Un’epoca di isolamento, una società disconnessa e “un viaggio per riconnettere il mondo”. Queste sono alcune delle frasi presenti nel trailer di lancio di Death Stranding, titolo originariamente sviluppato da Kojima Productions e distribuito da Sony Interactive Entertainment (PS4) nel 2019. Analogamente, il biglietto di presentazione dell’edizione del gioco per la stampa riportava la seguente frase: “le persone hanno costruito ‘muri’ e si sono abituate a una vita in isolamento”.
Queste parole, utilizzate per promuovere il videogioco, racchiudono molteplici significati, concetti esposti e assorbiti da Hideo Kojima (direttore artistico del gioco) e trasfigurati all’interno di Death Stranding. Successivamente all’uscita – e al porting su PC avvenuto nel corso del 2020 – Death Stranding è stato oggetto di discussioni e dibattiti tra fan e critici, a causa dei pareri estremamente positivi e negativi che è riuscito a suscitare. Prendendo le distanze da un’analisi tecnica e da una valutazione, l’intento di questo articolo (e degli altri che verranno) è quello di soffermarsi su uno o più elementi antropologico-culturali racchiusi nel videogioco, in grado di sviluppare una critica verso ciò che sta fuori dallo schermo.
Death Stranding si configura come un action-adventure open world ambientato negli Stati Uniti d’America sopravvissuti ad un cataclisma noto come “Death Stranding” (lo potete ammirare nella nostra splendida galleria fotografica). Il giocatore veste i panni di Sam Porter Bridges, un corriere che ha il compito di connettere le città rimaste attraverso una particolare rete infrastrutturale, in modo da ripristinare i legami tra i sopravvissuti sparsi per il territorio americano. Dalla prospettiva del gameplay, l’obiettivo del gioco è quello di effettuare delle consegne – variabili per numero di colli trasportati, difficoltà del percorso e tempo a disposizione – da un luogo all’altro. La narrativa progettata e implementata da Kojima è strutturata attraverso molteplici piani che configurano differenti dimensioni interpretative, realtà ludico-performative e livelli di lettura concernenti il ruolo e il significato dell’essere umano nella società contemporanea. Di fatto, rifacendosi al termine utilizzato dagli studiosi J. Murray, J. e K. Tanenbaum si può parlare di narrazione caleidoscopica, “in cui molte potenziali azioni e conseguenze sono presentate simultaneamente e sostengono la necessità di creare convenzioni per dare senso alle narrazioni in spazi frammentari”.
Kojima racconta il ruolo dell’essere umano nella società odierna
Il termine utilizzato dagli autori è qui ascritto alla struttura narrativa di Death Stranding, la cui vocazione fantasmagorica rimane immutata durante l’intera esperienza ludica. Tra gli elementi narrativi e ludici che caratterizzano il titolo, spicca indubbiamente l’isolamento sociale e la conseguente necessità di (ri)connessione. In Death Stranding, i superstiti che abitano il mondo di gioco comunicano attraverso la Rete Chirale – una sorta di internet; Sam ha la responsabilità di collegare le città degli Stati Uniti mediante tale connessione, alleviando lo stato di solitudine sociale e culturale in corso. Quest’ultimo è il punto di partenza e di arrivo di Death Stranding, non solo narrativamente ma anche sul piano della produzione del gioco stesso, vale a dire su un livello di realtà più vicino al giocatore. Notevolmente strano e complesso, il titolo di Kojima è una meditazione estesa sulla solitudine e sui legami umani.
In un’intervista rilasciata al Time poche settimane prima della distribuzione di Death Stranding, Kojima ha affermato di aver sofferto per anni di solitudine, di sentirsi incompreso e isolato dalla società contemporanea. L’autore si è spesso definito “diverso” e per questo incapace di creare connessioni permanenti e stabili con altri individui. Il sentimento espresso da Kojima è qualcosa di estremamente noto all’interno dell’attuale network society: in un mondo iperconnesso in cui la quotidianità si prefigura come forma di interazione con chat e social network, sono molte le persone in grado di appellarsi alla sensazione di solitudine descritta da Kojima. Death Stranding si presenta quindi come un nodo di conversione dei timori e sentimenti di Kojima, che prendono vita in una narrazione interattiva in grado di espandersi a concetti quali esistenzialismo, automazione, dipendenza e identità. Inoltre, all’interno del mondo di gioco, Kojima associa alla solitudine il senso di non appartenenza – a una comunità, a una cultura –, una deriva dell’isolamento sociale causato dal “Death Stranding” e dalla conseguente esclusione e dislocazione.
Guardando al panorama videoludico, è possibile affermare che i videogiochi tendano a combattere la solitudine e non a evocarla o evidenziarla. Per esempio, un titolo sparatutto propone un’azione incessante e ritmata, un open-world offre ricompense – oggetti, loot, risorse – in modo continuativo. Death Stranding potrebbe essere il primo titolo tripla A che sfrutta la solitudine (fuori e dentro lo schermo) come strato di fondo su cui dipingere il resto. L’ultimo lavoro di Kojima riesce a creare una dimensione di intimità nel rapporto tra giocatore e avatar. Viviamo e abitiamo il corpo di Sam spostandolo nello spazio e nel tempo, facendolo soffrire e rendendolo felice, trasportando, guidando, dormendo e persino urinando nei suoi panni. Lo stesso protagonista rompe la quarta parete in momenti specifici del gioco, entrando “in contatto” con il giocatore – ironico e paradossale considerato che il personaggio di Sam soffre di aptofobia. Ma non solo: i lunghi viaggi da un insediamento all’altro compiuti dal giocatore/Sam, lasciano spazio alla solitudine. Il mondo di gioco, gli Stati Uniti rappresentati in Death Stranding, si presentano come una terra desolata, spoglia e aliena, in cui l’incontro con l’altro è estremamente raro e talvolta pericoloso. In questo “silenzio assordante” – accompagnato dalla voce e dalle note musicali di Low Roar – Death Stranding lascia spazio, da un lato, al pensiero e alla riflessione e, dall’altro, alla raccolta di risorse e materiali perduti o abbandonati.
La solitudine e l’isolamento sono le emozioni che permeano le prime ore di gioco di Death Stranding. L’intento di Kojima però, non è mai stato quello di limitarsi a trasporre una rete di sensazioni negative ma di evidenziarne la possibile soluzione. Ecco che entra in gioco una delle caratteristiche più peculiari di Death Stranding, legata al gameplay: oggetti, materiali, risorse e costruzioni abbandonate altro non sono che il lascito, il residuo della presenza di altri giocatori. Di fatto, il gioco offre un’esperienza come titolo single player: ciò che non è chiaro sin da subito però è la configurazione della componente multigiocatore. Analogamente ad altri titoli di matrice nipponica – i giochi From Software ne sono un esempio –, Death Stranding propone un gameplay ibrido tra singolo e multigiocatore. Questa meccanica unica svela il lato positivo delle sensazioni e della visione di Kojima: i giocatori affrontano un viaggio che ha un duplice intento, quello diegetico di riconessione delle città americane, e quello extradiegetico di connessione e contatto reciproco, che punta a collaborare e cooperare nel tentativo di sopravvivere, insieme. Il giocatore/Sam può scegliere se costruire un ponte, un veicolo o un edificio da condividere con altri utenti che, connessi allo stesso server, potranno goderne, ricambiando ove necessario.
Senza gli altri siamo persi
Questo elemento mantiene i giocatori connessi, portando a una vicendevole collaborazione in grado di allontanare la sensazione di solitudine che caratterizza i primi momenti e i primi viaggi virtuali in Death Stranding. Gli oggetti, i materiali e le risorse lasciate da altri giocatori non sono altro che simboli di un precedente passaggio e che, potenzialmente, mostrano come le terre e gli insediamenti da collegare siano già stati connessi in un presente altro e parallelo. Astraendoci dal gioco e tornando nuovamente alla realtà, Death Stranding, con la sua storia e il suo gameplay, non fa altro che proporre una soluzione alla solitudine culturale che condanna molti individui della contemporanea “società delle reti”. Nell’intervista summenzionata, Kojima afferma che nel mondo “in questo momento, la comunicazione è eccessiva, sia in quantità che qualità”; a detta dell’autore le forme di iperconnessione e ipercomunicazione generano un isolamento sociale e culturale in grado di portare a un alienamento spontaneo dagli altri.
Guardato sotto questa luce, Death Stranding è stato in qualche modo profetico, poiché l’emergenza sanitaria dell’ultimo anno e mezzo non ha fatto altro che esacerbare quel sentimento di solitudine e isolamento culturale soggiacente – al gioco e alla società. Senza gli altri siamo persi. Quando la realtà diventa distopica come un videogioco, occorre rispondere con il linguaggio del videogioco. Giocare ed esperire Death Stranding significa comprendere l’altruismo e affrontare la solitudine, azioni che al momento sono quanto più che mai necessarie nella realtà del mondo contemporaneo.
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