Quante volte vi sarà capitato di sentire frasi del tipo: “i videogiochi incitano alla violenza”. Non è raro imbattersi in affermazioni di questo genere nelle conversazioni di tutti i giorni o tra le righe di importanti testate giornalistiche. Il messaggio è chiaro: il mondo videoludico è nocivo e deviante. Nonostante siano moltissime le voci impegnate a smentire tali dicerie, il pregiudizio rimane radicato nell’opinione pubblica e sembra davvero arduo da combattere.
Non si contesta il fatto che vi siano persone che commettono reati o atti tragici ispirandosi ai videogiochi, ma la colpa è da imputare davvero a questi ultimi? Sono i videogiochi a far perdere il contatto con la realtà oppure il problema è da rilevare su un altro piano? Queste sono domande che chi critica a priori non si pone, perché il solo porre tali interrogativi presuppone una riflessione sul valore morale che attribuiamo a un oggetto. Per farla semplice: una persona ne uccide un’altra usando un coltello. Diremo che il problema risiede nello strumento utilizzato oppure andremo a cercare il problema scavando più a fondo? Purtroppo molti amano le soluzioni e le risposte semplici ed è quindi sicuramente più facile e meno problematico incolpare lo strumento. Bucare la superficie infatti può far male, può portare a mettere in discussione le proprie azioni, le proprie abitudini e sé stessi.
Perché sembra esserci stato un aumento delle tragedie e dei reati commessi in seguito all’esperienza videoludica? Cosa è successo nel corso degli anni? È necessario chiamare sul banco degli imputati l’aumento della violenza o l’incredibile realismo grafico e rappresentativo dei videogiochi? O forse vi è stato un cambiamento sociale?
Torniamo un attimo indietro nel tempo, fermiamoci agli anni Novanta (più indietro non posso andare per ragioni anagrafiche, mi spiace, ndr). Ricordo benissimo interi pomeriggi passati a giocare con i miei amici fuori casa, libera, senza che nessuno mi ossessionasse con “attenta, ti fai male”, “oddio, non ti arrampicare là”, “hai le mani sporche, lavale subito” e via dicendo. Tutti eravamo così, liberi di sperimentare la terra, gli insetti, gli alberi del parco ed eventuali cadute. Organizzavamo funerali se trovavamo uccellini o lucertole morte, spesso uccise da qualche gatto. Eravamo liberi anche di gestire i litigi, senza che arroganti genitori intervenissero a difesa del proprio pargolo e anzi, se ci avessero provato, il figlio non avrebbe di certo accettato il loro aiuto (giammai! Che disonore…). Nella nostra piccola società di bambini potevamo sperimentare la vita reale in scala ridotta, costruendo un’identità forte, consci di quali erano le dinamiche di gruppo, i pericoli e gli eventi tristi che la vita può sempre riservare. Insomma, eravamo immersi nella realtà, senza l’asfissiante ansia del genitore iper-protettivo.
Il concetto di morte, sempre chiaro e presente
Sì, anche noi giocavamo ai videogiochi. Infinite ore passate in compagnia di Lara Croft, escogitando mille modi per uccidere il maggiordomo affinché la smettesse di stalkerarci nella tenuta dei Croft; di certo nella realtà non ci saremmo mai sognati di rinchiudere una persona fastidiosa in una cella frigorifera (anche se il desiderio c’era)! Non avremmo nemmeno mai finto di essere Big Boss, uccidendo realmente chi non ci piaceva, perché per noi morire significava non esserci più, sapevamo che cosa succedeva quando la vita lascia un corpo, lo avevamo sperimentato osservando gli uccellini o le lucertole del parco. Crescendo quest’idea è rimasta ben chiara poiché da piccoli avevamo elaborato il concetto di morte, di realtà, di responsabilità ed eravamo stati abituati alla gestione dei conflitti.
Durante il corso degli anni abbiamo assistito a un costante chiusura dei bambini nei confronti del reale, del confronto con l’altro e della naturalità della vita (e della morte). I genitori sono divenuti sempre più protettivi, cercando di evitare ai figli gli scontri, le delusioni e il confronto con la realtà vera; allo stesso tempo però, così facendo, li hanno lasciati totalmente esposti alla brutalità della televisione e dei videogiochi. Non avendo alcun riscontro di tali eventi negativi nel mondo reale, i bambini non hanno potuto sperimentare davvero il negativo, vivendolo solamente come parte dell’universo virtuale. Ecco quindi come fantasia e realtà finiscono per mescolarsi, come la morte non resta definitiva ma diviene temporanea. Ecco come dei bambini, studiando la battaglia di Verdun, suggeriscono innocentemente alla maestra: “ma tanto poi i soldati se vengono colpiti ritornano”.
Già, ritornano.
Certo, la tentazione di accusare un capitolo della serie Call of Duty è forte, ma significherebbe nascondere la polvere sotto al tappeto, senza affrontare il problema alla radice. Proteggere i bambini dalla tragicità della vita e dal conflitto significa esporli maggiormente a queste realtà, alle quali si approcciano senza possedere la capacità di filtrarle, di elaborarle. Un ragazzo che compie una sparatoria ispirandosi a Grand Theft Auto non è stato soggiogato dal videogioco, non ha perso il contatto con il reale, poiché probabilmente quel contatto non lo ha mai vissuto, interiorizzato.
Per lui l’universo virtuale era il mondo, dal momento che quello era il solo luogo che davvero conosceva. Un posto in cui non si è chiamati a rispondere in maniera personale delle proprie azioni, in cui a un errore si può sempre rimediare e dove nulla è irreversibile, nemmeno la morte. Un mondo che probabilmente è simile a quello che gli è sempre stato illustrato dalla famiglia, in cui esiste sempre il perdono, l’adulazione e dove le cose si sistemeranno sempre e in ogni caso. Ecco dove realtà e fantasia coincidono, dove “guai a parlare di morte ad un bambino”, dove essa non esiste, non è tangibile e non è vissuta (“l’uccellino dorme”, non è morto). Ed ecco come non è un problema premere il grilletto e sparare a qualcuno. Nella realtà, tanto poi torna. “E’ così nel videogioco.”
No, in realtà così è come te l’hanno sempre fatta vivere.
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Articolo davvero interessante. Componenti all'autrice!
Ti ringrazio! ^_^
Bravissima Agnese