinematografiche improntate fortemente proprio sull’eslporazione e sulla conoscenza di antichi reperti e reliquie di ogni sorta, caratterizzate appunto da un’impronta fortemente basata sui simboli. Nell’universo di Tomb Raider, specialmente quello videoludico delle ultime iterazioni, si è avvertita una forte spinta in questa direzione, capace di ampliare – senza stravolgere – enormemente una produzione già di per sé fautrice di una cultura nella cultura. I viaggi dell’archeologa Lara Croft portano infatti il videogiocatore alla scoperta di civiltà dopo civiltà, narrate appunto non soltanto attraverso i racconti o i ritrovamenti ma soprattutto grazie all’analisi e alla conoscenza di una simbologia smisurata e sconfinata.
Che siano di provenienza azteca, maya o risalenti al culto nipponico della regina Himiko, i simboli che si susseguono nella serie hanno un fascino incredibile, portando su schermo una sequenza di immagini dalla carica ideologica impareggiabile. La stessa tomba di Himiko, visitabile nel corso del primo reboot delle serie, uscito nel 2013, è ricca di rimandi ad una cultura la cui dedizione all’arte e allo stesso simbolismo è viva più che mai. Più in generale, comunque, i giochi appartenenti al brand consentono al giocatore di ispezionare con perizia ogni singolo oggetto, sul quale è possibile ritrovare sempre indizi e riferimenti al contesto da cui essi provengono.
Pur con un target fondamentalmente diverso, l’universo di Persona 5, così come quello di tutta la saga Shin Megami Tensei, racchiude in sé una carica fortissima per quanto concerne l’immaginario estetico della simbologia in generale. Il mezzo di cui si serve, però, è fondamentalmente diverso e si basa su una struttura completamente diversa: i tarocchi. Al netto della variazione sul tema, che non si presenta appoggiata su una vera e propria base di natura simbolica nel senso più classico, i rimandi a quelli sono il mito e le leggende che si nascondono dietro alle affascinanti raffigurazioni che capeggiano sulle carte dei tarocchi sono molteplici. Nel quinto capitolo “principale” ciò si vede, ad esempio, dal nome stesso con cui il protagonista si autodefinisce, ossia “Joker”, rappresentato dalla famosa carta del “Matto”.
Essa infatti rappresenta perfettamente la libertà, uno spirito libero, l’imprevedibilità, sposandosi perfettamente – o quasi – con la personalità con la quale viene raffigurato l’eroe della storia. Non soltanto la carta del “Matto” gode però di una simile attenzione, anzi. Ogni singolo personaggio introdotto arriva su schermo accompagnato da una simbologia ben precisa e, anche gli stessi antagonisti, nella loro spietata follia, si presentano perfettamente ancorati ad un collettivo ideologico ben preciso. Se a tutto questo si aggiunge che nel corso del gioco anche i potenziamenti e le varie tecniche sono strettamente legati al concetto dei tarocchi e alle sue sfaccettature, poi, il quadro può dirsi completo.
Alzi la mano chi almeno una volta nella propria vita “videoludica” non abbia giocato un capitolo della saga Assassin’s Creed, anche soltanto per pura curiosità. E, al netto dell’apprezzamento o meno di un comparto videoludico entusiasmante per molti ma anche tutto sommato insipido per altri, risulta oggettivamente evidente quanto essi risultino affascinanti a splendidi da vedere e da vivere sul piano estetico e narrativo. La capacità di mescolare la finzione tipica di un racconto alla realtà dei fatti storici a cui si ispirano è stata senza dubbio l’espediente più azzeccato nella produzione dei vari episodi della saga, offrendo così ai giocatori un mix senza precedenti di fascino estetico ricco di spunti di provenienza storica. Ciò avviene, chiaramente, anche e soprattutto attraverso una simbologia ricorrente e predominante, che risaluta uno degli elementi cardine della saga già dal primissimo capitolo, in realtà percepibile anche dallo stesso logo del gioco. Esso ricorda il simbolo massonico della lama e del calice, la cui genesi viene attribuita al “nostro” Leonardo Da Vinci.
Il triangolo sembra anche riconodursi al concetto di Trinità tipico della religione cattolica, seppur ciò non viene mai confermato apertamente. Non soltanto: durante le avventure di Desmond, protagonista indiscusso dei primi capitoli della serie, esplorando bene il mondo “parallelo” con il quale egli entra in contatto con le varie divinità che controllano il mondo, tra cui in particolare Giunone, è possibile osservare la presenza di simboli assimilabili a geroglifici che, in qualche modo, hanno anticipato l’ambientazione dei capitoli successivi, le cui gesta hanno sfruttato ambientazioni affascinanti quali l’antico Egitto, la Grecia dei grandi filosofi e, in futuro, a quanto pare la Penisola scandinava e tutto il suo incredibile bagaglio culturale.
Uno dei titoli più apprezzati di questa generazione, tant’è che il seguito diretto sarà una della esclusive al lancio di Xbox Series X è senza dubbio Hellblade: Senua’s Sacrifice. L’opera di Ninja Theory basandosi su un immaginario ricco e sfaccettato ha saputo ergersi come una vera e propria perla dell’ultima decade e, manco a dirlo, anch’essa si poggia con forza sulla cultura del simbolismo e della simbologia in generale. E, in che modo se non quello di rifarsi alla mitologia norrena, in una vesta oscura e incredibilmente macabra.
Nel suo lungo e funesto viaggio, la bella e tormentata Senua assisterà ad orrori di ogni sorta, ma entrerà anche in pieno contratto con una cultura ricca e variegata, rappresentata – manco a dirlo – da una simbologia ricorrente e ricercata. Le rune sparse per il mondo di gioco, le incisioni e le varie reliquie contengono infatti un sapere smisurato, assuefacente, ipnotico. Toccando una delle costruzioni con sopra un incisione è possibile udire un racconto, sempre diverso, in cui vengono narrate l’ascesa e la discesa di una civiltà divina come quella norrena la cui caduta viene raccontata con un ghigno stridente, spaventoso, che rende però l’esperienza generale ancor più memorabile.
L’anno appena iniziato si presenta assolutamente clamoroso (seppur funestato attualmente da alcuni rinvii poco graditi) sul piano delle uscite videoludiche, anche se ne si fa un discorso di potenziali esponenti capaci di basare le proprie fortune sul concetto del simbolismo come motore di tutto. Tra questi spicca su tutti Elden Ring il quale, seppur attraverso la distribuzione di pochissime informazioni, ha già dimostrato quanta rilevanza verrà riversata a questo aspetto nel prodotto finito. Partendo dal simbolo che ha accompagnato la presentazione del gioco che ricorda in tutto e per tutto, la triquetra, un simbolo antico e affascinante che si presta a numerose interpretazioni in base al culto religioso, ma non solo.
Esso infatti per gli antichi Celti raffigura l’aspetto femminile del divino, mentre per il culto cattolico sembra rappresentare la classica Trinità (Padre, Figlio, Spirito Santo).Non solo: la triquetra sembra anche rifarsi con forza al simbolo dell’infinito, della rinascita, del ciclo continuo, un concetto molto vicino a From Software, da sempre punto di partenza delle sue precedenti fatiche videoludiche. Impreziosito dalla penna sapiente di George R.R. Martin, che si occuperà della narrazione e della storia alle spalle del gioco, non vediamo l’ora di scoprire come lo stesso simbolismo, apparentemente predominante, verrà utilizzato in termini pratici, il suo ruolo e, soprattutto, da quale tipo di culto esso provenga. In ogni caso, ne siamo sicuri, ne vedremo delle belle. Nel senso stretto della parola.
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