Negli anni trascorsi a lavorare per la stampa specializzata ho scritto molti articoli che denunciavano questa o quella dichiarazione contro il medium, portando sempre fonti e argomentazioni poco interpretabili che mettevano i puntini sulle “i” quasi fossi il maestro delle elementari di bambini ignoranti (“nel senso che ignorano” – Giovanni Stolti, 1992). A volte la veemenza con cui ho esplicitato il mio “basta” alla demagogia spicciola riportata da grandi giornalisti della generalista mi ha richiesto una revisione del pezzo, non tanto in ottica di censura quanto di ammorbidimento dei contorni alla luce del fatto che, sovente, chi se ne usciva con “i videogiochi sono il demonio” non sapeva nemmeno di cosa stesse parlando. In altre parole: ho imparato a usare una tara.
L’OMS ha riconosciuto il “game disorder” come patologia
In quest’ottica, quando qualche giorno fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto ufficialmente la dipendenza da videogiochi come una patologia, definendola “gaming disorder”, io non ho avuto nulla da obiettare. Altri colleghi lo hanno fatto… e comprendo pienamente il loro punto di vista, perché da lì alla discriminazione il passo è breve. Vero è che al pari del gioco d’azzardo, dell’alcool, delle droghe – sigarette comprese – e di qualsiasi altra attività umana svolta in maniera scriteriata, anche il videogioco può causare dei danni all’individuo. La sfida per chi fa questo mestiere, così come per chi si trova a vivere in contesti familiari o lavorativi di non addetti ai lavori, è ora come allora quella di educare la massa non ludens a comprendere che non sono le esperienze interattive in sé a essere pericolose, quanto l’abuso di alcune di queste. Lo si sta facendo, piano piano, laddove anche sui quotidiani nazionali viene dedicato sempre più spazio al settore con firme di tutto rispetto.
Ma da dove siamo partiti? Mettiamo da parte gli sfottò di quando eravamo ragazzi e ci trovavamo davanti ai falò con gli altri che pomiciavano mentre noi imprecavamo contro le batterie scariche del Game Boy e concentriamoci sugli ultimi anni: ricordate quando Aldo Cazzullo ed Eugenio Scalfari definivano i videogiochi: “violenti, razzisti, orribili”, quindi suscettibili di essere combattuti con un “vaccino per respingerli” (Cazzullo, su Io Donna del 26 gennaio 2013), piuttosto che veicoli di comportamenti aberranti o di “ideologie distruttive”, in relazione al fatto che l’attività politica di una persona potesse essere traviata dal suo intrattenersi con un gioco su smartphone (Scalfari, su l’Espresso del 19 marzo 2013)? Io sì. Mi ricordo che ne parlammo tutti, per giorni, urlando con forza il nostro disappunto perché, diamine, possibile che qualcuno potesse inquadrare il medium in una cornice tanto stupida? Poi ci fu il caso di Grand Theft Auto V con tanto di Maria Rita Munizzi, presidente nazionale del Moige, che in occasione di un fatto di cronaca nera di quell’aprile colse la palla al balzo per dichiarare il nostro settore “un Far West senza regole”, con un sistema di classificazione insufficiente a “limitare l’acquisto di giochi violenti e immorali da parte dei minori”.
“Genitori zombi regaleranno GTA V ai figli affinché lo diventino anche loro” – Giulietto Chiesa, 2013
E di Giulietto Chiesa, classe 1940, non vogliamo riportare nulla? Chessò: “Genitori zombi regaleranno GTA V ai figli affinché lo diventino anche loro” piuttosto che, ancora nel 2013 ma alle porte del Natale: “È come se qualcuno andasse in un negozio e si comprasse una bomba a esplosione ritardata, e poi se la mettesse addosso per farsene maciullare”, sempre riferendosi all’IP di Rockstar Games? Ah, potrei continuare per molto eh, sia prima di quel 2013 che poi, arrivando appunto a pochi giorni fa e alla decisione dell’OMS citata in apertura. Potrei anche spostarmi fuori dai confini nazionali ed elencare le innumerevoli pubblicazioni su quanto fanno male i videogiochi e che la colpa delle stragi nelle scuole statunitensi è imputabile a Call of Duty, ma l’orizzonte in cui ci troviamo dovrebbe essere abbastanza chiaro già così. Ora: il punto non è che qualcuno possa pensare male di questa forma di intrattenimento, quanto che chi lo fa, spesso, parla a milioni di persone… molte di più di quelle che riusciamo a raggiungere noi con i nostri blog e le nostre realtà editoriali. Viene così a crearsi uno scollamento tra la società che assorbe informazioni fuorvianti o incomplete dai mass media e quella porzione di popolazione che, al contrario, usufruisce di un prodotto ben consapevole di quanto sia innocuo se usato cum grano salis. Questo discorso è valido per ogni aspetto della vita umana: dall’alimentazione alla religione, passando per abitudini sessuali e sportive. Di base, anche l’insalata può uccidere se usata come tappo per bloccare le vie respiratorie, ma nessuno mai si sognerebbe di accusare una verdura di essere pericolosa per la salute, giusto?
Nel 2011, dopo la strage di Oslo che causò la morte di 87 ragazzi a opera di un fondamentalista cattolico di estrema destra, il TG1 se ne uscì con un paio di servizi in cui additava i videogiochi come causa principale – se non unica – dei disturbi dell’omicida, solo perché tra le sue passioni c’erano quella per Modern Warfare 2 e Warcraft, mentre non faceva menzione della sua militanza tra le frange neonaziste, della sua inclinazione xenofoba, delle sue letture o dei suoi gusti musicali. Nello specifico, Augusto Minzolini e Virginia Lozito raggiunsero le case di decine di milioni di famiglie italiane instillando in loro la paura che giocare a uno sparatutto potesse traviare anche i propri figli, che potesse portarli sulla cattiva strada incitandoli alla violenza manipolando la loro volontà.
Il Movimento contro la disinformazione sui videogiochi meriterebbe di essere ripreso per fare da collettore di articoli sull’argomento
Voglio evitare di fare della sociologia spicciola con una digressione su quanto una fonte di informazioni legittimata dall’opinione pubblica, come appunto quella del TG1, sia influente sulla coscienza collettiva di un paese, ma è bene ricordare che tra i tanti giornalisti di settore che alzarono la mano per opporsi a questa lapidazione pubblica c’era anche Antonio Fucito, ideatore di Gameplay Cafè, che diede vita a una pagina Facebook denominata “Movimento contro la disinformazione sui videogiochi”, a cui aderirono più di 13 mila persone in pochi mesi e che, in collaborazione con altre realtà editoriali, organizzò una prima conferenza sul tema durante la Milano Games Week del 2011.
Potete rivedere il video integrale della tavola rotonda sul sito di Eurogamer.it a questo indirizzo: click. Tornando a monte, allora, la delibera dell’OMS che inserisce tra le malattie mentali quella della dipendenza dai videogiochi ha suscitato un tale dibattito tra giocatori e non, anche a sproposito, che probabilmente l’iniziativa di Antonio meriterebbe di essere ripresa per fare da collettore di articoli e segnalazioni sull’argomento, magari addirittura ipotizzando un nuovo confronto pubblico in concomitanza della prossima edizione della fiera milanese sempre nello spirito di raggiungere quante più persone possibili con un’informazione completa e lontana dalla demagogia con cui, troppo spesso, si parla negativamente della nostra più grande passione. Voi che ne dite, siete dei nostri?
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